[Prosegue il lungo saggio di Roberto Batisti alla scoperta delle relazioni tra poesia italiana contemporanea e racconto bellico; qua la prima parte, qui la seconda]

4. Un lontano ricordo del Luna Park: Valentino Zeichen o della guerra araldica. È importante rilevare come l’operazione di Bocchiola si distingua, proprio per la meticolosa cura stilistica e gl’importanti risultati artistici raggiunti, da altri esperimenti di minor impegno che, come il suo, rileggono la grande storia con sguardo obliquo, postmoderno, ma che restano in qualche modo confinati in un campo prettamente ludico. Penso in particolare ad alcuni testi di Valentino Zeichen. Questi, com’è noto, è passato alla storia della poesia italiana come archetipo del dandy, maestro di leggerezza e di svagata arguzia, cesellatore un po’ seriale di fini epigrammi dove una brillante trovata intellettuale si sposa a una certa malinconia e sensualità di fondo. Un modus operandi non così dissimile da quello del più giovane Magrelli (che rispetto a Zeichen pencola un po’ più sul versante dell’intellettualismo, meno su quello del gioco); e con lui condivide, mutatis mutandis, il principale limite, che è una tendenza a fare di questa sua posa, elegante e scettica, il contenuto tutto della sua poetica, liquidando così ogni occasione (in senso tecnico-montaliano) con agudezas a bassa intensità cognitiva le quali, per rifarsi alla terminologia degli antichi retori, rischiano il peccato di psychrotes, vale a dire – letteralmente – la freddura.

In Gibilterra, raccolta del 1991 confluita ora in Poesie 1963-2003 (Milano, Mondadori, 2004), un’intera sezione, intitolata Macerie di memorie storiche, è dedicata alla seconda guerra mondiale, osservata tramite la lente ludico-concettosa di cui s’è detto. Non è indifendibile la tesi che si tratti degli esiti più alti di Zeichen [1] in ogni caso, sono poesie che illustrano bene pregi e difetti della sua tecnica, e per affinità tematica consentono un raffronto coi testi analizzati in precedenza.

Il rovescio del decadentismo
L’estro del Führer ideò
l’eroe romantico di massa.
Aprendo le gabbie degli uffici
e delle lugubri fabbriche
avviò i tedeschi al palcoscenico
nei vari teatri di guerra.
Gli interpreti ambiziosi
non dovevano aspettare molto
il momento del debutto, i ruoli
si liberavano quotidianamente
nel corso dei duelli fra mezzi corazzati
che offrivano gloria ai veri talenti.
Un lontano ricordo del Luna Park,
una buona mira al tiro a segno
poteva salvare la pelle, e
fatto centro, il suono del carillon
annunciava in premio
una scimmia di peluche
che batte i piatti.

Guerra araldica
I
Gli appetiti delle nazioni
si risvegliano quando
l’espressione geografica
di alcune di queste
appare alle altre conforme
a un taglio di carne.
Sulla carta, Cecoslovacchia e Polonia
parevano bistecche di manzo;
la prima, di costa;
la seconda, di lombata.
Perciò Lord Chamberlain
valutò molto rischioso
contenderle al ringhioso Führer
che le aveva addentate
rompendo un patto d’astinenza.
Voleva tenere alla larga
dalla guerra imminente,
l’Inghilterra e le sue colonie
e senza l’ausilio di parole
indurre il famelico Hitler
alla caccia dell’orso russo.
Il rullo compressore
delle panzer Divisionen
stese sulla Francia
una carta da parati
decorata di croci uncinate,
ricoprendone le risorse.

II
Churchill era come un bulldog
smanioso d’azzuffarsi
col lupo germanico.
Per combatterlo sperperò
le ricchezze d’un impero terracqueo
più vasto di quello romano.
Gli inglesi ruppero perfino
i salvadanai dei loro bambini
per racimolare qualche pence
e ripagare i prestiti americani.
Contro ogni consuetudine
la vittoria li impoverì,
ma per educazione, il popolo
non pretese da Churchill
nessun rendiconto per tanta
allegra dissipazione.

