Sul ponte del Pequod c’è un vecchio grammofono con una tromba in ottone che sembra un po’ un fiore. Nonostante le apparenze, mette solo gli ultimi (e i più selecti) dischi.

Pronti per la compilation dell’estate? Abbassate le puntine.


Mandy, Indiana, i’ve seen a way, 2023 (Giacomo Micheletti)

Ascolto ben poco relax, questo esordio di un quartetto di Manchester nato sulla scia della nuova voga post-punk, è vero, ma imperdibile per chiunque bazzichi le più recenti contaminazioni fra techno e noise. E qui va detto che i’ve seen a way (11 tracce, 37 min.) merita di essere ascoltato in un’unica seduta (magari in un primo pomeriggio di afa africana, al buio, con le tapparelle sbarrate), dai synth scroscianti dell’iniziale Love Theme (4K VHS) fino all’energica marcia industrial di Sensitivity Training che chiude l’album. Colonna sonora del più storto immaginario contemporaneo, nella musica dei Mandy, Indiana si incrociano sirene di guerra, cataclismi ambientali, echi di vecchio-nuovi fascismi e il riverbero di antiche distopie macchiniche che hanno da tempo colonizzato la quotidianità delle nostre vite.

I Mandy, Indiana (da Gary, una delle tante cittadine americane simbolo del disastro) si muovono attraverso i fantasmi della nostra epoca con un piglio cinematico (vedi la copertina) e una cura del suono altrettanto radicale – se è vero che le parti di batteria sono state registrate in una grotta nei pressi di Bristol per ottenere un rimbombo ancora più ipogeo, da rave in un rifugio atomico.

Lei, Valentine Caulfield, è d’origini parigine, e il suo cantato francese (nello spoken ad alto voltaggio di 2 Stripe, nell’hip-hop di Pinking Shears) è il tocco chic di chi sa che lo stile, quello vero, si misura soprattutto tra le macerie, quando tutto crolla: nessun ritorno a un eden che non c’è mai stato, nessuna attesa di un futuro migliore (o peggiore) calato dall’alto, soltanto la disperazione stoica di chi continua a scavare.   


Christophe Chassol, Chassol plays Basquiat, 2023 (Giulia Sarli)

Christophe Chassol ha definito ultrascore la tecnica che ha reso unica la sua esperienza nella scena musicale jazzistica. La linea melodica delle sue composizioni è ricavata dalla registrazione e armonizzazione di suoni e voci tratti dalla realtà, che poi vengono campionate in collage a cui partecipano strumenti musicali classici. Con il suo ultimo lavoro ha cercato di accostarsi all’opera di Basquiat, ispirato da un suo quadro in particolare, una riproduzione della prima copertina della rivista Action Comics, del 1938, in cui appare per la prima volta un Super Man arrabbiato che solleva un’automobile con un braccio solo. Chassol armonizza alcune frasi pronunciate da Basquiat, che vengono ripetute in forma di eco dalla voce della cantante Ala.ni: «I don’t think about art when I’m working, I don’t listen what art critic say. I am not a real person. I want to make paintings that look as if they were made by a child. The black person is the protagonist of most of my paintings. The more I paint the more I like everything». La realtà diventa così uno strumento a pieno titolo della composizione, intrecciandosi alle note della tastiera suonata dallo stesso Chassol e alla batteria di Mathieu Edward. La copertina del disco gioca sull’impressionante somiglianza tra Basquiat e Chassol, aggiungendo un senso di affinità elettiva all’intero progetto. 


Marxist Love Disco Ensemble, MLDE, 2023 (Alessandro Freschi)

Al primo ascolto vengono subito in mente l’epopea socialista e la cafonaggine craxiana, la grigia edilizia popolare, le foto indecenti che tutti quelli della mia generazione nascondono in qualche angolo segreto della casa, con parenti adornati da giacche dalle spalline enormi e occhiali oversize, permanenti e pettinature ultra cotonate. La composizione dei MLDE è abbastanza oscura, infatti si conosce un solo componente cioè il bolognese Paolo Volkov, ideatore del progetto. Il concetto è molto chiaro: fare in modo che la disco si metta in pace con il marxismo e viceversa. I brani sono incentrati su testi dai forti e chiari connotati politici, ad esempio Brumaire, arricchiti da sonorità che prendono ispirazione dalla musica funky elettronica e sintetica degli anni ’80 del Mediterraneo e Est Europa. Non a caso le otto tracce sono state registrate in analogico a Lubiana. Il risultato non è un revival, bensì la degna evoluzione di un genere musicale. Il brano simbolo è sicuramente Manifesto in cui una cupa voce robotica ripete “disco socialista disco sicialista”, la colonna sonora perfetta di una qualsiasi festa per quadri dirigenti, a base di coca e tangenti, in un qualche hotel milanese (o di Budapest).


