Nell’aggiudicarsi Di seconda mano, ultima raccolta di racconti dell’americanissimo Chris Offutt, minimum fax ha fatto centro: lo strike è addirittura impreziosito dalla natura “esclusiva” della pubblicazione, che l’autore ha deciso di concedere in anteprima ai propri lettori italiani. Due, contestualmente, i punti fermi: 1) la costante attenzione rivolta, da parte della casa editrice romana, alla narrativa statunitense (con un posto d’onore riservato alle prose brevi); 2) il viscerale attaccamento che Offutt mostra di nutrire nei confronti della sua terra di origine, cornice di fondo necessaria – perché l’unica possibile – all’allestimento di ogni singola trama qui messa in piedi. A tale proposito, sia concesso un rimando ad alcuni contributi apparsi sulla Balena Bianca in tempi relativamente recenti: Fabrizia Gagliardi, tra la primavera e l’autunno 2018, ha scritto della raccolta Nelle terre di nessuno e del romanzo Country Dark, cogliendo l’occasione per intervistare lo stesso Offutt in merito alla rappresentatività del Midwest e all’evoluzione del suo percorso prosastico; Giacomo Raccis, nel 2020, ha avuto modo di parlare di A casa e  ritorno (originariamente del 1999, ma èdito in Italia alla fine del 2019) e Il fratello buono, romanzo che a suo modo si discosta dal resto della produzione dell’autore per una più marcata presenza di riflessioni a sfondo socio-politico.

Se modelli e parallelismi potenziali – a cavallo di correnti e generazioni letterarie – sono più che abbondanti, il rischio concreto è quello di sconfinare in valutazioni fin troppo evocative, pur senza scomodare Salinger o Hemingway. Nulla impedirebbe di cogliere analogie tra il Kentucky di Offutt, scenario contemporaneo ma a suo modo fuori dal tempo, e la Holt di Kent Haruf, autore che può essere chiamato in causa anche per le delicate caratterizzazioni dei personaggi più anziani (tale è il caso del biker Roberto ne Il nido vuoto o della settantacinquenne Ruby su cui si incentra L’ultima stanza); non manca poi il ricorso a una brutalità che parrebbe riecheggiare le atmosfere di Pancake e Cormac McCarthy (e il torbido poliziotto di Dalle mie parti, più propenso al ricatto che alla riconoscenza, trae vantaggio dal fatto che qualcuno abbia sparato «a un figlio di dio»); c’è infine l’intenzione di oscillare tra brevitas e periodi complessi, come pure tra registro colloquiale e ricercate descrizioni paesaggistiche, propria di funamboli del racconto e ravvisabile, tra i tanti, in alcuni spunti del giovane Capote o in certe pagine del Foster Wallace più mainstream. Gli undici scritti raggruppati in Di seconda mano vanno sì a restituire – come è ovvio – “uno spaccato”di America orientale, ma ciò non è di per sé una novità, né per Offutt, né per la letteratura in senso assoluto. Colpisce, se mai, il fatto che un libro intriso di cinismo e disillusione sia in fin dei conti un elogio dell’amore, e che a una simile impressione complessiva si arrivi con chiarezza, al termine della lettura, per mezzo dell’ausilio di tratti peculiari – stilemi, ma non solo – del tutto originali.

