Come «Balena Bianca» nel corso dei mesi passati abbiamo osservato con attenzione e curiosità l’accoglienza riservata a Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli 2021), l’ultimo pamphlet di Walter Siti, capace, come pochi libri negli ultimi anni, di suscitare reazioni molto contrastanti e di imporsi velocemente come oggetto di animate discussioni. Il fatto che la qualità divisiva del libro, e forse proprio anche grazie a essa, non gli abbia impedito di raggiungere la vetta della sezione saggistica delle Classifiche di qualità a cura della rivista «L’Indiscreto» per il trimestre febbraio-maggio ha mostrato in modo chiaro che le questioni affrontate nei diversi capitoli del pamphlet siano percepite come urgenti dai lettori e che l’autore abbia trovato un modo efficace di articolare le sue posizioni.  

Interrogandoci sulla maniera più sensata di dare spazio al libro sulla nostra rivista, abbiamo pensato che, più che dedicargli una singola recensione o approfondimento, ci sarebbe piaciuto raccogliere nel nostro piccolo l’appello lanciato nelle ultime righe di Contro l’impegno, che si chiude sotto l’auspicio di una discussione sulle tematiche affrontate. Abbiamo quindi deciso di elaborare un breve questionario di quattro domande, abbastanza composite e stratificate, che riprendessero alcuni punti a nostro avviso cruciali nell’economia del libro: il pubblico di Contro l’impegno; il legame tra letteratura e moralità; la questione del canone; la cornice teorica delle riflessioni dell’autore.

In seguito, abbiamo sottoposto il questionario a un gruppo di collaboratrici e collaboratori legati alla rivista – tra i quali anche alcuni redattori –, con l’intenzione di continuare un dibattito che, a partire dal libro di Siti, vorremmo si allargasse a questioni di portata più ampia e proseguisse anche in futuro in forme, tempi e luoghi differenti. Le risposte al questionario sono state pubblicate sulla «Balena Bianca» in una rassegna di cinque puntate nelle scorse settimane. Dalla sua uscita in aprile diverse recensioni intelligenti sono state dedicate al libro: fra le altre, ci fa piacere segnalare quelle di Mario BarenghiJonathan BazziCarlo Mazza GalantiGilda Policastro e Chiara Portesine. Rimandiamo a questi scritti, oltre che a un interessante colloquio radiofonico (01:01:51-01:33:20) fra Walter Siti e Loredana Lipperini a “Fahrenheit-Radio3”, per un inquadramento del libro che non abbiamo spazio di effettuare a nostra volta in questa sede.

Nel quinto e ultimo appuntamento della rassegna pubblichiamo oggi le risposte di Roberto Batisti (RB), Guido Furci (GF) e Marzia Beltrami (MB). Qui, qui, qui e qui invece si possono trovare le risposte delle prime quattro uscite della rassegna.
Qui invece è possibile scaricare il pdf dell’intera rassegna.

1. Ogni volta che esce un libro di critica letteraria militante, nato per stimolare un dibattito intorno ai fatti letterari e alle loro relazioni con il sistema culturale e con la società si pone il problema del pubblico. A chi si rivolge Contro l’impegno? A quali lettori Walter Siti indirizza le proprie stilettate? Pur nella dichiarata disorganicità del libro, costante è da parte dell’autore il riferimento a un orizzonte che comprende l’intero campo della letteratura; Siti chiama in causa i grandi classici, cita studi accademici, salvo poi riservare i suoi “carotaggi” per lo più a opere di consumo e autori capaci di costruire una propria riconoscibilità mediatica nella cultura mainstream (Saviano, Murgia, Carofiglio, D’Avenia…): una scelta parziale che non sfugge al lettore avveduto, ma che magari confonde chi non è esperto di questioni letterarie. Una scelta che peraltro consente a Siti di rendere trasversale il proprio discorso, di non fare troppe distinzioni. Come valuti l’equilibrio trovato da Siti tra le ambizioni del pamphlet e la sua effettiva articolazione, anche alla luce del suo pubblico potenziale? Può la critica rompere il muro di gomma che la separa dal grande pubblico e offrire un’interpretazione della cultura a uso di tanti?

