1. L’autore

Alfonso Maria Petrosino (Salerno 1981) presenta nella sua quarta raccolta di poesia un ciclo di 60 sonetti ispirati a variazioni ipercontemporanee sui temi della natura morta e della vanitas. Questo è – lo dico subito – il miglior libro di un autore già noto e apprezzato, ma forse con troppe riserve. Petrosino è uno dei migliori neometrici d’Italia; il più giocoso e giocoliere, un tratto che può portare a percepire la sua poesia come (troppo) ‘leggera’ o ‘pop’, tanto più che l’autore ha il vizio di partecipare ai poetry slam e spesso di vincerli. In realtà è proprio la sua poesia la più credibile dimostrazione dell’argomento (che in generale non mi convince troppo) che agli slam può funzionare e vincere poesia di qualunque tipo, non solo del genere più tipicamente ‘slam’ (marcatamente performativo, se non paracabarettistico). Petrosino è, nella prima generazione di slammer italiani di successo, quello che maggiormente si tiene in equilibrio fra questo mondo teatrale e ludico della performance e una poesia ‘scritta’, colta, capace di funzionare sulla sola pagina. Né alla sola dimensione orale è riconducibile la cifra del suo gioco; si tratta piuttosto di un autore debitore di una concezione combinatoria ed ‘enigmistica’ della scrittura ben segnalata dal titolo della sua seconda silloge, Parole incrociate (Tracce, Pescara 2008), e in quanto tale di ascendenza avanguardistica.

Il critico e studioso Paolo Giovannetti, passando in rassegna i principali ‘nodi’ del confronto della poesia odierna con la dimensione orale-performativa, cita Petrosino come esempio di neometricista che “fa uso delle forme metriche più bizzarre, traendole di peso dal nobile passato italiano” e coniugando temi “assolutamente contemporanei e, anzi, spregiudicati” a una «‘forma’ […] davvero strepitosa» (La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura, Carocci, Roma 2017, 73s.). Quanto all’accusa di eccessiva fatuità dei temi sui cui il magistero formale si esercita, va osservato che fin dall’inizio Petrosino ha iniettato robuste dosi di malinconia dietro la veste sgargiante e festiva. In Ostello della gioventù bruciata (Miraggi, Torino 2015) il poeta chiede, ribaltando Auden, La verità, vi prego, sulla morte. E un suo vecchio cavallo di battaglia, incluso anche in quella raccolta, è un testo (Tutta colpa dei comunisti) che si balocca con l’ideazione suicidaria, sia pure in filastroccanti quartine d’ottonari, e con un dénouement tutto comico (il tentativo di buttarsi sotto un treno fallisce causa sciopero ferroviario). Certo, in queste e altre poesie che si accostavano ai temi ultimi restava sempre molto di scherzoso. Con Nature morte e vanità in un certo senso l’autore denuncia la ‘serietà’ della sua operazione esercitandosi in una rivisitazione contemporanea di due generi di antica tradizione e di spirito non certo frivolo (e consono ai nostri tempi tragici e precari). Ci riesce, come vedremo, senza rinunciare ad essere sé stesso.

2. I teschi

La presenza della morte è davvero ossessiva in queste pagine, a partire dal suo simbolo per eccellenza e accessorio principe della vanitas, il teschio. Se ne contano 23 occorrenze (ma 27 esemplari, perché in Vanità di gruppo sono cinque; anzi 28, con l’ispanica calavera di Tequila doppia), più una decina di scheletri e vario altro ossame (fino all’inventario osteologico dei vv. 10-12 di Vanità di gruppo); un teschio è descritto, di fatto, nella seconda quartina di Vanità notturna («Il sorriso che stringe labbra e muscoli | facciali ormai scomparsi è tutto denti. | Niente più palpebre, pupille assenti | e le orbite oculari due voragini.») e un altro in Interno familiare («e poi con le falangi esploro i fori | in cui un tempo c’erano i miei occhi»). Pure l’incipit di Natura morta con dentiera e occhiali parrebbe presentare un’immagine simile («Dov’è la bocca, dove sono gli occhi?»), anche se gli organi assenti, o meglio le loro protesi, stanno più banalmente sul comodino, sotto forma appunto di dentiera e occhiali.

