In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà venerdì 18 giugno alle ore 17 in Piazza Vecchia (qui le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Nel terzo appuntamento, parliamo con Lorenzo Alunni, in cinquina con Nel nome del diavolo (il Saggiatore, 2020).
[Qui si possono leggere le interviste a Calandrone e Franchini]

Nella prima parte del romanzo si dice che il protagonista sfrutta la lettura per creare una distanza da ciò che lo spaventa. D’altra parte, lungo il corso della narrazione sembra avvalorata la capacità di coinvolgimento dell’opera letteraria e artistica in generale. In ultima analisi, pensi che l’esperienza letteraria svolga più che altro una funzione protettiva che permette di porre una distanza di sicurezza fra sé e ciò che causa inquietudine, oppure che abbia piuttosto la capacità di coinvolgere il lettore nella rappresentazione, suscitando le emozioni più che la riflessione razionale? Pensi che il raggiungimento dell’uno o dell’altro effetto dipendano dalle caratteristiche retoriche e stilistiche della singola opera?

Quello che dice all’inizio il protagonista riguardo la lettura come anestesia del reale deriva da qualcosa che mi sembra di osservare spesso nel mio lavoro: il fatto che informarsi a sfinimento su un dato oggetto di ricerca o situazione contemporanea si traduce troppo spesso, per certi studiosi e studiose, in una sorta di normalizzazione delle reazioni emotive di fronte a situazioni difficili per altri umani e di perdita della capacità di stupore. Sono convinto che, al contrario, quelle emozioni e quella capacità di stupore sono uno strumento di ricerca in sé, oltre a uno snodo politico fondamentale per la ricerca.

Ma, al di là di questo altro spunto iniziale per il romanzo, mi sembra che un’opera letteraria abbia prima di tutto il potere d’infrangere o quantomeno di bucherellare la linea di separazione fra una funzione protettiva e una di destabilizzazione virtuosa rispetto al nostro vissuto emotivo del reale e del vero. Lo fa spesso mandando all’aria ogni rigida categoria attraverso cui tendiamo a delimitare i confini del reale, del vero, del legittimo, e così via. Come certa antropologia.

In Nel nome del diavolo, da una parte il narratore decide di anestetizzare preventivamente qualunque turbamento emotivo legato ai drammi della migrazione portando con sé nel suo viaggio libri che raccontano storie di naufragi e di altre forme di abbandono; ma, dall’altra, saranno paradossalmente proprio quelle letture a plasmare il contenuto delle sue visioni durante i momenti di trance che si troverà a vivere senza volerlo. È quindi come se il reale, qualunque cosa esso sia, avesse trovato attraverso il rito e la trance una porta sul retro per rientrare con prepotenza nel vissuto del protagonista, diventando in tutto e per tutto il vero.

È attraverso questa duplice operazione che nel romanzo ho tentato di, nel mio piccolo, sostanziare la dissoluzione di quella linea di separazione cui accennavo, e di farlo attraverso la sua dimensione estetica, che è proprio il potenziale euristico specifico della letteratura, con una forma di precisione tutta sua e che, da studioso, le invidiavo.

Il rito di passaggio compiuto dal protagonista può essere interpretato anche nei termini di una maturazione della sua coscienza etica, in quanto lo spinge a considerare all’interno della propria ottica personale anche problemi di carattere etico-morale che riguardano l’attualità e più in generale il valore della vita umana?

Me lo chiedo anch’io, nel senso che non so proprio se le esperienze che vive il protagonista durante il viaggio finiranno per trasformare la sua coscienza etica. È una delle ambiguità e ambivalenze che ho tentato di esprimere, e l’ho fatto perché, in fondo, essere in pace con sé stessi – e diciamo che alla fine il protagonista potrebbe anche esserlo – non corrisponde automaticamente all’essere in pace con gli altri e con il mondo, per così dire. Da questo punto di vista, in fondo una trasformazione etica potrebbe anche esserci: ma in peggio. Perché, per esempio, c’è il rischio che quell’anestesia che il protagonista tenta di autoindursi a inizio libro rischi comunque di andare a buon fine, e soprattutto perché c’è il rischio che quella trasformazione etica di cui mi dici diventi in realtà un’ulteriore forma di solipsismo, un solipsismo in cui l’aver preso coscienza di certi mali del mondo non significa sistematicamente porsi il problema di quel che posso o non posso farci io. In ogni caso, hai decisamente ragione a dire che Nel nome del diavolo voleva essere un rito in sé, un rito di riti, un lungo rito a cui si è sottoposto, più o meno inconsapevolmente, il suo protagonista, e, nella mia più sfacciata ma intima velleità, un rito anche per il lettore o la lettrice.

