Il gruppo di lettura torinese Sul ponte diVersi propone per «La Balena Bianca» una serie di interviste a critici letterari di poesia contemporanea italiana. L’occasione offerta dall’intervista permette di articolare meglio un dialogo che non dimentica di coinvolgere e interrogare i critici selezionati e parte delle loro opere e produzione, in modo da circoscrivere di volta in volta gli argomenti enucleati e proiettarli verso ambiti problematici più ampi e generali. Apparirà evidente, così facendo, quanto nessuna ricerca critica sia inizialmente concepibile se non, volendo chiosare un’affermazione di Gianfranco Contini, «come esercizio sui contemporanei».

Nella sesta intervista (qui, qui, qui, qui e qui le puntate precedenti), Federico Masci e Jacopo Mecca del gruppo Sul Ponte diVersi dialogano con Paolo Febbraro, poeta, traduttore e saggista, autore di antologie e saggi come Poesia d’oggi. Un’antologia italiana (Elliot, 2016), Ricezioni. Poesia straniera in Italia (Elliot, 2017), L’altro novecento. Poeti italiani (Elliot, 2018) e Le grandi traduzioni. Versioni di poeti (Elliot, 2019), Poesia allo stato critico (Inschibbolet Edizioni, 2021).


1) Se è vero, come dichiari nell’introduzione dell’antologia poetica L’altro Novecento, che l’utilità di disporre un canone di autori e opere, si manifesta dal momento in cui diventa possibile mettere «ordine nella congerie dei nomi»[1] per poi salvare degli elementi significativi all’interno di «un numero di autori altrimenti troppo grande»[2], è vero anche che proprio a causa di un lavoro di questo tipo possono andare persi quelli che definisci i tratti connettivi di una tradizione letteraria. Vale a dire gli scrittori misconosciuti ma rintracciabili, «che riposano sugli scaffali delle nostre biblioteche nazionali, e che tuttavia sono riconoscibili in filigrana nei versi dei loro colleghi più celebrati, e ancora parlano nei loro epistolari, e ne hanno nutrito le poetiche, determinato le svolte»[3]. Questa volontà critica giustifica, come si vede, la sua validità nel campo della poesia italiana del Novecento. Quali altre raccolte o lavori critici, recenti o meno, secondo te, mostrano di dialogare con la stessa volontà critica che ha animato il tuo modello antologico? E in generale quanto ti sembra diffusa, nel mondo della manualistica scolastica, la capacità di provare ad andare oltre alle opere e agli autori canonizzati?

PF: Proprio recentemente, una collega insegnante di italiano, che è anche una scrittrice, Annalisa Comes, mi ha detto: «Abbiamo un problema di canone: nei nostri manuali ci sono venti pagine su Calvino e venti righe sulla Morante». In queste settimane, le sto rispondendo idealmente con un saggio, che presto terminerò. Credo che Comes abbia ragione, anche se sono tutt’altro che attento ai manuali scolastici: proprio a causa della loro “staticità”, da tempo – pur avendone per forza adottato uno, molto buono – il mio lavoro in classe ne prescinde quasi del tutto, e in misura crescente via via che ci si avvicina al Novecento. Del resto, è uno dei pochi vantaggi dell’essere io stesso un uomo e uno scrittore ormai navigato: il canone scolastico – con tutti i miei difetti – ormai posso permettermi di farmelo da solo. A titolo di esempio, ancora si dà molto spazio a Ungaretti e ben poco a Palazzeschi o Clemente Rebora o Camillo Sbarbaro. Di un gigante come Primo Levi i manuali registrano solo l’opera di memorialista, e non quella di narratore geniale. Pasolini è ormai stato santificato, ma credo quasi nessuno nelle scuole italiane abbia mai letto cinque pagine di Nicola Chiaromonte, di Savinio, di Brancati, di Flaiano, di Pontiggia. Tutto questo, comunque, ha un’importanza relativa: decisiva, nella scuola, è piuttosto la preparazione degli insegnanti, il meccanismo di reclutamento, i loro stipendi. Se uno Stato gioca al ribasso in quel campo, si autocondanna. Quanto all’“altro Novecento”, a un possibile percorso che tocchi i cosiddetti “centri minori”, dovrebbero essere i bienni specialistici successivi alle lauree brevi ad attivarsi. Chissà quante e quali trame si potrebbero ricostruire leggendo gli epistolari, controllando le date delle prime stesure. Ricordo che, già molti anni fa, allestendo la raccolta dei Poeti italiani della «Voce», aggiunsi diverse pagine di una cronologia relativa ai primi anni dello scorso secolo, in cui mese per mese, e giorno per giorno, si susseguivano date di edizioni, brani di lettere e di recensioni. Era davvero una piccola storia fragrante, che mostrava quanto concreta è la successione di opere e idee. La letteratura è una concatenazione di tradizioni e ispirazioni; la storiografia e la manualistica letterarie, invece, soffrono ancora di idealismo. È una forma di nobilitata pigrizia. Pochi vi reagiscono: ma se leggerete i saggi di uno scrittore notevolissimo come Matteo Marchesini forse riuscirete a non perdere ogni speranza.