RB: Mi sono posto anch’io il problema del destinatario che Siti aveva in mente, ma me lo sono posto dopo la lettura dei saggi raccolti in Contro l’impegno; durante la lettura, invece, mi sono ritrovato più volte a concordare spontaneamente con le sue argomentazioni. Segno, forse, che rientro per formazione e interessi nel pubblico ideale del libro, anche se avrei imbarazzo a definirmi ‘esperto di questioni letterarie’ senza la protezione delle virgolette. Per chi, insomma, non è solo un lettore forte, ma anche un lettore avvertito, non necessariamente specialista – qualcuno con studi umanistici alle spalle, mettiamo, e/o abituato a leggere anche molta critica letteraria – le strizzate d’occhio di Siti vanno a segno e producono l’effetto che plausibilmente vogliono produrre. Quanto alla parzialità nella scelta dei bersagli, la critica militante (nella quale questo libro rientra) non può non essere parziale; come già notato in altre risposte al questionario, però, l’impianto dialettico è volutamente semplificatorio, quasi manicheo. Fra i grandi classici e il mainstream esiste un vasto mondo di mezzo sul quale sarebbe interessante conoscere il giudizio di Siti; mentre è ovvio che, alla luce dell’idea di letteratura difesa in questi saggi (e per me, ripeto, tendenzialmente condivisibile), un D’Avenia o una Murgia saranno esempi di come non fare letteratura. Si può rispondere che per stigmatizzare un’ampia tendenza è più efficace colpirne gli esponenti più tipici, soprattutto se non si restringe il discorso agli addetti ai lavori, per i quali certe argomentazioni sarebbero scontate.

Casomai, trovo apprezzabile che Siti, pur in un’opera di taglio pamphlettistico e militante, non scada nella facile stroncatura, genere di cui recentemente si sono visti esempi rappresentativi (nel bene e nel male), oltretutto spesso rivolti ai medesimi bersagli di Contro l’impegno. Nelle pagine dedicate a Roberto Saviano, ad esempio, Siti mostra un’empatia sorprendente nei confronti della persona e dell’opera, mettendo ogni serietà nel «cercare di capire, nel caso specifico di un uomo che stimo, come quel progressivo svilimento [della letteratura] fosse avvenuto». Un altro esempio è il capitolo sullo storytelling della tivù generalista, mondo che Siti ha conosciuto bene dall’interno (e raccontato in Troppi paradisi) e di cui sa raccontare i meccanismi in modo convincente, acuto e spassionato, senza i pregiudizi e le approssimazioni in cui probabilmente cadrebbe un critico accademico (come lui) che (a differenza sua) non avesse lavorato come autore televisivo. Certo, Siti conclude che l’influsso di questi media sulla letteratura è pernicioso («Il guaio è che troppe ‘storie’ extraletterarie stingono sulla letteratura […]; molti scrittori hanno cominciato a scrivere come se fossero autori televisivi o social media manager in pectore, ossessionati dal problema del messaggio da far passare»). Ma anche qui il problema evidenziato è la perdita di identità e di specificità della letteratura, non l’esistenza in sé di altri àmbiti comunicativi con regole e obiettivi autonomi.

GF: Una volta di più, ho come l’impressione che Walter Siti si rivolga quasi esclusivamente a chi è già d’accordo con lui. È innegabile che Contro l’impegno cerchi di fragilizzare la tenuta d’insieme di discorsi che, come quelli di Alexandre Gefen, tendono a fare della letteratura (e dell’arte in generale) una sorta di antidoto grazie al quale proteggersi e proteggere dai mali del mondo – chiaramente banalizzo, ma lo fa anche Siti, e senza troppo preoccuparsi di entrare davvero in dialogo né con Gefen né con quanti potrebbero essere interessati al suo lavoro e non possono accedervi, nella misura in cui i contributi più significativi di Gefen non sono mai stati tradotti in italiano. Ciò detto, nonostante numerosi tentativi certamente riusciti di argomentare un punto di vista che personalmente mi sento anche di condividere, mi pare che in fondo a Siti non interessi convincere nessuno, ma piuttosto divertirsi e divertire chi come lui (e in un certo senso anche come me, seppur per ragioni diverse) sa ancor prima di cominciare che le parole non possono e non devono necessariamente salvare o “riparare” la Storia.

