L’associazione culturale torinese Il Ponte propone per «La Balena Bianca» una serie di interviste a critici letterari di poesia contemporanea italiana. L’occasione offerta dall’intervista permette di articolare meglio un dialogo che non dimentica di coinvolgere e interrogare i critici selezionati e parte delle loro opere e produzione, in modo da circoscrivere di volta in volta gli argomenti enucleati e proiettarli verso ambiti problematici più ampi e generali. Apparirà evidente, così facendo, quanto nessuna ricerca critica sia inizialmente concepibile se non, volendo chiosare un’affermazione di Gianfranco Contini, «come esercizio sui contemporanei».

Nella settima intervista (qui le puntate precedenti: #1#2#3, #4, #5, #6), Riccardo Deaiana, Federico Masci e Jacopo Mecca de Il Ponte dialogano con Stefano Giovannuzzi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Perugia. Tra le sue opere, la curatela de L’opera poetica di Amelia Rosselli (2012) e le monografie La persistenza della lirica. La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini (2012) e Nello splendore della confusione: anni Settanta. La letteratura fra storia e società (2021).


1) In termini di metodo, la tua attività critica può essere caratterizzata, come tu stesso suggerisci, da un esercizio di ricostruzione che, oltre a dedicare attenzione «al singolo autore e alla monografia», sceglie di concentrarsi su «ampi quadri storici e culturali, nel tentativo di mettere a fuoco i processi in corso e cogliere uno “spirito del tempo” al di là delle pronunce individuali». Questa dichiarazione può essere vera per buona parte della tua produzione, ma non basta a circoscrivere un percorso che inizia da Dante e Boccaccio per poi incontrare lo studio della poesia novecentesca attraverso le figure di Attilio Bertolucci e Amelia Rosselli. Cosa ti sei portato dietro dell’esperienza di studioso di letteratura medievale e cosa hai voluto programmaticamente abbandonare, soprattutto in rapporto ai futuri sviluppi dei tuoi studi?

No, certo non escludo affatto lo studio del singolo autore o la monografia. Quello che invece trovo sempre più inutile è un discorso autoreferenziale, in cui la letteratura può essere affrontata solo con strumenti certificati come coerenti con il sistema: sostanzialmente la critica stilistica (nelle sue varie declinazioni), la linguistica, la filologia, o anche strumenti apparentemente più aggiornati, dalla semiotica, allo strutturalismo, alla narratologia. L’isolamento del testo e dell’autore mi lasciano veramente perplesso. Mi pare proprio che non bastino a comprendere il senso di un’operazione letteraria. Oggi in modo particolare. La letteratura non è più garantita come valore in sé, nemmeno retorico. E credo che per ristabilirne il senso sia fondamentale il raccordo con la storia e la società, il che vuol dire riflettere sul modo in cui la letteratura interagisce con la società, cambiando nel tempo: mi suona bizzarro ripetere oggi queste cose, quando le scriveva alla fine degli anni Quaranta Lanfranco Caretti recensendo le traduzioni di Lukács. E aveva ragione a farlo: era urgente. Come lo è adesso. La lezione della grande letteratura è un legame strettissimo con la storia: anche della letteratura più di consumo, che nella storia acquista un suo senso. Dante senza il confronto con la storia non significherebbe nulla: il Paradiso è il luogo dell’utopia, ma anche di una radicale contestazione storica e sociale. Per certi versi modernissima, perché fatta da un vero reazionario. E la radicalità vale anche per Boccaccio: altro che epica dei mercanti o “Boccaccio medievale”! Il Decameron è la presa d’atto di un mondo in profonda trasformazione, in cui le categorie e le istituzioni tradizionali sono fuori gioco. Da questo punto di vita non sento una soluzione di continuità nei miei interessi. In fondo faccio la stessa cosa con la contemporaneità: capire che ruolo abbia oggi la letteratura, senza pregiudizi. In un discorso che non è più esclusivamente letterario. Tutti gli strumenti sono utili per ricollocare la letteratura in rapporto alla cultura e alla società. Ci sono anni in cui ho praticato la filologia in modo più impegnativo: penso a Campana e al Più lungo giorno. Ma anche in quel caso mi interessava la storia, Campana in relazione ai suoi contemporanei, i fiorentini delle riviste. Che ci abbia riflettuto o meno, è stata sempre la lezione di Caretti. In cui più passa il tempo e più mi riconosco.