Daniela Pes, Spira, 2023 (Flavia Montecchi)

Abbiamo il dovere di usare le parole «e ultimamente non abbiamo mai comunicato così tanto; nella maggior parte dei casi comunichiamo come viene, senza impegno, e i social network lo hanno fatto vedere tantissimo (…). Tullio De Mauro diceva: Noi possiamo essere pienamente cittadini, fruitori di una democrazia, solo se sappiamo usare bene le parole. (…) L’italiano è una lingua viva, che continua a creare parole nuove, perché la realtà continua a cambiare» – citazione di un’intervista di Vera Gheno per Tlon del 2021. Lei mi piace un sacco, social-linguista e sociolinguista che negli ultimi anni ha reso pop l’utilizzo dei generi grammaticali, mettendoli finalmente in discussione. E poi ama le parole e anche io. Per lavoro però ne faccio un uso a richiesta, nel senso che scrivo per i profili social di diverse persone. Immagino di non essere l’unica, ma la mia professione mi interroga di continuo: come e quanto scriviamo? Ragiono sulla sovrapproduzione di frasi e lettere, di cose da dire: moltissima. Tra whatsapp e social network non abbiamo mai scritto così tanto e non abbiamo mai ascoltato così tanto silenzio intorno alla cronologia di una chat visualizzata. Spira di Daniela Pes esce ad aprile del 2023, suo album d’esordio dopo anni di festival vari, in cui pochissimi sanno chi sia. Tutt’oggi è una timida rivelazione, nonostante sia prodotta da Iosonouncane. Che c’entra Daniela con la contemporanea vita delle parole? Ogni canzone del suo album ne contiene diverse (e meno male! Si penserà.), ma pochissime hanno un senso intelligibile. Ogni brano è un mix di vocaboli inventati, dialetto gallurese – da Gallura, dove è originaria – e parole italiane riconoscibili. La magia è proprio questa: tra l’elettronica, lo sperimentalismo e il canto popolare a tratti ecclesiastico e antico, ci sono spiragli di identità lessicale, nazionale. In un mondo in cui ci scriviamo troppo, mi sono sentita sollevata a crogiolarmi nel suono; fra voce, synth e chitarra acustica, resto piacevolmente sorpresa poi accolta, quando l’italiano irrompe solo per complicità di fonetica retorica: ‘Ke ‘nera se ne ‘va / ‘dalle ‘ore s’kure /‘ora kon ‘me /‘ ore ‘lirano nell a’ria /‘ena ‘mora ke ‘kade ‘via / Fi ’gura ‘kolma ‘sia. (dal brano Carme).


Silja Sol, Bak skyene, 2022 (Andrea Romanzi)

A Bergen, in Norvegia, piove molto. Per questo motivo, Silja Sol ci ricorda e si ricorda che c’è sempre il sole dietro le nuvole, o Bak skyene, come recita il titolo del suo ultimo disco. Quinto album dell’artista elettro-pop norvegese, Bak skyene confeziona dieci tracce che mescolano la voglia di ballare e muovere la testa (‘Puls’, ‘Bak skyene’ e il singolo ‘Lalala’) alla ricerca di una calma introspettiva che aiuti a superare i momenti difficili, come la perdita di un famigliare (‘Skrubbsår’, ‘Sangfugl’ e ‘Stjerneklart’). In Bak skyene, i suoni creativi e giocosi tipici dei lavori precedenti di SIlja Sol si bilanciano armoniosamente con le sonorità più profonde e malinconiche, synth e chitarre raccontano una storia che si lascia ascoltare e di cui non si vorrebbe mai scoprire la fine.