E poi, sarà forse allucinazione fonestetica, ma il suono delle sequenze /(k)kj/ e /sk(j)/ (spesso anche in rima) mi sembra a tratti pervadere il libro, mimando lo scricchiolio (appunto) delle ossa secche, ed evocando il consonantismo delle parole scheletro e teschio anche in loro assenza. In modo simile, le non infrequenti rime in –orte od –orti rimandano paradigmaticamente a morte e morti anche senza bisogno d’includere tali parole(ad esempio in Vanità del suicida o in Trittico di Richerenches, 2). Oltre agli scheletri, letterali e fonetici, altri simboli di morte e decadimento popolano i testi, come gli animali disgustosi e frequentatori di carogne: il roditore che fa capolino proprio dall’orbita vuota d’un teschio in Vanità con topo; le blatte di Vanità con scarafaggi. E l’inventario delle nature morte annovera, naturalmente, gli oggetti più classici – frutta, fiori, candele, libri – insieme a quelli della nostra quotidianità (Kindle, magneti da frigorifero, foto di Maradona). Fusione di classico e pop che, appunto, poteva suonare a volte troppo facile e ‘piaciona’ nella poesia di Petrosino, ma qui almeno non stona affatto: davanti alla morte siamo tutti uguali… Ma ancora presagi sinistri sono espressi dai minimi dettagli della composizione. In Interno scolastico, a dare tono funebre all’aula scolastica vuota non è tanto lo scheletro (anatomico, e goliardicamente dotato di banana in posizione fallica), ma il fatto che il registro segni «assenti | tutti», e sulla lavagna ci sia «polvere di gesso | nei punti in cui erano scritti i nomi».

Nella sua breve e acuta prefazione, Alberto Bertoni osserva che l’io «si diverte a mettere in scena il proprio corpo in forma di scheletro», e che non solo maneggia teschi ma è «lui stesso teschio». In effetti questo libro, dove apparentemente l’io autoriale si mette in mostra meno spesso del solito, è molto personale e molto sentito. L’autore dissemina tracce autobiografiche, dalle città della vita (Salerno Pavia Torino Parigi), alle proprie passioni (gli scacchi), e lascia quattro Autoritratti, di cui uno – notevole – con la madre («Nella tasca una lettera che avevo | scritto per lei ma non ho mai spedito»); ma è altresì vero che la natura stessa del genere porta spesso i testi a un’impersonalità descrittiva. Tuttavia, ogni qual volta il soggetto entra in scena, è chiaro che la meditazione sulla finitezza diventa meditazione della propria finitezza, e che tutti questi giochi con la morte, condotti con la solita funambolica levità, si nutrono di una non celata angoscia di fronte all’idea della propria morte. Il poeta-imbonitore esorcizza magnificamente, fra giochi di prestigio, concettismi («Non c’è un teschio, ma è come se ci fosse») e digressioni; ma nel sonetto conclusivo si presenta inerme davanti alla paura suprema. Partendo, è vero, dall’ennesimo paradosso, che però si risolve subito in un’opprimente minaccia: «I vivi sono morti per i morti», e quindi «per noi non c’è nessun perdono». Nello schiocco delle dita il vivo sente già «il rotolio di dadi | delle falangi sparpagliate», nella propria fronte – ovviamente – un teschio. E il libro si chiude su una protesta accorata: «Non ancora, non ancora».