2) Nello splendore della confusione: anni Settanta. La letteratura fra storia e società, edito da Metauro nel 2021, si presenta come una indagine sulla letteratura in Italia negli anni Settanta ma anche come un tentativo storiografico di interrogare l’immagine del periodo che si definisce oggi. Tentare di osservare quel decennio da una distanza critica interessata ad evitare eccessive semplificazioni significa dover rivalutare tutta una serie di ricostruzioni già dedicate allo stesso tema. Contro quali rappresentazioni degli anni Settanta la tua proposta vorrebbe definirsi?

In quel volume avevo due obiettivi, che alla fine convergono. Il primo sembra essere tutto interno alla letteratura: aleggia sempre nell’aria come dopo i Montale, i Sereni, i Caproni, i Pasolini ecc. la grande poesia sia finita. Cavalli, De Angelis, Anedda, Benedetti, forse D’Elia, Buffoni, Fiori sono presenze che restano, ma in uno scenario complessivo in cui non sembra possibile mettere ordine: Parola plurale ne è lo specchio. Gli anni Settanta sono una stagione straripante di poesia, ma per affrontarla non si può più partire da Montale. Si è prodotta una cesura netta, più forte della rottura provocata dal Gruppo 63. Per i poeti che esordiscono Montale e Sanguineti stanno quasi sullo stesso piano: parlano una lingua che non è più sentita attuale. Siamo anche nel pieno dello sviluppo di una società di massa, che cambia radicalmente l’orizzonte della scrittura: tutti hanno diritto di parola. Il bisogno esistenziale di esprimersi può battere strade diverse, ma coincide quasi sempre con il rifiuto delle istituzioni della letteratura. Se si ignora la novità, non si comprende lo scarto culturale che si matura: si resta dentro una tradizione consolidata, quella del mengaldismo, linguistica, che non dà conto di fenomeni culturali più ampi e complessi. Partire dalla cesura generazionale, dal rifiuto dei modelli, consente di individuare l’orizzonte con cui far interagire la poesia. Sul no al romanzo non ci sono dubbi (come non c’erano stati all’inizio del Novecento, in una situazione generazionale non diversa). C’è pochissima narrativa che racconti dall’interno le aspirazioni dei giovani. Su questo fronte generazionale si è abbattuta una doppia censura: fin dagli stessi anni Settanta la critica più istituzionale si è accanita a demolire la confusione intellettuale e creativa dei giovani. Una censura artistica e letteraria a cui se ne è sommata una storica e politica. Leggere gli anni Settanta come gli anni di piombo fa scomparire dietro il terrorismo un’intera generazione, le toglie legittimità. Di quest’operazione è responsabile tanta storiografia – che ha ereditato le posizioni del vecchio PCI – ma anche buona parte della narrativa contemporanea. Che cosa c’è di più agevole di un romanzo noir con al centro le trame terroristiche? Mistificazione, o banalizzazione, e mercato vanno braccetto. Mettere a nudo le molte mistificazioni è lo scopo del libro. Per ripartire con un discorso libero da pregiudizi sugli anni Settanta: un decennio rispetto al quale i conti sono ancora aperti.

3) Anche il volume del 2012 La persistenza della lirica. La poesia italiana del Secondo Novecento da Pavese a Pasolini, sembrava muovere dalla volontà di contestare alcuni modi consueti di pensare la storia delle forme poetiche tra prima e seconda metà del Novecento. Qui tramite una serie di saggi che toccano, tra gli altri, autori come Pavese, Sereni, Bertolucci, l’obiettivo era criticare una discontinuità e individuare la continuità, nel segno appunto della persistenza, di un determinato codice lirico fino alla fine degli anni Cinquanta e all’interno dei Sessanta. Quale ruolo hanno avuto, all’interno di questo contesto, le opere di Fortini e Pasolini?