Siti è una persona estremamente intelligente (oltre che molto colta). E proprio per questo motivo mi stupisce un po’ che nel suo discorso la funzione salvifica e quella riparatrice intrattengano sistematicamente dei rapporti di tipo sinonimico. Quanto agli esempi di cui Siti si serve nelle sue analisi, questi sono senza ombra di dubbio desunti da produzioni variegate, anche molto distanti le une dalle altre: ma siamo certi che l’eterogeneità dei supporti utilizzati renda davvero trasversale il ragionamento che ci è proposto? Io non ne sono affatto sicuro. Anche perché se è vero che Saviano, Murgia, Carofiglio e D’Avenia sono persuasi, nonostante tutto, di “fare letteratura”, questo non vale, mi sembra, per Francesca Mannocchi e chi, come lei, scrive senza troppe ambizioni, ma mosso da convizioni profonde, che si esprimono attraverso un linguaggio palesemente giornalistico. Ora, che la letteratura e l’arte debbano poter godere di un’autonomia che va difesa, o che va di nuovo difesa, dovrebbe essere un’evidenza – ma ha ragione Siti a non considerarla tale e ad insistere sulla necessità di riconferire allo stile uno statuto degno delle antinomie che deve poter accogliere e veicolare, anziché sforzarsi di risolvere (o, peggio, di negare). È problematico, però, implicare un’equivalenza fra arte e scrittura in senso lato; in altri termini, applicare il principio dell’arte per l’arte indifferentemente a testi che si vogliono letterari e a testi che, invece, fanno ricorso ad artifici e procedimenti recuperati dalla tradizione letteraria, ma integrati a discorsi e mises en situation che, nei reportages o nei resoconti di guerra ad esempio, sono subordinati in maniera piuttosto evidente ad altre intenzioni. Ad intenzioni di cui, ad essere sincero, mi sembrerebbe disonesto relativizzare l’importanza.

Insomma, nei corsi di letteratura comparata fatti bene, una delle prime cose che si imparano è che non si può comparare tutto, ma solo ciò che si presta, sulla base di determinati criteri, a reggere le ragioni di un confronto. Ecco, molti degli accostamenti suggeriti in Contro l’impegno non mi sembrano pertinenti. Quelli in cui uno dei termini di paragone è Saviano, poi, mi paiono addirittura fuori luogo (fra le altre cose, perché Saviano è diventato per Siti una sorta di oggetto transizionale, che meriterebbe ormai una monografia a parte – oltre che un discreto percorso di psicanalisi!).

MB: Quale sia l’interlocutore del pamphlet è stata una delle prime domande che mi sono fatta mentre leggevo. I capitoletti del libro sono scritti in momenti diversi, per cui non è impossibile che Siti avesse in mente di volta in volta un pubblico leggermente diverso. Al netto di queste variazioni, tuttavia, quello inscenato in Contro l’impegno è un dialogo strano. Da una parte, mi pare che i “lettori impliciti” di Siti siano proprio quelli verso cui esprime la propria irritazione: lettori forti e con competenze critico-letterarie, magari lavoratori dell’industria editoriale e della comunicazione, promotori di saloni e premi letterari: chi, se non loro, è da considerarsi responsabile della «consegna generalizzata di rivolgersi al maggior numero, semplificando ed esteriorizzando i testi?» (20). È a questi animatori del discorso culturale, mi pare, che si rivolge l’accusa di favorire la facile equazione tra impegno e immediatezza comunicativa, a detrimento di ogni preoccupazione formale. E però, dall’altra parte, i toni e il livello di analisi sono marcatamente divulgativi, in alcuni casi persino approssimativi (vedi gli accenni iniziali alla cancel culture, o la provocatoria sintesi finale secondo cui i talk show di politica sarebbero esempio ultimo di arte impegnata – forse per via della natura palesemente artificiosa?).