3. Le rime

Petrosino non solo innalza una vitalistica protesta di fronte alla morte, ma dà un eccezionale saggio di vitalità sul piano compositivo. Vale dunque la pena di analizzare più da vicino i procedimenti linguistici in cui l’autore estrinseca la sua creatività figurale e verbale, a partire dalle soluzioni metriche. Lungo l’arco del libro, Petrosino varia continuamente lo schema di rime dei sonetti, evitando quasi sempre le strutture più canoniche (come ABAB ABAB o ABBA ABBA nelle quartine, CDE CDE o CDC DCD nelle terzine), e prediligendo spesso, soprattutto nelle quartine, sequenze alquanto inusuali. Non si tratterà certo d’incapacità a seguire gli schemi tradizionali, quanto di ricerca della variatio (anche a compensare la perdita della maggior varietà metrica dei precedenti libri) e – come vedremo anche a livello della rima e del ritmo – di sabotare con sottili irregolarità la simmetria levigata delle forme classiche.

Come osservava già Giovannetti per la precedente produzione, Petrosino ama la rima ipermetra di ascendenza pascoliana del tipo cibo : mandibola, quasi un suo marchio di fabbrica: troppo numerosi gli esempi perché metta conto elencarli. Molto numerose anche le rime frante (affreschi o : teschio, gherigli e : bottiglie, paralleli di : efelidi), anche in sinafia (abbindola : kindle | a). Come mostra l’ultimo caso citato, l’autore usa sovente rime rare per accomodare nomi e termini stranieri, anche in due lingue diverse, ad esempio Durkheim : lime o making of : Totenkopf (e per soprammercato il primo membro di quest’ultimo richiama paronomasticamente, al principio dello stesso verso, quello di Tutankhamon). In Paesaggio arcadico, con soluzione ancora più preziosa, McQueen : ET IN fa rimare cognome anglofono con latino proverbiale (e aposiopetico; nel Trittico di Richerenches, 3, il detto riappare nella forma meno mutila «Et in Arcadia»). Di nuovo il latino pereunt entra in rima doppiamente franta (e costruita con sole parole grammaticali) con la sequenza per e un. Anche restando all’interno dell’italiano, e senza trucchi fonetici, comica per il cozzo dei registri – nella tradizione gozzaniana di Nietzsche : camicie – la rima fra Sant’Anselmo e pompelmo in Natura morta con buccia di pompelmo e noci (anche se meno clamorosa di un Youporn : Bernart de Ventadorn, rintracciabile nella precedente raccolta).

Per accomodare nomi foresti, spesso il poeta non tiene conto delle consonanti che seguono l’ultima vocale atona (del tipo nube : Schubert o languori : Yorick); ma in Interno (studio parigino) questa tecnica è impiegata con una certa sistematicità: nella seconda quartina, a rime alterne CDCD, il primo distico aggiunge un –r finale (computer: water) alle terminazioni del secondo (incompiute : stropicciate; inoltre, compute(r) : incompiute è anche rima inclusiva); lo stesso rapporto lega, in uno schema EFG FEG, le rime della prima terzina (sonno : coste : tappeto) a quelle della seconda (poster : Connor: Terminator). In questo modo, persino una occasionale licenza può essere eletta a vincolo.

Quasi come contraltare a tutto questo virtuosismo, le rime sono d’altronde spesso imperfette, con una certa tolleranza sul timbro della vocale atona finale; ma è interessante come anche queste licenze sembrino sottoposte a certi vincoli di coerenza e di prossimità fonetica. In una data poesia, ad esempio, e può entrare in rima con i, oppure o con a, e magari più d’una volta, ma non con ogni altra vocale; un simile trattamento è applicato alle consonanti in Natura morta con mela, pera e lattina, dove due volte p rima con v. Altrove appare ammessa l’equivalenza fra /s/ e /ʦ/ dopo sonante (tipica d’altronde di molte pronunce regionali del centro-sud).