Altera Nexa, No borders, 2023 (Massimiliano Cappello)

L’altro giorno un amico mi ha detto che oramai non trova più altro senso nella musica se non esserci mentre si fa. È un discorso che temo non valga solo in questo caso, né soltanto per le forme di espressione artistica. La direi una crisi della rappresentazione, se non avvertissi che si tratta del suo adempimento. Tornare sensibili al sensibile, vale a dire al presente, è l’unico modo di essere interamente presenti: lo diceva degli artisti Francis Ponge, lo ricorda Jean-Marie Gleize in Qualche uscita (Tic, 2021) e penso che ci sia di che riflettervi un po’ su.

Ad ogni modo capita che queste mediazioni saltino, che la traccia ci si sfaldi tra le orecchie, smetta di essere un determinato oggetto e ne diventi un altro, preluda al momento di un incontro più immediato. È il caso di dischi come No Borders, esordio del progetto musicale Altera Nexa, capace di comprendere, correggere, reinterpretare, perdonare intere porzioni di cultura per tramite del loro suono, e restituirle come invito a farne non bagaglio informativo ma proposta di essere.

«Nato a Padova nel 2020 dalle menti di Alessandro Niero (voce e tastiere) e Luca Dalla Gasperina (voce e tastiere)» – come si può leggere nella ricca descrizione su bandcamp –, il collettivo annovera altri otto musicisti. Ciò tenderebbe a situarlo preliminarmente in quella precisa area che sta tra fusion e prog music. Ma dimenticate ogni etichetta di genere, perché No borders non propone queste estetiche, ma piuttosto le discute. È un dialogo a più voci sulle eredità del Novecento musicale che rifugge sia il ballabile che il cervellotico. La codificazione, solistica o compositiva, vi è ridotta ma non assente, e sta a indicare il senso più profondo dell’agitazione che anima il gruppo: tornare a intendere queste sonorità come un ambiente in cui operare.

Di questo disco vorrei dire molte altre cose ma il tempo stringe, e dunque. Traccia 4, Give yourself, minuto 2:53. Il brano più snarky-puppeggiante dell’intero disco si interrompe bruscamente ma con grazia, ed è uno pseudo-Waltz for Debby con un tocco in più di Bach. E poi un assolo che definirei alla Scott LaFaro, per davvero, ma sentito come in sogno.

Eppure, tutte queste cose insieme le definirei tendenti a un brano di Bill Frisell. Non tanto per l’essenziale che si fa orchestrale, ma perché tornano a discutere di tutto senza rinnegare niente – Sting e i Dream Theater, Oscar Peterson e Porcupine Tree, Marc Ribot e i Genesis, ma soprattutto Zappa e i Motorpsycho (quelli di The Deaf-defying Unicorn, per intenderci). Notre seule patrie l’infance.


Model/Actriz, Dogsbody, 2023 (Simone Giorgio)

I newyorkesi Model/Actriz sono con questo disco al loro debutto, sebbene calchino le piste dei club della Grande Mela sin dal 2016. Registrato durante la pandemia, Dogsbody prende il titolo in prestito dall’Ulisse di Joyce, ma soprattutto offre un mix di noise, post-punk e dance punk molto ben calibrato. Il punto focale dell’album è la voce del cantante Cole Haden, e il modo in cui interagisce con la compatta e sicura sezione ritmica. Dimentico dei rituali sciamanici à la Ian Curtis in cui il post-punk è stato forgiato, Haden sembra più rievocare la lezione dei Suicide; la teatralità strascicata e tenebrosa con cui declama i pezzi (più che cantarli) ricorda da vicino l’orrorifico, omonimo debutto nel 1977 del gruppo di Manhattan, e soprattutto le performance vocali di Alan Vega. Così ad esempio nel primo gioiellino del disco, Mosquito, traccia 2, labirintica nella sua ostinazione claustrofobica tutta giocata sull’alternanza degli squarci chitarristici e sulla giustapposizione delle pause durante il lungo tunnel di basso e batteria che la caratterizza. Va da sé che il cabaret dark di Haden, così come i colpi di chitarra appena citati, si innestano sull’ossessione ritmica del gruppo, la quale diventa espressione musicale dell’altra ossessione, quella della lussuria, che pervade tutti i testi delle canzoni; Dogsbody sembra l’accompagnamento sonoro d’un girone infernale dove si puniscono relazioni tossiche, abusi psicologici, ambiguità morali a sfondo sessuale. In questo senso, la voce di Haden assume coloriture timbriche da dannato dantesco; nella riuscita miscela di sussurri, grida e cantato vero e proprio sembra divenire davvero «colui che piange e dice», come nelle tracce 6 e 7, Amaranth e Pure Mode, veri tour de force del timbro da teatrante disperato di Haden; ma ciò si applica a ben vedere a tutto l’album. Il disco si regge dunque su qualità che lasciano intuire non solo quanto il gruppo sia consapevole dei propri mezzi espressivi, ma anche che è perfettamente conscio di come metterli al servizio di un’idea performativa efficace in studio e dal vivo.