Siti cerca di portare il dibattito ad un pubblico più ampio, ma temo finisca per confondere ancora di più le acque. L’esempio più lampante di questa confusione è il fatto che, mentre dice di fare un discorso sulla letteratura, Siti parla soprattutto di comunicazione. Di come strategie e generi comunicativi (in primis, il giornalismo) abbiano esercitato un’influenza crescente sulla letteratura, imponendole l’adozione di una forma trasparente e monovalente. Considerazioni relative alla letteratura sono mescolate ad altre, trasversali, che concernono invece la narrazione (che si articola a sua volta non solo attraverso diversi media ma anche in diversi contesti, per esempio nell’oralità quotidiana), o il rapporto tra realtà e finzione. Filosofia della letteratura e teoria della narrazione hanno elaborato strumenti eccellenti per provare a districare queste delicate dinamiche: se la critica militante ha ragion d’essere, tra le sue funzioni credo ci dovrebbe essere l’impegno a mediare, a beneficio di un pubblico più ampio, letture e domande elaborate in sede specialistica, facendone strumenti per interpretare il presente.

2. Uno dei nodi concettuali intorno al quale Siti dà battaglia agli araldi di ciò che egli definisce “neoimpegno” (riconoscendone sempre i meriti laddove presenti) riguarda i rapporti che le opere letterarie intrattengono con i valori morali. Qual è la natura del legame esistente tra la dimensione estetica e la dimensione morale di un’opera letteraria, ad esempio di un romanzo? Tale annosa questione è al cuore di Contro l’impegno, le cui analisi mirano a demistificare e rivelare la bidimensionalità morale, innocua e risarcente, di molti dei libri presi in esame. Siti difende strenuamente il diritto di chi scrive a trattare contenuti e trasmettere valori apertamente immorali, a patto che questi siano per così dire garantiti da una complessità tecnico-stilistica latrice di una più profonda visione del reale, sia essa definita o ambigua. Come valuti le prese di posizione di Siti su questo spinoso ordine di problemi? Qual è la tua posizione in merito? 

RB: Tendo a concordare con Siti su questo punto, anche se mi par chiaro che il problema sia così vasto e annoso che il suo intervento non potrà certo dire l’ultima parola in merito. Forse, il rischio della sua argomentazione sta in un manicheismo mimetico che finisce per ricalcare quello dell’avversario; ovvero, se è giusto negare che il fine dell’attività letteraria stia nel moralismo tagliato con l’accetta di certi autori presi in esame, può sembrare riduttivo esaltare, a contrasto, l’immoralismo di alcuni grandi scrittori. Ma penso sia una mossa retorica, una reazione a una visione schematica e superficiale dell’‘impegno’ in letteratura.

GF: Sono assolutamente d’accordo con Siti rispetto al fatto che dalla letteratura non si debbano pretendere “messaggi” e “soluzioni concrete” (per quanto questa considerazione, secondo me, non possa precludere l’eventualità che di entrambe queste cose, nei libri, se ne possano trovare – e non solo nei “libri brutti” peraltro). Sono assolutamente d’accordo quanto al fatto che Emmanuel Carrère ce lo dimostri – talora suo malgrado – in ogni sua pagina. Mi mettono un po’ a disagio, però, gli universitari che traggono da simili considerazioni conclusioni troppo rapide: no, non penso che la Letteratura con la L maiuscola sia solo quella che, di conseguenza (?), oppone a qualsiasi tipo di “neoimpegno moralizzante” una serie di provocazioni talora inutilmente violente, così come una forma di insistita (e spesso compiaciuta) “cattiveria di compensazione”. Tanto più che i fan del cinema di genere (e del cinema horror in particolare) sanno bene che non ci sarebbe stato bisogno di autori come Michel Houellebecq, Bret Easton Ellis e il Siti di Bruciare tutto, perché avevamo già – tra i fan di film horror mi ci metto anch’io – Wes Craven, John Carpenter e Sean S. Cunningham (meno pretenziosi e meno impostati dei primi; tutti, a parità di argomenti e checché se ne dica nelle accademie, di gran lunga più interessanti, anche proprio in qualità di scrittori). Per non parlare poi del Lars von Trier di The Kingdom (1994), della trilogia sull’Europa (1984-1991), o di Idiotern (1998) – un film, quest’ultimo, praticamente improponibile oggi, non solo per via dello stato di cose che Siti denuncia, ma anche – paradossalmente – a causa dell’illeggibilità di cui farebbe l’oggetto in ambienti (intellettuali) tanto fieramente “immoralisti”, quanto ostinatamente autocentrati.