Partendo dai titoli – sulla scelta dei quali Offutt dichiara, non senza eccessi di modestia, di sentirsi piuttosto impacciato –, è evidente quanto questi ultimi vadano, di regola, a costituire una componente essenziale per ciascuna delle storie incluse nella silloge: lo dimostra perlomeno il racconto eponimo, ma il concetto potrà valere anche per Johnny Bill, Eclisse o La cabina n. 13. E con essi fanno il paio, come a generare una circolarità, dei finali spesso bruschi e repentini: è grandioso il colpo di scena con cui la “mamma di scorta” della prima storia paga, con un cric e degli stivali da cowboy, una cifra per saldare la quale aveva dato, qualche istante prima, l’impressione di essere disposta a prostituirsi; allo stesso modo, è rapido (ma non indolore) il modo in cui il protagonista de Lo Zoo Celeste comprende, durante la proiezione di un film porno in un drive-in, di non sentirsi pronto per il ruolo di padre e sceglie di abbandonare il campeggio e la propria compagna, che successivamente perderà il bambino. Serrato e imprevedibile è poi il susseguirsi di vicende che portano Vernon, appena diciannovenne all’inizio di Mulino a vento, ad essere prima studente di educazione artistica, quindi appassionato di Filippo Lippi e infine grande artista a sua volta: il tutto per merito del pollaio-dépendance in cui trova ospitalità per i suoi anni universitari e ispirazione per il futuro. L’americanità è resa inoltre attraverso elementi tipici che fungono quasi da correlativi oggettivi, siano essi semplici mezzi di trasporto (come una Chevrolet inevitabilmente «Chevy» –, le immancabili motociclette, i pick-up e i camper à la Jessica Bruder) o ben precise abitudini alimentari (in La cabina n. 13 ci si nutre di scoiattoli; il nonno di Sally, in Lo zoo celeste, è un fiero mangiatore di opossum).

Chris Offutt ottiene così esiti grotteschi e profondamente ironici: potrebbero sembrare surreali, se non fossero il risultato di una rappresentazione iper-realistica. Dunque, in emergenza, un reggiseno può servire a legare una bicicletta, così come un dildo può fungere da accessorio casual e un preservativo può restare incollato alla suola della scarpa di un uomo e dare l’impressione che questi abbia tradito la compagna. Nella stessa direzione vanno i motti di spirito messi in bocca ad alcuni personaggi, dal «se cachi fuoco, risparmi i fiammiferi» che aveva reso amici due ragazzetti (Dalle mie parti) fino alle battute sull’esistenza di una stanza denominata «living» all’interno di una ditta specializzata in funerali (Dove si vive). Le droghe sono più o meno tutte passate in rassegna, fino agli antidolorifici cui Ruby ricorre per sconfiggere il male con la morte e ricongiungersi, una volta per tutte, ai luoghi della sua infanzia. Oltre ai diversi fumatori di marijuana e alla cocaina che dà modo a tre giovani di guadagnare dei soldi ad un concorso di “Miss Maglietta Bagnata” (Tutto apposto), si segnala l’improvvisa comparsa di un folle alla ricerca di ossicodone, che sceglierà di rapinare un’agenzia di pompe funebri: ne uscirà con appena un po’ di lorazepam e la relativa prescrizione medica (Dove si vive). Il sesso, talora esclusivamente meccanico e funzionale a non farsi lasciare, è strumento e moneta di scambio per uomini moralmente nulli e per donne agguerrite (motocicliste, esperte di trattori, cacciatrici di avventure) che si rifiutano di figurare nei panni di «una sarta, una lavandaia, una cuoca». Ma proprio quando si sarebbe tentati di cedere all’idea che i matrimoni falliscano inesorabilmente, o che la sincerità non esista e il tradimento sia una parte del gioco ancora più significativa dell’innamoramento iniziale, Offutt lascia che il lettore si aggrappi alla speranza e si profonda in un colpo di reni ad un passo dalla rassegnazione. Benché noia e insoddisfazione siano il prezzo di esistenze ordinarie al fianco di individui previdenti, ciò non implica che vite del genere non siano degne di essere vissute. Che i protagonisti detestino se stessi, non vuol dire necessariamente che essi si condannino. Solo riflettono, al di là del disincanto e con franchezza, su quanto impegnativo sia fare i conti con il “giorno per giorno” sul lungo periodo: e pure al cospetto di un quotidiano che metta di fronte a legami mai davvero pienamente sinceri e appaganti, si può sempre pensare di restare al mondo. Anche solo per guardare «le mani di una bambina che tremano di gioia».


Chris Offutt, Di seconda mano, trad. R. Serrau, minimum fax, Roma 2022, 187 pp. 16,00€