Sono ancora più interessanti altri casi in cui la rima, apparentemente assente, è in realtà doppiamente presente, operando in modo parallelo e indipendente sui due livelli del vocalismo e del consonantismo. Nella prima quartina di Vanità con fogli e carte, nessun verso rima con un altro (né con alcuno della seconda quartina!); ma a ben vedere, le terminazioni sono –eni -ine -ile -eli; come dire che sono presenti insieme uno schema AABB per le consonanti e ABBA per le vocali. Qualcosa di analogo avviene nelle terzine di Piazza italiana, che seguono uno schema DEF DEF per le vocali e DDF FFD per le consonanti, con terminazioni –oro -aro -auto -oto -ato -auro. In entrambi i casi, si noterà che la serie vocalica prescelta è anche timbricamente coerente: anteriore nel primo caso (e, i), posteriore nel secondo (a, o, au), contribuendo a legare foneticamente i versi in assenza di rime canoniche. Mentre nelle quartine di Natura morta con fiori, vino e violino è praticamente impossibile stabilire lo schema o gli schemi di rime, ma si rileva sostanzialmente un consonantismo (quasi) fisso e un vocalismo variabile, con i versi tutti consonanti in /(k)k/ o /nk/, e tutte le vocali della serie a precedere il nesso velare.

Un altro raffinato espediente che occulta e dissimula la rima, conservando le rispondenze foniche senza la cantabilità dell’omoteleuto, è la rima anagrammatica. Nella seconda quartina di Scheletro e luna, rispondono a questo procedimento sia indica : candidi sia l’ulna : più in là. Quest’ultima coppia anagramma però anche la luna che appare nel titolo (oltre che, non in rima, al v. 9), la cui vocale tonica è richiamata dai molti /u/ disseminati in questo sonetto, uno dei più notevoli concerti di ululati della raccolta. In Piaghe d’Egitto, alle rime anagrammatiche perfette sera : arse, invita : vanità, cose : esco, amica : chiama si aggiunge la quasi perfetta, e bilingue, tumbler : blatera, alternata d’altronde ad asterischi : whisky (il nome del liquore si presta a uso analogo in Esercizio di mnemotecnica, stavolta accoppiato a giradischi). Un bell’anagramma, non in rima ma all’interno di un unico verso (una rima al mezzo anagrammatica, se vogliamo), è «oltre al referto sull’oscuro feretro» in Un bastimento carico di oblio.

Infine, un caso estremo e forse illusorio, ma potenzialmente notevole: una rima inclusiva a distanza di due pagine (o 31 versi) fra Anubi (in Natura morta con scacchiera, v. 10) e nubi (Trittico di Richerenches 2, v. 13), in identica posizione metrica prima della cesura a maiore. Pareidolia prosodica? Probabilmente; ma il fatto stesso che l’occhio e l’orecchio abituati alla poesia di Petrosino possano legittimamente sospettare un’intenzione autoriale, anziché il caso, la dice lunga sulle diaboliche trovate di cui questo poeta è prodigo.

4. I metri

Sul piano metrico, gli endecasillabi sono in genere regolari quanto alla misura (ma i vv. 2 e 4 di Interno (studio parigino) sono decisamente ipermetri) e alle collocazioni degli accenti, con prosodia perlopiù «rapida e brillante» (Bertoni) ma anche con buona padronanza dei cambi di ritmo quando necessari (come nell’iconico rallentando di «ottenebrandolo come una cappa»). Così come le rime, anche i versi sono qua e là non canonici, e in alcuni casi per far tornare il computo è necessario apporre gl’ictus in modo innaturale, come ben sa fare l’autore nella sua recitazione. Se dal vivo Petrosino trae ulteriore partito spettacolare da queste forzature, sulla pagina esse ci ricordano che il nostro non è un neometrico calligrafico, ma un poeta del XXI secolo che nella scelta calcolata delle forme chiuse tradizionali sa iniettare le incertezze e le dissonanze della versificazione contemporanea, pur avendo con ogni evidenza l’indubbia capacità di essere perfettamente regolare quando lo vuole.