2) Tra gli altri scopi evidenti in L’altro Novecento, c’è quello di «compiere un’azione di conoscenza, e forse di riconoscenza», concentrandosi su «poeti che sono stati protagonisti d’intere stagioni, hanno vinto premi, diretto collane, e poi si sono inabissati, o anche soltanto immersi appena sotto il pelo dell’acqua»[4]. In questo senso si può arrivare persino a sostenere che «forse i poeti più dimenticati sono quelli che gli altri [poeti] hanno assorbito più perfettamente»[5]. A ben vedere poi queste considerazioni sono un cardine di una porta che apre su spazi potenzialmente infiniti, tutti da esplorare: rimandi tra poeta e poeta, citazioni o allusioni più o meno volute, confronti e dialoghi all’interno delle opere di due o più autori, plagi. Puoi approfondire meglio questo discorso e fornire alcuni esempi? Note sono per esempio alcune vicende tra poeti del canone, basti pensare agli episodi tra Penna e Montale o Penna e Saba; ma forse poco conosciute sono ancora quelle tra poeti del canone e poeti che da esso sono stati esclusi. Puoi provare a tracciare alcune direzioni in questo senso?

PF: Bisogna uscire dal paradigma del grande genio che rappresenta un’epoca, e di una certa epoca che si fa rappresentare da un certo genio. Realismo? Verga; Decadentismo? Svevo e Pirandello; Grande Guerra? Ungaretti; Poesia moderna? Montale (il nostro Eliot); Prosa moderna? Gadda (il nostro Joyce); Secondo dopoguerra? Carlo Levi e Pavese; dopo il 1960? Calvino e Pasolini, con quest’ultimo valido per sempre, fino a noi e oltre, per le sue doti di profeta. Quando si cercano i legami più evidenti tra la Storia politica e quella letteraria, si ricorre sempre a ciò che di più araldico ed esemplare offre il convento. Naturalmente, però, in questo caso non si collega la Storia alla Letteratura, ma un’idea o un’ideologia a quella serie di opere che quell’idea o ideologia consente di vedere. Anni fa polemizzai con Giulio Ferroni quando pubblicò il volume Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. Capisco bene che la fine, il tramonto, esercitino un grande fascino sui letterati: la morte della poesia, o del romanzo, o l’eutanasia della critica, sono da tempo argomenti triti. Da poeta, io stesso ho il desolato sentimento di un mutamento radicale e irreversibile. Ma non lo coltivo e non me ne faccio schermo. Per quanto i miei malumori s’infittiscano, non dichiarerei mai di essere l’ultimo poeta. Ormai è come se riuscissimo a vedere la letteratura soltanto come un malato terminale che sul letto di morte sta raccontando le belle storie del passato. Nei più agisce infatti una sorta di “avanguardismo accademico” che rende sempre più speciosi i metodi d’indagine e sempre più assottigliati, inverosimili, i risultati delle analisi, evitando il vero scoglio del giudizio di gusto, e la ricerca – come dicevate nella domanda – delle autentiche vicende storiche, degli scambi, degli intrecci, delle reciprocità. Non sta a me fornire esempi: mi vengono in mente le relazioni epistolari e di amicizia fra Caproni e Betocchi (chi legge più Betocchi?), il lavoro di riviste come «Il mondo» di Pannunzio o «Tempo presente» di Silone. Ma anche andare più indietro nel tempo è fruttuoso: da qualche tempo sto prendendo molti appunti sulla narrativa italiana (e non solo) del secondo Ottocento, che la vulgata critica incentra sulla grandezza di Verga. Non so quando e come, ne verrà fuori un libro, nel quale fra l’altro cercherò di mostrare come la grandezza di Verga non c’è, non esiste.

