In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà venerdì 18 giugno alle ore 17 in Piazza Vecchia (qui le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Nel quarto appuntamento, parliamo con Mariangela Mianiti, in cinquina con Organsa (il verri, 2020).
[Qui si possono leggere le interviste a Calandrone , Franchini e Alunni]

Organsa è un romanzo a cornice: una sorta di prologo composto dai primi capitoli introduce la vicenda che occupa poi il centro della narrazione. L’innesco sono alcune fotografie, ritrovate dalla narratrice, Aurelia, che da lì ricostruisce la storia della propria famiglia e in particolare della madre Luisa. Come ha costruito questo romanzo? Ci sono state diverse ipotesi di struttura oppure la storia è nata insieme alla sua forma, secondo un procedimento in certo senso “naturale”?

Non è un romanzo “a cornice”, è un romanzo che nasce da un punctum. Tutto è cominciato da una fotografia, dalla crepa che nella fotografia del primo capitolo svela ciò che tutti in quella famiglia sapevano, ma che fino a quel momento non era mai stato nominato, ovvero il rancore profondo fra Anselma e Luisa, rispettivamente nonna e madre di Aurelia, la bambina narrante. Ho voluto infilarmi in quella crepa per raccontare che cosa significa essere prigioniere e vittime di chi ti dovrebbe amare. La storia è nata fin dall’inizio in quel contesto a cui è profondamente legata, un’osteria della Bassa padana a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Fin da subito i due microcosmi, quello della famiglia e l’altro dell’osteria, hanno proceduto parallelamente, come un intreccio indissolubile fra privato e pubblico. Ciò che avviene dietro le quinte, nell’intimo, nelle relazioni domestiche non è mai del tutto nascondibile. Questo vale sia per la famiglia che gestisce l’osteria della marletta, sia per i clienti e gli avventori che si muovono come in un teatro, il teatro della vita.

Un ruolo fondamentale, nel racconto, lo ha la lingua con cui la storia prende vita. Se la voce di Aurelia si riconosce per la sua chiara e corretta padronanza dell’italiano, i tanti personaggi che affollano il romanzo si esprimono in un dialetto che ricalca quello della bassa parmense, ma che ne è in realtà una versione depurata e leggibile. Per caso ha pensato inizialmente che nel racconto potesse trovate posto il dialetto nella sua versione più “cruda” o l’idea è stata fin da subito quella di coniare un impasto linguistico medio? E per caso le è sembrato, con questa scelta, di tradire in qualche modo l’autenticità della storia?

Il linguaggio, i linguaggi hanno sempre una valenza storica e così le forme in cui vengono parlati. Non ho cercato “un impasto linguistico medio”. L’idioletto parlato da molti personaggi di Organsa nasce da quell’impasto di italiano e dialetto che si sente da quelle parti dove, per rendere più efficace un’espressione, un modo di dire, un concetto, si parla in italiano e poi ci si infila una parola in dialetto, o si italianizza un termine dialettale perché più incisivo. Nascono così i neologismi, le trasformazioni linguistiche e le espressioni tipiche dell’oralità. In Organsa quei movimenti di linguaggio segnano il passaggio dal mondo contadino a quello industriale, l’arrivo della modernità a cui i personaggi, chi più chi meno, chi con maggiori o minori resistenze, vogliono aderire. Per queste ragioni non ho mai temuto che quella terza lingua potesse tradire la storia, anzi ho sempre avuto ben chiaro che l’avrebbe rafforzata e resa leggibile a chiunque.

Sempre a proposito di lingua, leggendo Organsa non può non venire in mente Lessico famigliare di Natalia Ginzburg: la lingua con cui si esprime una famiglia non è solo un codice comunicativo, ma è la stratificazione della sua storia. È stato effettivamente un modello per il suo romanzo? Ce ne sono stati altri, magari anche più rilevanti per lei?

Non ho mai pensato a Lessico famigliare, che ho molto amato quando lo lessi tanti anni fa, ma che ritengo estremamente diverso da Organsa. Là ci si muove in una realtà intellettuale e borghese, qui contadina e operaia. Là c’è un forte impegno politico, qui si pensa alla sopravvivenza quotidiana. Là non ci sono analfabeti, qui la scuola e lo studio rappresentano una conquista. Sono poi molto diversi i periodi storici, i luoghi, i destini, il linguaggio. Certo, la meta comunicazione che si crea in una famiglia esiste e la caratterizza, ma sono convinta riguardi tutti noi e in ogni parte d’Italia. Io ho espresso quella di quei personaggi in quel contesto storico, sociale e geografico. Ho tentato, oltre il lessico famigliare, anche di dire il lessico di una comunità.

Il romanzo è ambientato nelle zone di cui lei è originaria e forse contiene qualcosa di autobiografico; lei nel suo lavoro di giornalista e di reporter è abituata a raccontare la realtà così com’è (oltre che a commentarla). Il suo mestiere ha in qualche modo influenzato la scrittura del romanzo? Nella sua esperienza, sono due modalità di scrittura che si condizionano?

Penso si possa scrivere in modo autentico solo di ciò che si conosce, e per conoscenza non intendo la propria biografia, ma tutto ciò che si è visto, vissuto, osservato, sperimentato. Riguardo al giornalismo, benché anche lì lo stile e il linguaggio facciano una gran differenza, esistono regole imprescindibili come tempi di consegna, spazi contingentati, verifica dei fatti, committenza, giusta distanza. Per scrivere il romanzo mi sono tenuta ben alla larga da tutto ciò. Se nel giornalismo si può essere duri, ma mai irrispettosi, nella letteratura si deve essere spietati, o cattivi, o sfacciati, dipende, ma mai addomesticati, almeno per me.

Un’ultima domanda, leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio: qual è la qualità o il carattere che possono far vincere questo libro?

Perché piace abòta alle lettrici e ai lettori, di tutte le età, da nord a sud.