Sono poesie, come premesso, indubbiamente dotate di una loro attrattiva. Al primo impatto, riesce irresistibile la chiusa pop della prima poesia, che fa pensare ai cartoon della Warner Brothers. Anche in Guerra araldica, la cui parabola formale è pure meno netta, più sbrodolata (la seconda parte esaurisce quasi subito, nella contrapposizione bulldog : lupo, lo spunto “araldico” del titolo[2], e appare solo debolmente legata alla prima; ma già nei vv. 11-21 si può notare un evidente calo di tensione), spicca comunque l’immagine delle bistecche, e poi soprattutto quella calata dei panzer sulla Francia, con una comica immediatezza, un’iconicità da videogioco. In qualche modo, scatta qui lo stesso procedimento che si rilevava – là molto più sommesso, anzi appena accennato in mezzo a toni ben più cupi – in Bocchiola: il tocco leggero e surreale con cui un’immane dramma storico è ridotto a stralunata rissa di burattini, oltre a divertire superficialmente per la dinoccolata brillantezza dell’immagine, offre implicitamente una mesta riflessione sulla gratuità davvero fumettistica di certi lugubri fenomeni come dittature e guerre, sullo iato abissale tra la sconsiderata levità dell’agire umano, in ispecie di chi ha l’occasione di muovere una qualche leva di potere (a qualsiasi livello), e il fango le lacrime il sangue di cui le aeree manovre da lui sognate si sostanziano nella pratica. Questa fugace coincidenza fra i testi dei due poeti nell’angolatura dello sguardo è forse causa anche dell’affinità di certi campi metaforici (imperi e nazioni come carne viva, contesa sotto denti e ferri chirurgici). Abbondano anche altrove in Macerie di memorie storiche immagini di questo tipo, costruite trasfigurando la ferrea concretezza del conflitto in una zuffa fantasiosa di figure che sembrano ritagliate nella carta: così, le corazzate sono torte galleggianti da parata / per la vista di golosi gerarchi, Gibilterra (con “atroce” freddura) una chiave inglese che / apriva e chiudeva lo stretto; russi e tedeschi sono due popoli ben forniti / di munizioni sonore che si scambiarono pezzi memorabili con le loro orchestre balistiche. Si tratta appunto di «un gioco artificiale e araldico» dove «la guerra è una guerra di emblemi, guerra di blasoni e guerra di carta, successione di battaglie navali scolastiche amplificata in distruzione, sconfitta, morte» [3].

Di meno, rispetto al testo di Bocchiola, c’è appunto il dramma – il fango le lacrime il sangue – che forse sono qui dati per presupposti, e certo non convengono all’aerea ispirazione zeicheniana, nonostante anche per questo poeta, nato a Fiume nel 1938, la memoria della guerra non sia puramente libresca ma richiami drammi personali (l’esilio dalla patria istriana). Resta qui solo l’ironia, cioè lo scarto fra la levità di certe formulazioni e l’immanità dei loro referenti, che in Bocchiola è una nota fra le tante, qui l’unico ingrediente, e quindi esibito in modo sin troppo scoperto. Sicché il gioco, quando pure funziona, ha vita breve [4]. E forse funziona proprio perché la vacuità estetizzante di questo fraseggio riecheggia quella dei belligeranti stessi di cui si narra. Non si tratta solo del fatto che Zeichen, alla ricerca del Witz estroso, veda fantasiosamente le battaglie come un tirassegno demente, le nazioni come bistecche da addentare; il suo merito è lasciarci immaginare che il Führer stesso e i suoi generali, come i conquistatori d’ogni tempo, le vedessero così, quando posavano gli occhi sulla carta geografica come se fosse il tabellone del Risiko.

Anche l’elaborazione formale resta molto al di sotto sia, com’è scontato, rispetto a quella di un poeta avanguardista (e perciò formalista per definizione) come Teti, sia di un poeta doctus come Bocchiola che delle tecniche d’ascendenza avanguardistica fa un uso selettivo e silenzioso. I componimenti di Zeichen adoperano infatti una lingua piana, trasparente, senza abbellimenti retorici o artifici formali, e anche senza tensione ritmica; una lingua tutta al servizio del concetto. L’esposizione è lineare e prende le mosse dall’enunciazione della tesi più o meno paradossale di partenza (L’estro del Führer ideò l’eroe romantico di massa; Gli appetiti delle nazioni si risvegliano quando l’espressione geografica di alcune di queste appare alle altre conforme a un taglio di carne), svolta poi in una serie d’immagini che puntano alla trovata umoristica, senza apparentemente preoccuparsi di come le parole vengono distribuite sulla pagina. I versi, mediamente brevi, tendono a coincidere con le unità del ragionamento, o tutt’al più le dividono in due o più parti di simile lunghezza: così, ad esempio, Gli inglesi ruppero perfino / i salvadanai dei loro bambini è una singola proposizione indipendente, di andamento del tutto lineare, che suonerebbe quasi intollerabilmente prosastica se non fosse almeno ripartita in due versi separati. Non ci sono vere inarcature, scarti, insomma attrito fra scansione ritmica e struttura sintattica. Invano si cercherebbe un verso nel pieno e più alto senso della parola, come “leviatani di guerra fra le onde”, “il fiume con la luce, che precipita”, o “che fa scempio di tutta l’armatura” – versi che sono tali, come già accennato, non esclusivamente per il fatto di risultare endecasillabi normativamente ineccepibili.