MB: Più che del diritto a trasmettere valori immorali, mi pare che Siti spezzi una lancia in favore del potere etico della forma, la quale è sinonimo di complessità e dunque non può non includere le ombre nella rappresentazione delle luci, e viceversa. Semplificando, Siti scrive che il bello non può corrispondere al vero perché, mentre il vero esige trasparenza e chiarezza, il bello dipende inevitabilmente dalla forma e forma, per Siti, significa ambiguità e plurivalenza semantica. In questo senso, posso dire di condividere fortemente un’idea di arte che miri a stimolare la riflessione e a esporre questioni irrisolte, piuttosto che a trasmettere un messaggio. Per inciso, non credo neanche che il punto dell’arte sia scandalizzare – posizione che equivale al suo opposto, a un’arte consolatoria e rassicurante.

Accanto al rilancio di una morale dell’ambiguità, Siti rivendica il valore di operazioni letterarie che esulino da temi d’attualità ad alta carica etica (immigrazione, femminismo, razzismo, fascismo, corruzione, criminalità). La posizione è di per sé legittima, ma tradisce una certa insofferenza verso un discorso culturale che, ad oggi, privilegia nettamente il contenuto e l’intenzione autoriale rispetto alla forma di un’opera. E in effetti è poi questo il fulcro della discussione di Siti. Prendiamo il capitolo sulla letteratura della migrazione, ad esempio. Da un punto di vista formale la critica di Siti non è priva di fondamento: solleva il problema della rappresentazione bidimensionale della vittima, della ricerca spasmodica dell’impatto emotivo, dello stile caratterizzato da punte di lirismo in una complessiva banalità strutturale e linguistica che non manca di cadere nella sciatteria. E tuttavia ipotizzare tacitamente che questi temi siano soprattutto sfruttati per calcolo, impedisce di vedere che è invece la loro presenza ingombrante e innegabile nella realtà attuale, nonché nel dibattito culturale in senso più ampio, a comportare la necessità forte di svincolarsi dalla mera funzione testimoniale e trovare modi non stereotipati di affrontarli in arte. Proprio perché questo passaggio da funzione sociologica a letteraria non è scontato, trovo che la mescolanza di generi testuali e contesti comunicativi rischi di offuscare l’argomentazione di Siti, anziché rafforzarla.

3. Pur non essendo il principale oggetto delle riflessioni di Siti, più interessato a stigmatizzare la funzione terapeutica che oggi viene attribuita alla letteratura (la letteratura come «conforto per gli esseri fragili che siamo diventati di fronte alle crisi», 37), è evidente che la questione della costituzione di un canone permane all’orizzonte del discorso. Mentre ovunque nel mondo si rileggono i classici anche alla luce delle nuove istanze sociali e culturali, Siti fa sua la nozione di “lettore implicito” (Iser), che restituisce l’opera al suo contesto storico, ne giustifica eventuali carenze rispetto alle attese del pubblico contemporaneo e soprattutto consente di concentrarsi sugli aspetti formali, a suo avviso oggi trascurati. Come giudichi la posizione di Siti rispetto a tali questioni? Pensi che ci siano altri modi di affrontare, da un punto di vista specificamente letterario, la questione del canone e della sua “durata”? 

RB: La costituzione di qualunque canone è un atto politico, non innocente. Essere rimesso in discussione nel tempo e col mutare dei climi culturali è, dunque, il suo destino. Fortunatamente oggi, a differenza di altre epoche storiche che hanno fatto da collo di bottiglia nella costituzione di canoni letterari, non si pone – almeno fino al prossimo collasso tecnologico globale – il problema materiale della selezione di pochi testi esemplari da mettere in salvo, condannando gli altri alla perdita; e la quasi infinita riproducibilità e accessibilità dei testi rende per ciò stesso discutibile la nozione di un canone. Mi pare che queste non siano, ormai, considerazioni nuove; e concordo che non siano centrali nella riflessione di Contro l’impegno. Il punto è che i criteri per l’inclusione o l’esclusione dal canone non dovrebbero appiattirsi su certo moralismo neo-puritano alquanto insensibile – e qui non posso non dar nuovamente ragione a Siti – tanto alla dimensione formale quanto a quella storica.