Quel libro era il bilancio di una riflessione condotta da anni. Molto influenzata da un’idea di continuità della poesia come lirica, malgrado la facile schematizzazione corrente secondo la quale la guerra avrebbe avviato una nuova stagione. Con la fine dell’ermetismo. In realtà oggi mi appare molto più complesso, come ogni trapasso. E che lo sia lo dimostrano proprio Pasolini e Fortini. Tra le figure più contraddittorie che si possano immaginare: proprio per il loro essere radicate nella cultura poetica degli anni Trenta. Lirica. Sono dei lirici che hanno sentito la pressione della storia piegandosi all’impegno verso la realtà. Restando però lirici; ed elaborando la perdita di ruolo della lirica come lutto. È evidentissimo in Pasolini, ma anche in Fortini. Nei saggi della seconda metà degli anni Cinquanta – La libertà stilistica, 1957 – Pasolini tenta un difficile equilibrio, immaginando una sorta di zona franca tra ermetismo e neorealismo: la dice lunga sulla sua resistenza a mettere la parte una concezione lirica della poesia. Almeno fino a dopo Poesia in forma di rosa. Lo scenario cambia con Trasumanar e organizzar: ma dalla metà degli anni Sessanta Pasolini rimette in discussione tutti gli istituti letterari. Si sposta su altri linguaggi, teatro e cinema, soprattutto. La resistenza di Fortini è persino più tenace. Ancora in Metrica e biografia, 1980, rivendica, suo malgrado, un legame che non si può sciogliere con la lirica (e sullo sfondo c’è sempre l’ermetismo). Suo malgrado perché il linguaggio lirico – la «poesia vestita da poesia» – è per lui lo stesso dei suoi avversari politici. È del resto interessante il modo in cui attraverso il surrealismo francese fra anni Quaranta e Cinquanta abbia cercato di traghettare la poesia lirica oltre la frana dell’ermetismo. Nella poesia di Fortini il surrealismo diventa una forma ‘storicizzata’ di persistenza lirica: la Poesia delle rose è questo. Che ruolo ha avuto la posizione, diversa, di Pasolini e di Fortini? Con un equivoco hanno cercato di far sopravvivere la lirica, quasi di contrabbando. E all’insegna del lutto sono rimaste figure esemplari: penso a Pasolini (e Fortini) per Gianni D’Elia o a Fortini per Anedda. Lasciando però in eredità un’idea di poesia come lutto per la lirica. Senza esprimere un giudizio di valore, va detto che un merito l’ha avuto il Gruppo 63: liquidare l’equivoco. Con gli anni Settanta si può tornare alla lirica senza la pratica del lutto. Per questo i giovani, i milanesi in particolare, sono stati accusato di neo-ermetismo: certo, non praticavano il lutto, che era diventato lo statuto ufficiale della poesia.

4) Lo studio di Amelia Rosselli e della sua poesia ha impegnato molta parte della tua attività critica e ti ha permesso di considerare e tal volta riconsiderare la produzione dell’autrice in relazione al contesto culturale e storico-letterario del secondo Novecento, ma non solo. Infatti, soprattutto con Amelia Rosselli: biografia e poesia (Interlinea, 2016) hai tentato di affrontare uno dei problemi più spinosi degli studi letterari: il delicato rapporto tra la biografia di un autore e la sua opera. Certo, la vicenda umana (la malattia) di Rosselli sembra consentire con più facilità tale approccio. Tuttavia Rosselli non appare un caso isolato nel secondo Novecento, anzi sembra far parte dei «“destini generali” di una lirica in cui la biografia è l’oggetto che mette in crisi e minaccia di far deragliare il discorso poetico, mostrando la presenza di ragioni altre dietro quelle che a prima vista parrebbero questioni tecniche e formali» (2016, p. 7). Che cosa intendi? Puoi farci qualche altro esempio? Per quali autori del secondo Novecento credi possa esser utile riconsiderare il rapporto tra biografia e forme della poesia?