3) Un atto critico ad alto potenziale di mediazione può essere facilmente rappresentato dall’esercizio della traduzione, come testimonia il tuo saggio Tradurre è un incontro, contenuto nel volume Poesia allo stato critico. Saggi e interventi, e come è evidente dalla curatela de Le grandi traduzioni: versioni di poeti. La traduzione d’autore poi, lavoro tramite il quale «quasi tutti i protagonisti della nostra letteratura hanno cercato e trovato all’estero degli interlocutori privilegiati, a volte gemellandosi con autori capaci di scoprire in loro itinerari espressivi complementari»,[6] diventa potenzialmente uno strumento utile per configurare «unintersecazione di voci in dialogo e in dialettica»[7] capace di avvicinare, in particolare tra Otto e Novecento, autori ed opere italiane ed europee. In molti casi ciò che si cerca di individuare, dietro l’incontro tra due voci o tra due epoche, sono i momenti in cui, per un autore, «tradurre ha significato operare una piccola o grande svolta nel proprio itinerario»[8]. Volendo solo rimanere nel Novecento italiano, quali sono i casi più significativi che ti vengono in mente?

PF: Da tempo va di moda affermare che “noi siamo ciò che mangiamo”. A un poeta potrei dire: “Dimmi chi traduci e ti dirò chi sei”. Ad esempio, a lungo Caproni è stato letto in continuità con Saba e Penna, come esponente di quella linea “in chiaro” della poesia italiana del Novecento che è stata opposta al Novecentismo simbolista-ermetico-avanguardistico. Ebbene, studiare il Caproni traduttore di Baudelaire, Verlaine, Apollinaire, Prévert, Lorca, Char (oltre che della prosa di Proust, Céline, Cendrars) avrebbe aiutato a uscire dall’equivoco. Caproni non ha quasi nulla a che fare con Saba e Penna, è un “novecentista” della più bell’acqua; a parte la parentesi del Seme del piangere e del Congedo del viaggiatore cerimonioso, libri che tanto mi segnarono all’inizio della mia attività letteraria, la sua poetica è incentrata sull’assioma secondo cui «Le parole. Già. / Dissolvono l’oggetto». Assioma ad alta tipicità “moderna”, un po’ trito, e anche molto dubbio: dacché le parole sono oggetti anch’essi, e gli oggetti – da parte loro – le parole le suscitano, non le dissolvono.

In generale, tradurre è l’attività grazie alla quale un poeta articola la propria esperienza, diventa il più brillante dei prestanome o dei ghostwriters, attinge degli armonici preziosi e altrimenti insospettabili. I cosiddetti “quaderni di traduzioni” sono dei veri e propri libri poetici d’autore, da godersi come godiamo gli esercizi a corpo libero di un atleta prestante o di una aggraziata ginnasta. Un vero poeta è in grado di mettere a frutto, per sé e per i lettori, la famosa “impossibilità” della traduzione. Ogni rapporto, anche e soprattutto quello amoroso, è basato su una quota più o meno grande di fraintendimento: una comunicazione limpida e univoca non si dà in natura. E allora, se la poesia è ciò che va perduto nella traduzione, anche la vita è ciò che va perduto vivendo. Io direi di prenderla bene, e di metterci a lavorare per rendere gli equivoci più complessi e affascinanti, più creatori.

I migliori esempi novecenteschi li conosciamo: Solmi, Montale, Fortini, Caproni, Sereni, Luzi. Ma più conta, a questo punto, evidenziare gli autori di oggi, che in condizioni enormemente più difficili rispetto a quelle degli autori del pieno Novecento recano in italiano brani scelti delle tradizioni non italiane. I primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Franco Buffoni, Annelisa Alleva, Daniela Marcheschi, Fabio Pusterla, Edoardo Zuccato.

4) In Poesia allo stato critico si sottolinea sempre più la necessità di esercitare la poesia non solo nella sua forma creativa ma anche in quella critica; non solo perché due forme sono in realtà due stati della stessa sostanza chimica, cioè la poesia, ma anche perché il loro legame è ineludibile, dal momento che «la massa acritica degli scriventi ha messo i poeti in uno stato critico, dal quale è difficilissimo riemergere. E questo tanto più nel corso degli ultimi decenni, con internet, grazie al quale “pubblicare” poesia è un atto sempre virtuale e ineffettivo»[9]. Puoi approfondire quali sono i termini della reciprocità tra questi due stati? Come avvengono i passaggi da uno stato all’altro, anche a partire dalla tua attività di poeta e saggista? E infine, come si esercita una poesia allo stato critico nel panorama poetico italiano di oggi e quali sono i rappresentanti migliori di quelli che potremmo chiamare “poeti-chimici”?