Vediamo qualche esempio di questa prassi, a partire da un verso particolarmente anomalo e ambiguo. Il v. 4 di Natura morta in cucina è di fatto un novenario regolare, con accenti di 2ª 5ª e 8ª, travestito da endecasillabo tronco mediante l’aggiunta di un monosillabo accentato: «ricòrdi che sóno cresciúti lì». Un esempio ancor più estremo è offerto dagli ultimi due versi di Vanità in camera da letto, «nell’angolo in cui c’erano l’armadio | e il letto: un teschio umano o un sasso a forma di.» L’ultimo verso può esser letto come endecasillabo, con accenti peraltro aberranti (di 1ª, 3ª, 5ª e 7ª!), solo a prezzo di molte sinalefi (anche col verso precedente) e di una dislocazione d’accento nell’ultimo sintagma (fórma díformá di); il tutto per ottenere l’ennesima rima virtuosistica, franta e ricca, armadi(o) : formá di. Similmente, in Vanità con gatto il nesso «3D, ha» deve, per rimare con sedia, ricevere un accento quantomeno inusuale sul ‘tre’ anziché sul ‘D’ o su ‘ha’. In Autoritratto negativo, la sequenza più io rima con buio; in Natura morta in pizzeria, sucon chiuse. Lo stesso succede in Natura morta in cucina n° 2 (non è : balcone) e in Ultima vanità (però no : perdono). E sempre nel testo appena citato, il verso «la morte la potesse battere» parrebbe decisamente ipometro: un novenario sdrucciolo. Per restituirlo a misura endecasillabica (tronca) e consentire la rima col verso precedente («di proseguire e fare come se»), occorre pronunciare bàtteré, dando priorità al facoltativo e debole accento secondario sulla terza sillaba rispetto a quello, fonologico, sulla prima. Eppure, chi ha sentito la viva voce dell’autore riesce a immaginarsi facilmente come anche un simile verso sarebbe reso credibile da una scansione enfatica e fintamente trasandata al tempo stesso; il guizzo finale, capriccioso e istrionico, con cui balzerebbe sulla sillaba finale… La forzatura contraria (accento ultimale che diventa terzultimale) è d’altronde richiesta almeno due volte: in Natura morta con sigarette per far rimare mácchierà con chiácchiera, e in Vanità con scarafaggi per ottenere una consonanza vagamente anagrammatica fra dílagàr e Cáligraph.

Ancora più traumaticamente, in È solo un’altra tacca in più l’accento rimonta di una sillaba all’interno di un unico lessema, per consentire una rima ipermetra: «in schianti e schiume e svuotano le viscere | io scarico i miei stupidi cliché» (ma c’è, anche qui, un’ambiguità che la recitazione può dissimulare oppure enfatizzare: il secondo verso sarebbe un endecasillabo, tronco, molto più regolare se cliché mantenesse la sua accentazione, al prezzo però di perdere la rima; l’autentica passione di Petrosino per la rima ipermetra consiglia invece la lettura clíche, che però obbliga a una scansione molto meno fluida di tutto quanto il verso).

5. I suoni

Naturalmente, l’estro musicale dell’autore ha modo di esercitarsi anche al di là del dominio della rima. In questa raccolta tematicamente così coesa, certi effetti ricorrenti di fonosimbolismo sembrano ricalcare la trama delle ossessioni lessicali. Si è già accennato all’impressione che l’osseo consonantismo di teschio e scheletro venga ripreso anche dove queste parole mancano. Colpisce anche l’abbondanza di rime e di assonanze in /u/, il timbro vocalico più cupo e perturbante, già in sé potenziale innesco dell’orrore come insegna Tarchetti. Le toniche in /u/ spadroneggiano già nel sonetto liminare, descrizione d’una Porta d’ingresso spalancata su un interno deserto, inquietante e ricorsivo («Sulla parete» c’è «una natura morta | ed il disegno di un ingresso: quello.»). Qui, la rima in –ura dei versi centrali della prima quartina riappare infatti come rima interna nei versi dispari delle terzine, mentre la seconda terzina incrocia rime in –ù e in –uce.