5. La signoria del ferro: Alessandro Rivali e l’eterno ritorno della distruzione. Un’operazione non dissimile, invece, da quella del Bocchiola di Mortalissima parte si può ritrovare all’incirca negli stessi anni nell’opera di Alessandro Rivali, che ha trovato espressione nelle due sillogi La riviera del sangue (Milano, Mimesis, 20051; Rimini, Fara, 20072) e La caduta di Bisanzio (Milano, Jaca Book, 2010). Come i titoli lasciano intuire, anche Rivali è un poeta ispirato dalla storia antica e moderna, e in particolare dal suo risvolto esiziale e cruento; anche nel suo caso, come per Bocchiola e come per Zeichen, la storia civica e personale (la resistenza genovese, le sofferenze della famiglia durante il periodo bellico) è il trait d’union con la grande Storia che impedisce di considerare la scrittura un mero esercizio erudito. Le affinità con Bocchiola proseguono nello specifico del dettato stilistico: anche qui i toni sono decisamente seri, lontanissimi dalla leggerezza un po’ affettata di Zeichen; anche qui i testi formano un’unica lunga collana poematica che attraversa gli scenari spazio-temporali più lontani (da Pompei a Persepoli, da Bisanzio a Varsavia) per restituire la fondamentale, sinistra somiglianza di stragi e guerre in ogni epoca dell’umanità. La pagina di Rivali nella Caduta di Bisanzio, similmente a quella di Bocchiola, snocciola scene truci e bagliori metallici, riscrive gli storici antichi (Ammiano, anche qui, e il suo grande modello Tacito, e i cronisti bizantini), e con un abile riuso delle sue fonti erudite erige scenografie di grande impatto, che vogliono far rivivere episodi noti e meno noti del passato con bruciante immediatezza.

Rivali è però un autore meno vario di Bocchiola, e per quanto la sua poesia, lungi dall’esibire trionfalistiche certezze, sollevi interrogativi morali di grande peso (Non trovava il filo, / così spaccato dalle domande; / cercava la teologia nella storia, / dove risiedesse / la fonte dei cicli e dei ritorni), essa è tenuta dall’inizio alla fine su un tono invariabilmente profetico, visionario e viscerale, che bandisce l’ironia e l’umorismo sia pur nero. Manca del tutto quel gioco perversamente lieve, quasi astratto di cui Zeichen abusa ma adoperato anche da Bocchiola. Curiosamente, riesce quasi in un’immagine di quel tipo Davide Brullo commentando in un’antologia da lui curata l’argomento “bizantino” di Rivali («le truppe del sultano da decenni trituravano l’intera mela dell’impero, ne restava il seme più puro, più solido, la città»), [5] ma non Rivali stesso, che può sì antropomorfizzare nazioni, paesaggi e città, ma solo per poter infliggere alla loro corporietà le stesse mutilazioni, le stesse piaghe bibliche che si rovesciano sugli abitanti. Ecco quindi i piedi disciolti di Babilonia, e gli spezzoni incendiari / appesi alla schiena di Dresda; o la memorabile chiusa in cui cadono grasso e sangue, / le balestre hanno lacerato / anche il costato del cielo. Questo eccesso di concretezza arriva a trascendere nella visione allucinatoria, con un procedimento tipico che si ripete pressoché in ogni testo della Caduta di Bisanzio, ma è tutto l’opposto dello stile che trasforma una lotta dura e sporca nel suo elegante stemma araldico.