Yonic South, Devo Challenge Cup, 2023 (Federica Freschi)

Devo Challenge Cup rappresenta l’ultimo album degli Yonic South (Italia), un medley di 13 minuti ed è un tributo all’iconica band di Akron. La maggior parte dei pezzi è frutto di registrazioni risalenti al 2019 che ben 4 anni dopo hanno trovato la loro forma definitiva. Lo stile dei Ragazzi Ionici è inconfondibile, un po’ punk, un po’ garage e un po’ pop. Ogni nota ti prende nel profondo inibendo ogni processo sinaptico.


Giovanni Truppi, Infinite possibilità per esseri finiti, 2023 (Carlo Martello)

Infinite possibilità, un titolo impegnativo, ma che Truppi può permettersi, è il nuovissimo disco di Giovanni Truppi, appunto. Fin qui, niente di strano. Il disco è interessante, più rock dei precedenti. Questa svolta, come sempre succede quando si fa cantautorato, ha fatto storcere il naso a parecchiə, fin qui niente di strano. I testi sono il solito mix poetico-autobiografico-letterario-popolare-olistico-sensibile-vagamente fricchettone di Truppi, secondo me sono straordinari, ma di nuovo, fin qui niente di strano.         
Esiste un sito del disco – Infinite possibilità (infinitepossibilita.com) -, una cosa che si faceva negli anni ’90 e nei primi anni 2000, quando internet ci sembrava essere una possibilità anarchica, invece che social – e non è solo nostalgia, anzi, non è affatto nostalgia. È che anche per la terra del web c’è stata una guerra e l’abbiamo persa – e la cosa davvero meravigliosa che Giovanni Truppi ha fatto è stata aprire alla partecipazione, non tanto del pubblico o dellə fan, ma delle persone. Il sito diventerà una sorta di archivio collettivo, per esempio dei libri che ci hanno formatə, un archivio delle Infinite possibilità. I contributi arrivano via telegram, attraverso un canale – sempre infinite possibilità – in cui Truppi amabilmente dialoga con le persone, lancia delle proposte, le quali possono funzionare o meno, mette le foto, risponde a chi pone delle domande, anche tecniche. Il gruppo è ristretto, circa 150 persone, e funziona una meraviglia. Ci sono i racconti delle persone. E questo disco, insomma, sta diventando un’esperienza collettiva e di relazione. Poi è pure un bel disco.


Lankum, False Lankum, 2023 (Alberto Pellegrini)

L’apertura dell’album dà coordinate certe: un canto di donna con accenti e modulazioni che destinano il pubblico altrove, dalle parti della Britannia. Gruppo di Dublino dal nome ricavato da un’antica ballata ritrovata nel 1971 da John Reilly, i Lankum hanno uno sguardo attento al passato: tra le dodici tracce dell’ultimo disco figurano solo due inediti (Netta Perseus e The Turn), e più e più volte nell’album troviamo delle ballate alla chitarra (Clear Away in the Morning, Newcastle, Lord Abore and Mary Flynn) e lunghe canzoni si aprono su momenti melodici e ballerini, guidati dalle tipiche alleanze di violino, fiddle e cornamusa (New York Trader). La loro però non è un’operazione letterale, e questo sguardo e queste esplosioni danzerecce si innestano su di un tessuto complesso e originale, fatto di arrangiamenti cupi e bruitisti – frutto anche di integrazioni sonore digitali – che portano ancora più lontano il carattere ipnotico delle litanie vocali creando un’atmosfera riconoscibilissima, per niente rassicurante (si guardi alle tre fughe che scandiscono il disco). In questo modo, i Lankum propongono un gioco in equilibrio tra spensieratezza e dramma orrorifico, che tuttavia non rischia mai di far perdere senno e piacere a loro che suonano e a noi che ascoltiamo, perché fatto nella convinzione che, quando si canta e si suona assieme, non c’è mai niente da temere.