GF: Siti non teme per davvero che il canone contemporaneo possa venire invaso (o pervertito) da opere che non meritano di figurarvi. Ha ragione: non c’è da preoccuparsi. Oggi, la maggior parte dei romanzi che si pubblicano, che non lo convincono, che lo infastidiscono, sono destinati ad essere dimenticati in poco tempo. Penso soprattutto ai titoli italiani. Ma è probabile che questo discorso possa (e debba) essere esteso a numerosi altri contesti.

Suppongo che le cose starebbero diversamente se Siti, nel suo pamphlet, affrontasse un numero significativo di esempi di natura poetica. È interessante che in Contro l’impegno non si parli praticamente mai di poesia. Salvo eccezioni, la poesia contemporanea sfugge alle regole del mercato, contribuisce attivamente a problematizzare il senso di quell’«avventura conoscitiva» che l’autore oppone a spinte di carattere (forzatamente?) testimoniale, gode di una libertà che le permette, in particolar modo in Italia e in Europa, di sottrarsi piuttosto agilmente a mode e tendenze giustamente contestabili (e in qualche caso anche decisamente pericolose). Il linguaggio poetico è intrinsecamente ambiguo e multidirezionale. Se non altro perché avrebbe potuto alterare il tono e la portata di alcuni dei ragionamenti di Siti, suppongo che sarebbe stato utile chiamarlo in causa frontalmente. Anche perché, in fondo, in ambito italofono e non solo, la poesia contemporanea è meno di nicchia di quanto si ripeta incessantemente.

Capisco bene perché Siti analizzi «alcuni autori e testi contemporanei di successo per difendere la letteratura dal rischio di abdicare a ciò che la rende più preziosa: il dubbio, l’ambivalenza, la contraddizione» – tanto più essenziali in società neoliberali e capitalisticamente avanzate, all’interno delle quali sembra che la coerenza e l’essere “veri” siano dei valori in sé, assunti come tali una volta per tutte. Capisco anche il sospetto di Siti in merito al fatto che l’impegno “positivo” possa non essere altro che «la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda e ignota» – anche questa è una cosa che ci viene significativamente sottolineata sin dal risvolto di copertina, in una presentazione breve e precisa, volta ad inquadrare ed orientare la lettura. Eppure, siccome viviamo in un’epoca in cui Amanda Gorman è diventata in fretta “un caso”, non solo per la mediatizzazione che ne è stata fatta in una situazione emblematica per l’attualità politica statunitense, ma anche e soprattutto in virtù delle polemiche suscitate in più paesi dalle traduzioni dei suoi versi, è un po’ un peccato che il perimetraggio degli sviluppi argomentativi suggeritici assuma contorni, in fin dei conti, abbastanza “locali” (anche “genericamente” parlando).

Rispetto alla rilettura dei classici alla luce delle nuove istanze sociali e culturali ci sarebbe ovviamente da dire moltissimo. Questa pratica, diversamente dal resto, traduce un’inquietudine autentica – chiaramente giustificata, e comprensibile.

MB: Siti riconosce l’utilità della nozione di lettore implicito, ma poi scrive anche: «Bisognerà pure ammettere che, oltre al lettore empirico e a quello implicito, c’è un lettore ideale (o eterno) che è capace di giudicare e stabilire gerarchie nel tempo» (18-9). Il che rivela quantomeno una tensione irrisolta, o un’incomprensione di fondo rispetto a certe operazioni critiche (non è chiaro se reale o strumentale). Lo scopo di (ri)letture che si propongano di riscoprire autori o testi fino ad ora esclusi dal canone non è quello di dimostrare che le poesie di Ada Negri siano più belle di quelle di Giovanni Pascoli (per riprendere una coppia citata da Siti), bensì di elaborare una rappresentazione più articolata, ricca e attendibile di un determinato contesto.