Il tuo lavoro di antropologo ha evidentemente influenzato l’ideazione del romanzo, a partire dalla scelta di rappresentare alcune esperienze rituali che finiscono per condizionare il percorso di ricerca e presa di coscienza del protagonista. Come è avvenuta la scelta delle tappe di questo percorso (i migranti a Lampedusa, il gruppo di Sudamericani a Messina, le persone che si radunano nel cimitero delle Fontanelle a Napoli)? L’idea che passa dal tuo romanzo è che questo tipo di esperienze siano molto più diffuse di quanto non pensiamo o siamo disposti a vedere.

Per la costruzione dei segmenti del libro in cui convoco certi rituali ho seguito un doppio binario. Da una parte, riti reali e documentati che ho adattato con cautela e varie precauzioni alle situazioni narrative del romanzo (per esempio il rito nell’hotspot di Lampedusa, quello di fronte al teatro di Messina, e così via). Dall’altra, altri riti reali e documentati che invece ho descritto fedelmente – con un rigore che, rispetto alla destrutturazione spaziale e temporale di quelle pagine, potrà sembrare paradossale – nei momenti di trance, chiamandoli in causa per partecipare al vortice percettivo e conoscitivo di quelle parti del libro, che non vuol essere in nessun modo un libro “sui migranti”, per così dire. In queste scelte, c’erano alcuni rischi etici (e non solo) verso i quali ho cercato di tenermi costantemente sotto sorveglianza. Uno di questi era quello di una certa violenza della decontestualizzazione: quella, cioè, del prendere dei riti e piegarli a proprie trascurabili esigenze narrative, fallendo nel riconoscere e rispettare i significati profondi, e spesso cruciali per certe esistenze, che rivestono per i suoi protagonisti. Il mio è piuttosto, attraverso una sorta di essenzializzazione controllata, un atto di fede nella trasversalità e universalità dell’efficacia esistenziale di quei riti.

Come è noto, opera e testo sono concetti non perfettamente sovrapponibili ma legati tra loro nella misura in cui il testo non esiste se non nella materialità dell’oggetto librario, grazie alla quale il testo può anche diventare feticcio, come nel caso di Moby Dick nel romanzo. Questo rende l’opera letteraria un caso particolare di oggetto ritualizzato o ritualizzabile? In che modo?

Moby Dick è uno delle opere della storia della letteratura che, mi sembra, più sono state oggetto di interpretazioni esoteriche di tutti i tipi. Da gente che lo apre a caso per trovare risposta ai propri dilemmi esistenziali, cosa che mi sembra avvicinare meravigliosamente Melville a Frate Indovino, fino al vederci messaggi sublimali di tutti i tipi, per esempio. Una parte importante del lavoro di documentazione per il libro l’ho svolta alla Bibliothèque Nationale di Parigi, e li ho trovato anche un libro del 1975 in cui, fra le altre cose, si constatava allegramente come la disposizione geometrica di titolo, autore, editore e altri elementi nella pagina del frontespizio fosse chiaramente un richiamo subliminale a un qualche simbolo massonico.

Al di là di questi aneddoti, ho tentato di declinare la presenza di Moby Dick in due modi: da una parte, come paradossale oggetto ritualizzato, nei riti in cui s’imbatte il protagonista; dall’altra, ergendolo a vera e propria cosmogonia, ovvero al libro che plasma il mondo, le credenze e i destini in cui si svolge la storia raccontata, e la Storia in generale, proprio come ci raccontano alcuni lavori di antropologia capaci di ascoltare e tradurci le cosmologie che regolano la vita e la visione del mondo di gruppi umani diversi dai nostri, pur con tutte le problematicità del caso. Questo, almeno dal punto di vista del personaggio scomparso. Tale doppia operazione non voleva essere per me niente di ludico né di banalizzante, per carità (non si scherza con la Balena Bianca). Voleva essere al contrario un modo per andare al cuore della sacralità non tanto di un libro, quanto degli elementi materiali e immateriali che in quel romanzo vengono sublimati a oggetti sacri e ritualizzabili: penso per esempio all’arpione che Achab fa forgiare dal fabbro di bordo per arpionare la Balena Bianca e che battezza – con un altro rito, appunto – in nomine diaboli, nel nome del diavolo. Non avevo nessuna intenzione di partecipare all’ossessione di Achab, né di farla pesare troppo sulle spalle delle altre figure convocate nel libro. Ma abitare più o meno provvisoriamente la cosmologia generata dal libro di Melville, questo sì. Mi assumo la responsabilità dei rischi e delle storture che tutto ciò comporta.

Un’ultima domanda leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio: qual è la qualità o il carattere che possono far vincere questo libro?

Ho una forte e sincera ammirazione per gli altri quattro libri finalisti e per i loro autori e autrici. Però, va da sé, la Balena Bianca (quella vera, non questa rivista) fa ovviamente il tifo per Nel nome del diavolo. E la Balena Bianca ha notoriamente una certa tendenza a staccare a morsi le gambe dei suoi avversari. Per esempio dei giurati che non votano come vuole lei. Non so, è solo un’ipotesi, declino ogni responsabilità, ambasciator non porta pena. Ma giurato avvisato…