PF: Nel secondo dopoguerra, Saba volle scrivere la Storia e cronistoria del Canzoniere, un trattato critico-biografico su sé stesso: a tal punto si riteneva sottovalutato o scarsamente indagato dai critici. E sì che aveva dalla sua parte Giacomo Debenedetti! Non gli bastava: e forse aveva ragione. Semplicemente, un poeta che non viene criticato, recensito, investigato, non sa chi è: può avere dei sospetti sulla propria bravura, o sulla posizione storica che meriterebbe, ma in realtà naviga in un oceano di incertezze e di cecità. Rifletto sul fatto che voi stessi mi avete rivolto tre domande su quattro a proposito del Novecento, che evidentemente è ancora al centro dei vostri interessi. Chissà se nel 1922 l’Ottocento era ancora così discusso. Il sentimento più diffuso è quello secondo cui il Novecento è terminato nel 1970 e con esso sono finite la tradizione, la storia della letteratura, la critica. Oggi la letteratura è ai margini del dibattito pubblico, e nel suo ambito sempre più ristretto la poesia è inesistente. Fra i pochi libri che si vendono in Italia spiccano i fumetti (ribattezzati con impagabile servilismo lessicale graphic-novels) e le raccolte di ricette. Distaccati giungono i romanzi, mentre i libri di poesia sono i decimali. C’è più da temere chi legge rispetto a chi non apre mai un libro. Credo che le persone al di sotto dei quarant’anni di età che in Italia, e in Europa, possiedono le competenze e la capacità sonoro-riflessiva per distinguere una bella poesia da un testo scritto in “poetese” siano qualche centinaio. A me non importa nulla di trarre guadagno dalla mia attività di poeta: importerebbe di più che qualcuno – con accuratezza e buone conoscenze di base – mi dicesse se sono un poeta, e perché, o perché no.

Questa situazione è un massacro: ma, attenzione, solo per gli autori che hanno ambizioni di ampiezza, di onestà autocritica, di congruità semantica, di necessità stilistica. Per molti altri, invece, tra letture in pubblico, premi e riviste online, la festa promette ancora margini di divertimento e di gratificazione narcisistica. Fra semiprosa dei fatterelli quotidiani e lirismo tremulo, qualche uditorio che ti applaude lo trovi sempre. E magari hai la fortuna di finire in un’antologia allestita da un cantautore.

Per me, essere anche un “poeta allo stato critico” è l’ultima risorsa per capire i motivi della mia pubblica e politica impercepibilità. Manzoni parlava dei propri venticinque lettori: non era ironia. Io posso vantarne al massimo quattro o cinque, ma duecento anni dopo e con un tasso di alfabetizzazione enormemente più alto. Per quanto non mi ritenga un poeta particolarmente oscuro, le persone di lingua italiana in grado di comprendere, di affrontare creativamente o persino di rifiutare a ragion veduta i miei versi sono in numero infinitesimale. Con la “poesia allo stato critico” cerco di inscrivermi in un orizzonte, che è storico, letterario, esistenziale. Cerco di capire quale strano animale sono e sono diventato, nella rara compagnia di “poeti-chimici” come Manacorda, Fiori, Zuccato, Maccari, Marchesini.


Profili bio-bibliografici

Sul ponte diVersi è un gruppo di lettura di poesia e critica letteraria, nato a Torino dall’impegno di Riccardo Deiana, Federico Masci, Jacopo Mecca e Francesco Perardi. Organizza da marzo 20218 incontri con i poeti italiani contemporanei nel contesto della libreria indipendente Il Ponte sulla Dora. Collabora con «L’Indice del libri del mese», «Avamposto» e più recentemente con «La Balena Bianca».

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Paolo Febbraro è poeta, traduttore e saggista. Come saggista ha scritto e curato Poesia d’oggi. Un’antologia italiana (Elliot, 2016), Ricezioni. Poesia straniera in Italia (Elliot, 2017), L’altro novecento. Poeti italiani (Elliot, 2018) e Le grandi traduzioni. Versioni di poeti (Elliot, 2019), Poesie italiane 2020 (Elliot, 2021), Poesia allo stato critico, (Inschibbolet Edizioni, 2021). Le sue ultime opere in versi sono Fuori per l’inverno (Nottetempo, 2014), Elenco di cose reali (Valigie Rosse, 2018) e La danza della pioggia (Elliot, 2019).


[1] P. Febbraro, L’altro Novecento. Poeti italiani, Roma, Elliot, 2018, p. 8.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 11.

[6] P. Febbraro, Le grandi traduzioni. Versioni di poeti, Roma, Elliot, 2019, p. 9.

[7] Ivi, p. 8.

[8] Ivi, p. 9.

[9] P. Febbraro, Poesia allo stato critico, Roma, Inschibbolet Edizioni, 2021, p. 42.