Un primo limite dell’autore genovese è proprio la sua insistenza sui dettagli truculenti e francamente gore: la loro indubbia potenza al primo impatto può stancare sulla lunga durata, e rischia comunque, evidentemente contro ogni intenzione autoriale, la caduta nel kitsch sadico. Rivali ama soffermarsi sui particolari più crudi di supplizi e torture, con un iperrealismo che altrove gli fa difetto. Ecco come in un testo della Riviera del sangue, tratto dal ciclo dedicato all’assedio di Otranto, gl’invasori preparano al supplizio il vescovo della città:

Poi gli strapparono le vesti,
indicarono con un pennello la linea
lungo cui segare, perché il supplizio
fosse una lentissima,
allucinata scorticatura

Altri esempi si possono trarre dalla seconda raccolta: i Turchi entrati a Costantinopoli iniziarono a scorticare dalla testa, / disponendo le orecchie recise / sul catino per i denti dei cani; nella pagina successiva troviamo ventimila alberi scuoiati / perché ventimila prigionieri / agonizzassero sui pali […] prima che il tetano diventasse / un fermaglio alle vene. Nel gulag di Kolyma, a chi rifiutava il taglio dei tronchi / iniettavano canfora nelle vene; una rivolta a bordo di una nave viene soppressa quando alzarono le porte stagne / per spegnerli nell’acqua ghiacciata. Un’intera poesia descrive invece l’espediente con cui gli assedianti individuarono le riserve d’acqua di Bisanzio, per distruggerle e donare la sete al nemico: assetare un cavallo e lasciarlo poi vagare nella spianata.

Ma se Rivali sa essere preciso quando descrive, rielaborando le sue fonti, una tecnica d’assedio o di tortura, per il resto le vicende storiche di cui parla vengono livellate, dal tono costantemente visionario, a quelle puramente mitiche; né si ragiona su cause e dinamiche di ciascuno specifico conflitto. Sembra che quel che interessa sia trarre esempi sovrumani di abiezione o di virtù, certo non una riflessione sull’arte della guerra o sulle dinamiche di più ampio respiro che muovono lo scontro armato. Per lui, i Turchi che assassinano Costantinopoli (ma anche i cristianissimi conquistadores che mettono a ferro e fuoco l’Eldorado precolombiano) diventano un necessario, seppur temporaneo e intercambiabile, avatar del Male; afflato epico, ricerca di archetipi, consapevolezza che a turno si può rivestire il ruolo di carnefici o di vittime, ma anche appiattimento delle ambigue, complesse vicende umane su uno schema di base che pur nell’avvicendarsi degli attori resta troppo manicheo. Nulla sulle ragioni per cui un impero ottomano o spagnolo (compagini statali come tante altre, non draghi malvagi del mito) muovessero guerra ad altre nazioni e società, nulla su come finissero per prevalere.

Anche in Bocchiola, a dire il vero, si ha spesso la sensazione che la ratio del combattere sfugga, ma più che altro perché la guerra viene osservata dal basso e da dentro, dal punto di vista del soldato invischiato in un dramma futile e incomprensibile ai suoi superiori, e tanto più a lui. Il verso studiatamente caotico di Bocchiola inscena il dramma del combattente smarrito nel Kriegsnebel dove la morte è sempre in agguato (Se tutti / stiamo fra l’arma e il sangue, il nostro sangue / è già macchia sul prato, sulla singola / baionetta spettrale; Non vedevano – con i loro vent’anni / in fondo al corridoio di proiettili […] che morte, ciechi abulici al pertugio / da cui pochi sarebbero affiorati); oppure dipinge con amara ironia la dissennatezza dei comandanti che trascinano le truppe al massacro. E solo in quest’ultimo caso si avvicina a certi toni di Zeichen, il quale ama ragionare lucidamente (e ludicamente) su fronti, strategie, obiettivi, e volgere in toni parodici le fisse testardamente omicide dei comandanti in capo, come si è visto anche nei due testi riportati sopra. Ecco invece come Bocchiola racconta dell’armata di volontari britannici assemblata da Lord Kitchener all’inizio della Grande Guerra:

volontari di Kitchener
I battaglioni nani, a ricordare
che è ancora belle époque; i battaglioni
di amici, di colleghi in opifici
e banche. La mitraglia che potava
tutti i giardini del rione a schiera.