In Contro l’impegno il canone gioca un ruolo quasi schizofrenico. Da una parte è chiaro che una certa preoccupazione e complessità formale siano dirimenti per Siti. Dall’altra, ho già notato come uno dei tratti più evidenti del libro sia la discussione, con poca soluzione di continuità, di testi assai diversi tra loro: dal saggio all’ibrida docufiction, dal romanzo storico al pamphlet femminista fino agli scambi tra Barbara D’Urso e Rocco Siffredi. Quando poi, nell’ultimo capitolo, Siti cita tre esempi di opere che riescono a conciliare cause etiche e dimensione letteraria, propone la tripletta Carrére, Brecht, Dante.

Mentre fondamentale è considerare la cornice in cui viene presentata un’opera, parlare oggi di canone, io credo, è ancora utile in senso pragmatico e didattico, laddove per canone si intenda una selezione di casi che funzionino da punti di ingresso condivisibili ai fini dell’esplorazione efficace di un problema, una questione o un fenomeno culturale. Non è una hit parade né una lista normativa, è un indice ragionato. Per cui se da una parte non ha senso inserire La virtù di Checchina di Matilde Serao “al posto di” Madame Bovary, dall’altra ben vengano studi sulla letteratura femminile sarda, su cui c’è magari più spazio per fare osservazioni originali che non su Flaubert. Favorire la diversificazione e l’inclusività a livello di ricerca è indispensabile perché si produca, a forza di limature e approfondimenti che reggano essi stessi alla prova del tempo e delle mode, un discorso critico stimolante.

4. Il lettore implicito di Iser, la funzione poetica di Jakobson, il ritorno del rimosso e la critica psicanalitica à la Orlando: Siti stesso definisce «un po’ arrugginiti» (67) gli strumenti d’indagine con cui intende asserire l’importanza della “forma come contenuto” e quindi la possibilità dell’opera di prescindere dagli impulsi eteronomi («Nel pendolo incessante tra autonomia ed eteronomia dell’arte, l’ora presente batte dalla parte dell’eteronomia», 32). Tuttavia la validità e possibile attualità di questi strumenti è rivendicata anche alla luce (e a scapito) delle correnti critiche che l’autore considera più in voga nell’attuale panorama degli studi letterari (biocritica, cognitivismo, darwinismo letterario…). A questi strumenti, infine, affida il compito di sostenere quella che appare come la “proposta critica”, la pars construens del pamphlet, ovvero l’idea della letteratura come «avventura conoscitiva», rilanciata fin dalla quarta di copertina e variamente ribadita nel testo. Trovi che la posizione espressa da Siti sia condivisibile? Quali sono a tuo avviso gli strumenti critici attraverso cui si può valorizzare oggi lo specifico della letteratura (anche in relazione alle richieste di cura, di testimonianza, di verità che vengono avanzate nei confronti dei romanzi)?

RB: Credo che da parte di Siti ci sia una ‘modestia’ molto sorniona nell’excusatio per gli «strumenti arrugginiti»: di fatto, nelle discipline umanistiche gli strumenti di analisi, se validi, non diventano mai obsoleti, ma possono sempre essere estratti dalla cassetta quando l’occasione lo richiede. Di contro, la nascita di nuovi paradigmi critici è da salutare con favore, ma mi pare evidente che non sarebbe molto scientifico bandire quelli più vecchi solo per moda o per un malinteso senso di progresso. In uno dei capitoli del libro, Siti rispolvera persino le distinzioni manzoniane tra ‘vero poetico’ e ‘vero positivo’: e allora? nulla di male se le questioni sollevate duecento anni fa da Manzoni sono ancora utili, pertinenti al dibattito odierno in cui Siti s’inserisce. Sarà che anch’io, nella misura in cui faccio critica letteraria, sono sostanzialmente eclettico; d’altronde, i grandi maestri della filologia, da Wilamowitz a Pasquali a West, rivendicano questo eclettismo come intrinseco alla disciplina: non esiste un metodo filologico come non esiste un metodo per pescare (a seconda del pesce: lenza, rete, arpione…). Nel mio caso, lavoro in massima parte sulla poesia forse anche perché gli strumenti con cui ho più dimestichezza sono di natura linguistico-filologica, e si prestano a quelle analisi stilistiche di dettaglio (altri direbbe: micrologiche), fin nel cuore delle sillabe, che la poesia premia al massimo grado. Perciò, non saprei davvero indicare a titolo generale quali strumenti critici siano oggi più adeguati a valorizzare lo specifico letterario del romanzo. Trovo comunque che Siti, come prevedibile, maneggi bene i suoi punti di riferimento, e giunga a una conclusione che, come si sarà capito dalle mie precedenti risposte, condivido in buona parte.