So bene che il rapporto fra l’opera e la biografia dell’autore può suscitare perplessità, anche se ormai la riflessione sulla ‘supposta’ morte dell’autore e la riduzione conseguente dell’opera a testo sono abbastanza datate: sono senz’altro servite nel contesto storico degli anni Sessanta e Settanta. Oggi non mi pare più. Certo, senza la biografia (o il vissuto) mi pare molto difficile capire la funzione della letteratura in Rosselli: luogo di elaborazione della biografia, ma anche schermo che protegge e tiene a distanza la biografia. Si tratta di un rapporto complesso, in cui entra senz’altro in gioco anche il disagio mentale. La biografia sembra giocare un ruolo importante, attirando inesorabilmente la poesia verso di sé: non è un fenomeno che interessa la sola Rosselli. Cattafi funziona allo stesso modo di Rosselli: una scrittura diluviale, in cui è impossibile o quasi isolare il singolo testo poetico; distruzioni sistematiche di testi; infine un rapporto strettissimo tra la biografia e l’opera. La scrittura rischia di deragliare, è fuori controllo. E lo stesso accade, negli stessi anni, con Lorenzo Calogero. Si dirà che sto parlando di psicotici o marginali. Non sono però i soli. Sandro Penna, per esempio. È quasi certo che dopo il 1957 non scriva più niente, o scriva pochissimo: l’interferenza fra l’opera e il vissuto produce vuoti e dilazioni nell’opera. Stranezze – l’ultima raccolta – è costruita con testi anteriori al 1957. Neanche per Pasolini il discorso è molto diverso. La serie ‘canonica’ Poesie a CasarsaLa meglio gioventù Le ceneri di Gramsci  – L’usignolo della Chiesa cattolica – galleggia su una mole di testi dispersi o parzialmente editi ben maggiore delle raccolte canoniche. E non dimenticare Fortini: la vicenda di Poesia ed errore è significativa. Fortini non sa selezionare i testi da inserire nel libro. Il campo si allarga facilmente. Bertolucci è solo apparentemente diverso: in Lettera da casa (La capanna indiana) crisi esistenziale e crisi della poesia coincidono. La camera da letto tenta di aggirare le secche della biografia ristabilendo un nesso con la società. La perdita del ‘mandato sociale’ che i poeti sperimentano nel secondo dopoguerra finisce per schiacciare in modo traumatico la poesia sulla biografia. Affrontare questo nodo storico e sociale significa rimettere insieme le tessere in un mosaico che consente di leggere la letteratura in rapporto al suo tempo e ridarle un senso.


Profili bio-bibliografici

Il Ponte è un’associazione di poesia e critica letteraria, nata a Torino dall’impegno di Riccardo Deiana, Federico Masci, Jacopo Mecca e Francesco Perardi. Organizza da marzo 2018 incontri con i poeti italiani contemporanei nel contesto della libreria indipendente Il Ponte sulla Dora. Collabora con «L’Indice del libri del mese», «Avamposto» e più recentemente con «La Balena Bianca».


Stefano Giovannuzzi insegna letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi Perugia.  I suoi interessi spaziano dal primo Novecento (Campana, di cui ha ripubblicato Il più lungo giorno (2004 e 2011), alla stagione fra le due guerre (la ristampa di S. Quasimodo, Acque e terre, 2016), al secondo dopoguerra e agli anni Sessanta (Pasolini, Fortini, Sereni, la neoavanguardia, ma anche Vittorini e il dibattito intorno a Industria e letteratura), per approdare infine agli anni più recenti: la ripresa della poesia nel contesto sociale e culturale degli anni Settanta e Ottanta.