In questa breve poesia, la maniera è vicina a quella di Zeichen: concisione, linearità, un certo sorriso sardonico, ricerca dell’immagine buffa o grottesca (i battaglioni nani di allegri borghesi prelevati direttamente dall’ufficio) e della concettosa pointe finale (la potatura delle vite umane che si sostituisce a quella del rassicurante giardino di casa). Non fosse che si parla della prima e non della seconda guerra mondiale, sono versi che sarebbero a loro agio in Macerie di memorie storiche. Qualche segnale ci ricorda però che siamo di fronte all’opera di Bocchiola: la cura metrico-formale (la regolarità degli endecasillabi; la rima interna del v. 3; le inarcature), ma anche l’insinuarsi di una nota mesta, quasi tragica (per l’occasione distesa in un amaro sorriso) in quella giocosa. Nel testo riportato di seguito, pur in presenza di quegli spunti ironici e “araldici” già visti in Zeichen, emerge ancor più chiaramente lo specifico dello stile di Bocchiola:

generali
Di chi erano tutte le vittorie,
tutte quelle vittorie? dell’inglese
French, del prussiano von François? (a chi andava
tanto onore, a Glesquin?) Nell’accecata
mischia con i serpenti d’acqua, al coppo
della buca inondata, i diagrammi
cimiteriali seguivano il fronte,
o il cimitero-fortezza, l’immensa
sepoltura murata con gli stemmi
degli atenei dei suoi morti studenti.

Il poeta pavese esordisce ironizzando, è vero, sulla curiosa incongruenza fra l’effettiva nazionalità di due generali della Grande Guerra e l’etnico rintracciabile nei loro cognomi [6]; e chiude con un’immagine tanto emotivamente straziante quanto, di nuovo, concettosa (e veramente araldica, dato che qui, come accade anche in molti testi di Zeichen, si parla di stemmi), preceduta da quelle invero meno limpide dei diagrammi cimiteriali e del cimitero-fortezza. Nel mezzo, però, sono decisamente sue le tipiche virate su scene convulse che mimano l’affanno cieco e disperato del combattimento, fra dettagli realistici (la buca inondata) e inquietanti simbologie bestiali (i serpenti d’acqua forse parenti dei mostri marini e dei leviatani già incontrati nei versi su Giuliano [7]); oltre che, di nuovo, il verseggiare teso e spezzato. In un numero non ampio di versi il poeta riesce dunque a orchestrare tre o quattro motivi diversi (ironico, luttuoso, epico, visionario) sfumando gradatamente dall’uno all’altro.

Così ancora nella poesia arterie (p. 17), dove lo svolgimento “zeichenianamente” pacato e cerebrale di una questione di strategia militare (prevarrà la massa compatta / di fanteria o le fortificazioni difensive?), iniziato nella prima strofa e concluso nella terza, è interrotto da una strofa centrale visionaria e cupa (oltrepassando il fiume di sangue / – la cometa che lo annunciava, nera) quasi degna della maniera di Rivali. Sia detto per inciso che le asperità, le durezze lessicali sintattiche e ritmiche di cui Bocchiola arma i suoi versi possono a tratti diventare eccessive. La Scilla e la Cariddi fra cui naviga (peraltro quasi sempre con successo) questa scrittura sono infatti lo «squisito manierismo» [8] della sua raffinatissima arte compositiva e il «surrealismo strisciante» rimproveratogli da Manacorda [9], con riferimento al pericolo di nonsense che corrono certi accostamenti troppo arditi.

Il verso di Rivali risulta invece più immediato, meno intricato di quello di Bocchiola, e per quanto i due libri si somiglino nel robusto apparato erudito che hanno alle spalle [10], il genovese allinea con minore artificio le sue scene di distruzione così come quelle di vibrante profezia, tutte investite di un valore esemplare che tende a fare di ognuna un cammeo, una pittura allegorica a colori primari. Sembra che per non diluire nella retorica la potenza primordiale delle immagini, Rivali ricerchi una sorta di solenne cadenza omerica, in cui ogni cosa è detta nel modo più limpido e sonoro possibile. Il poeta rifugge invece le sfumature, i mezzi toni. La sua linearità rischia però di sconfinare in prevedibilità sul piano formale; come è stato osservato a suo tempo in un intervento critico di Antonio De Lisa, sembra che

l’autore si accontenti del fascino del contenuto, lasciando un po’ in ombra l’aspetto più propriamente poetico-stilistico [sic]. Non nuocerebbe affatto a molte poesie una loro stesura in prosa, anzi sembra che derivino da un’originaria stesura in prosa, anche se si tratta di una prosa che potremmo definire “d’arte”, raffinatissima. Negli esiti migliori è risolto con evidenza icastica il singolo sintagma o verso, che preso da solo è spesso memorabile [11]