GF: A questa domanda non sono sicuro di saper rispondere. Gli apparati strumentali a cui Siti affida il compito di sostenere la sua proposta critica mi sembrano descritti in maniera talmente approssimativa che non posso credere che l’autore abbia mai cercato di approfondire anche solo uno degli approcci che cita (e certamente non il cognitivismo, di cui nemmeno io ho mai subito la fascinazione, ma del quale so che potrei parlare senza troppe difficoltà in modo decisamente meno caricaturale ed imbarazzante). La verità è che non credo ci sia una vera e propria pars construens in Contro l’impegno. Come dicevo all’inizio, Siti mi sembra intrattenere (un pubblico di “amici”), più che proporre. E, in un certo senso, considerati i romanzi che lui stesso ha pubblicato, e soprattutto quelli che ha pubblicato negli ultimi anni, suppongo non ci sia da stupirsi troppo. Ma questo non è chiaramente il contesto adatto per approfondire in tal senso.

MB: Se la definizione di letteratura come «avventura conoscitiva» mi è particolarmente congeniale, lo è anche in virtù della prospettiva critica cognitiva che informa il mio lavoro accademico (e su cui sono, dunque, innegabilmente di parte). Senza avanzare pretese di esclusività sull’espressione, l’idea di pensare ad una narrazione come avventura mi convince perché enfatizza la natura temporale e in itinere del processo di comprensione, incoraggia a riflettere su come il testo guida il lettore passo dopo passo, costruendo e giocando su aspettative, deduzioni e previsioni. In questo senso, l’approccio cognitivo cosiddetto “postclassico” compie uno scarto cruciale rispetto a quello narratologico tradizionale, che guardava al testo come entità conclusa, retrospettivamente, dall’ultima pagina.

Metodologicamente, non sono affatto monoteista. O meglio, credo fermamente che la ricerca specialistica e la cultura guadagnino da un clima pluralista, in cui diversi strumenti critici coesistono e dialogano, offrendo prospettive ora complementari, ora in competizione. Non credo che celebrare un solo approccio “giusto”, convertendosi in massa con cadenza periodica, sia sostenibile né auspicabile.

Detto questo, mi pare che la lente cognitiva offra spunti interessanti per contribuire alla comprensione delle dinamiche responsabili degli attuali assetti culturali. Innanzitutto, cercare di spiegare attraverso quali strategie siano innescati determinati effetti conduce esattamente a riconoscere centralità alla forma con cui un contenuto viene veicolato. Da notare, inoltre, che al contrario di quanto sembra presupporre Siti (pp. 33-34), occuparsi di ricezione e effetti di lettura non significa affatto abdicare all’interpretazione e dunque all’identificazione di una proposta di senso, a cui può essere associato un giudizio critico. In ultimo, poiché riconosce che l’attualizzazione di un testo è guidata dalle strutture linguistiche ma avviene nella mente del lettore, la prospettiva cognitiva ha sviluppato strumenti concettuali particolarmente indicati alla disamina del rapporto tra fiction e non-fiction, le cui differenze fondamentali non stanno tanto nella forma del testo quanto nell’atteggiamento mentale di chi legge.


L’illustrazione originale nella copertina dell’articolo è stata realizzata dal nostro redattore Massimo Cotugno.


Walter SitiContro l’impegnoRiflessioni sul Bene in letteratura, Milano, Rizzoli, 2021, 272 pp., € 14.