Tante sottigliezze fanno quasi passare in secondo piano altre figure di forma e di suono forse meno peculiari, d’impiego meno sistematico. Penso ai ‘semplici’ bisticci paronomastici («sul mio taccuino aggiungo un’altra tacca», «foglio su foglio e ognuno era una faglia», «s’incanta | il disco ed è incantevole così», «sul suolo che s’imblatta e imbratta»; la triangolazione paronomastica del titolo Internoestivo; poi esterno ripresa con variazione nell’altro titolo Interno estivo; poi eterno) ed etimologici («l’Incompiuta completano», «s’incanta | il disco ed è incantevole così»); o agli effetti imitativi, di carattere onomatopeico (lo scalpiccio di /t … k/ in «tacchi affrettati nella stanza accanto | e di un toc toc di nocche sulla porta»; i raccapriccianti stridori d’insetti calpestati in /(s)kr … kk/ e /str/ di tutto Vanità con scarafaggi) e iconico (il disco che «s’incan s’incan s’incan s’incanta» in Esercizio di mnemotecnica). Tutte soluzioni che peraltro evidenziano la natura molto ‘spettacolare’ di questa scrittura e la vicinanza alle sue radici orali.

6. Oltre il ritmo

All’esibizione a volte sfacciata del talento metrico-prosodico fa riscontro la «ricchezza ben mimetizzata del lessico» (Bertoni). L’osservazione coglie nel segno, perché in Petrosino colpisce di più l’originalità nella disposizione delle parole che la scelta delle stesse; ma il suo vocabolario non è certo povero o grigio. La trama dei versi è ravvivata da tecnicismi (flipbook, prassinoscopio), semi-neologismi espressivi (elettrosciocca, il quasi dantesco s’imblatta), qualche sonoro superlativo (spigolosissimo, rosicchiatissimi); comunque, la scelta lessicale punta raramente allo scarto bizzarro, ed è caratterizzata soprattutto da una non invadente precisione. C’è casomai un moderato plurilinguismo, che forse sarebbe meglio definire assenza di purismo: l’impressione è che Petrosino non usi più forestierismi di quelli che normalmente ricorrono nella conversazione media, anche se sicuramente più di quelli che ricorrono nella tradizione del sonetto italiano. La collocazione favorita è d’altronde quella, marcata, della fine di verso, con la conseguenza che a rimare col nome straniero vengono adibite – come si è visto – vuoi ingegnose combinazioni di parole italiane, vuoi altri forestierismi. Nella lingua d’oggi, insomma, né spoiler boiler stupiscono minimamente; trovarli in rima fra loro però fa effetto.

Fra i pregi della scrittura di Petrosino, ancora Bertoni accenna inoltre a «una sensibilità e una cultura figurative che restano impresse». Ovviamente, pittorici sono i due generi che danno titolo e ispirazione alla raccolta. E alcuni ulteriori riferimenti alla storia dell’arte sono dichiarati o comunque evidenti: dall’Autoritratto alla maniera di Modigliani al Pierre Soulages citato in Interno sotterraneo, dalle «mele […] che dipinse Cézanne» in Natura morta con scacchiera al De Chirico evocato nella Piazza italiana; e non si può leggere in un unico testo «teschio» e «anamorfosi», sia pure non riferiti l’una all’altro, senza pensare a Holbein (Una gardenia). Ma la sensibilità figurativa di cui si diceva emerge, più e oltre che dalle citazioni esplicite, dalla cura della composizione e dalla perizia ecfrastica riscontrabili in ogni componimento. Dei già citati autoritratti, ad esempio, due sono allo specchio, pure sui generis (uno concavo e uno buio); ma gli altri – quello con la madre e quello in stile Modigliani – sono vere e proprie ecfrasi di altrettante composizioni pittoriche non esistenti, ma che riusciamo a figurarci benissimo. È notevole come in questo autore una sfrenata inventiva verbale, capace di giocare con ogni atomo della lingua e spesso su più livelli contemporaneamente, coesista con un’inventiva altrettanto sfrenata sul piano visivo, senza che il protagonismo del significante detragga all’enargeia della rappresentazione.