Infatti, se il verso di Rivali è in sé ben cesellato, muscoloso, sicuramente più musicale rispetto a quello ad esempio di Zeichen, è però – nel bene e nel male – un verso in sé concluso e tutto cucito attorno a un motto sapienziale o a un’impennata lirica che tende a coincidere con un’unità metrica e sintattica (Ricordami la seduzione del fuoco), quasi mai tormentato da cesure interne o proiettato nell’enjambement. Relativamente elementare e non sempre azzeccato risulta invece il ricorso alle figure di suono: allitterazioni, assonanze, qualche ripetizione forse evitabile. A conferma del suo estro sostanzialmente paratattico, Rivali sfrutta piuttosto con buona efficacia il parallelismo [12], figura di stile tipica, com’è noto, della poesia biblica (Fiamme ansimavano sotto gli stipiti, / ogni porta aperta un vento di fuoco; la spada separò ogni casa / e i figli replicarono ai padri; scivolavano sul collo dei rami, / nuotavano sul fondo delle fontane; Ritornava la signoria del ferro, / le piste aperte sulla cenere). L’impasto lessicale, infine, è fondato su un pugno di termini semplici dalla forte valenza archetipica (acqua, fuoco, sangue), senza scarti di registro e senza ricercatezze o tecnicismi peregrini.

Note:

[1] Così, ad esempio, secondo Plinio Perilli, Valentino Zeichen. L’epigrammista surreale, in «Poesia», 318 (settembre 2016), p. 17: Gibilterra sarebbe l’«apice antilirico e struggente» di Zeichen.

[2] In questo caso, d’altronde, non particolarmente originale: per un riuso in poesia della comune identificazione di Churchill col bulldog si veda, ad esempio, il caso montaliano (senza dubbio meno scoperto e lineare) discusso alla n. 10. Quanto al lupo come metafora dell’imperialismo aggressivo hitleriano e delle nazioni-bistecche come sua appetitosa preda, si tratta di simbolismi già abbastanza diffusi in vignette e illustrazioni propagandistiche o satiriche dell’epoca (ad esempio in un poster del gruppo Kukrynisky datato 1938, vedi <http://i.imgur.com/stuZvpI.png>), al punto che non è implausibile ipotizzare che Zeichen abbia qui voluto offrirne una sorta di traduzione in versi.

[3] Giulio Ferroni, Introduzione, in V. Zeichen, Poesie 1963-2003, cit., p. xv.

[4] Al netto di tutte le differenze del caso, in primis quella di genere letterario, si tratta di procedimenti non così diversi da quelli con cui Italo Calvino geometrizzava giocosamente la violenza e il dramma, per renderli in qualche modo inoffensivi. Si tratta, anche qui, di una rimozione che può esser vista come un limite dello scrittore; per una critica recente su queste linee, vedi Matteo Marchesini, In quel momento muore. Un bilancio su Italo Calvino, in «Doppiozero», 31 agosto 2015, <http://www.doppiozero.com/materiali/calvino-trentanni-dopo/in-quel-momento-muore>. Diverso era invece l’animus delle Canzonette fortiniane sulla guerra del Golfo studiate da Cortellessa (vd. nota 32), che sceglievano sì una leggerezza cantabile e frivola, ma per cavarne un effetto – tutt’altro che leggero – di spietato sarcasmo.

[5] Davide Brullo, Alessandro Rivali, quasi un Tacito dei nostri giorni, in La stella polare. Poeti italiani dei tempi ‘ultimi’, Roma, Città Nuova, 2008, p. 141.

[6] Un altro paradosso onomastico, stavolta nell’epoca delle crociate, è ricordato nella poesia il tiranno: quella prima confusione di greci / detti romani, di latini in vero / normanni.

[7] La figura del drago o del serpente, atavico simbolo del male e della distruzione, accomuna con la sua frequenza la raccolta di Bocchiola a quella di Rivali.

[8]Franco Brevini, presso M. Merlin, ibidem.

[9] G. Manacorda, La poesia, cit., p. 86.

[10] Allo stesso modo di Bocchiola, Rivali fa seguire la sua seconda raccolta da Note (pp. 125-127) che chiarificano il tessuto delle allusioni dotte.

[11] Antonio de Lisa, recensione a Rivali, La caduta, in «In poesia», 8 dicembre 2010, <https://inpoesia.me/2010/12/08/recensioni-a-rivali-la-caduta-di-bisanzio-di-a-de-lisa/>.

[12] Cfr. Alessandro Ramberti, La caduta di Bisanzio. Alessandro Rivali, in «farapoesia», 9 febbraio 2007, <http://farapoesia.blogspot.it/2007/02/la-caduta-di-bisanzio-alessandro-rivali.html>.