Come se non bastasse, molti pezzi sorprendono anche sul piano concettuale, anzi concettistico. Nature morte e vanità sono, si sa, generi tipicamente barocchi; e la scrittura infatti abbonda di agudezas. Per quanto ingegnose, però, queste non si accumulano in maniera vertiginosa e disordinata, ma sono sempre chiare e leggibili, di gusto geometrico, escheriano. Molte giocano con la ricorsività, contribuendo così a costruire un’atmosfera di perturbante sortilegio: come se ogni testo fosse un piccolo loop chiuso su sé stesso, i cui attori sono condannati a un’eterna ripetizione. Ho già citato il quadro nel quadro di Porta d’ingresso; in Scheletro seduto la larva del titolo comincia a scrivere, nell’ultimo verso, l’incipit del sonetto stesso: «sulla tastiera indolenzita digita | un’S col Caps Lock e poi un’E»; e il v. 1 inizia appunto con la parola «Secondo…». Nell’ultimo verso de Il riciclaggio dei calendari, il soggetto dice, parlando di un foglio, che «ci ho scritto questa poesia sul retro». Altri concetti hanno funzione meno strutturale e, magari, carattere più scherzoso: come la bottiglia di tequila che «diventa agli occhi di chi se la scola | non più soltanto una bottiglia sola | ma quanto più viene bevuta due»… Ma, in fondo, anche una trovata come questa (insieme un po’ troppo cerebrale e un po’ troppo fredduristica) serve poi a introdurre in modo originale il tema del doppio e del revenant, con la «fantasmagorica | Eugenia, Eugenia» che sembra coricarsi al fianco dell’ebbro.

7. Gioventù (non) bruciata

Insomma: in questa raccolta Petrosino è al culmine della sua consumata arte verbale, e insieme è concentrato come non mai sui suoi contenuti. La percezione perturbante e angosciosa della propria finitezza, esplorata con un’insistenza che è ingentilita ma non contraddetta dall’ironia, fa il paio con la sicurezza d’invenzione di una fantasia rigogliosa. Come dice bene Bertoni, «le nature saranno anche morte, ma attorno a loro gli agenti atmosferici, il mondo botanico e quello animale […] si agitano eccome». Ridotto letteralmente a scheletro l’io (a proposito di morte del soggetto…), le poesie traggono carne e sangue da tutto il circostante. E il messaggio di speranza che la spunta al fotofinish sul memento mori non suona moralistico, posticcio, consolatorio, perché la morte è stata attraversata nel e col corpo vivo dei testi stessi. Vale anche l’opposto: tutte le mirabili tecniche qui discusse si potevano agevolmente ritrovare nelle precedenti raccolte, ma qui, costrette entro vincoli tematici e formali più rigorosi, sanno meno di divertissement spensierato. Ne risulta un libro generoso di soddisfazioni e piaceri testuali per un critico a vocazione prevalentemente linguistica e formale, certo (i miei sproloqui lo dimostrano), ma anche per chi ha interesse nel rapporto tra oralità e scrittura, o tra arti visive e letteratura, e in definitiva per chiunque ami vedere all’opera il libero gioco dell’intelligenza creativa. E ancora un incoraggiante esempio delle riserve di talento dei poeti nati negli anni ’80: che hanno fatto, forse, relativamente pochi esordi clamorosi rispetto ad altre generazioni, ma si dimostrano capaci di crescere alla distanza.

Alfonso Maria Petrosino, Nature morte e vanità, Montecassino, Vydia, 2020, 78 pp., € 10.