La biografia di Pier Luigi Bacchini, nato a Parma nel 1927 e ivi morto nel 2014, attraversa buona parte del Novecento; ma nella poesia italiana del secolo scorso il suo è un caso anomalo e luminosamente irregolare. Dopo gli esordi poco appariscenti con Dal silenzio d’un nulla (1954), seguìto a lunga distanza da Canti familiari (1968), il punto di svolta arrivò con Distanze fioriture del 1981, opera sorprendente d’uno scrittore ormai ultracinquantenne. Trovata la sua autentica voce, Bacchini non smise di affinarla raccolta dopo raccolta, da Visi e foglie (1993) a Scritture vegetali (1999), per culminare nel nuovo millennio con Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005) e Canti territoriali (2009), libri in cui la sua poesia, lungi da esaurirsi in una senile ripetizione, continua ad alzare la posta tematica e formale, tanto da lasciar pensare che se questo longevo poeta fosse arrivato a cent’anni sarebbe stato capace di superarsi ancora.

Felicemente anomala nei tempi, la vicenda letteraria di Bacchini fu isolata anche geograficamente; l’appofondita introduzione di Alberto Bertoni alle Poesie 1954-2013 (Mondadori, Milano 2013) aiuta a inquadrare il poeta nella cultura parmigiana e italiana del suo tempo, rispetto alle quali egli si tenne aggiornato ma in disparte, anche a causa del suo mestiere d’informatore farmaceutico. E gli studi di medicina, pur interrotti e affiancati dalla frequentazione delle lezioni di lettere, sono uno dei semi da cui germoglierà la sua vocazione tardiva di grande poeta della natura, nel senso lucreziano e leopardiano. Oltre a questi due giganti, coi quali si pone in dialogo sincero e profondo più che in rapporto d’imitazione, il lavoro di Bacchini sembra aver avuto pochi debiti coi moderni e i contemporanei. È stato giustamente speso, a partire da Giorgio Cusatelli, il nome di Gottfried Benn, più ancora che per lo sguardo clinico e la lingua scientifica, per la tecnica della ‘poesia statistica’ o ‘ritrattistica’ (Porträtgedicht) «mimata sul biologico» nel suo stesso andamento. Fra gl’italiani della sua generazione, moderati influssi di Bertolucci, punto di riferimento parmense, e di Zanzotto, a cui Bacchini è vicino per temi ‘ecologici’ ma senza il suo radicale straniamento dalla natura, e di conseguenza con stile molto meno contratto e afono. A loro potrebbe aggiungere l’altro poeta-medico Bonaviri, per certe affinità d’ispirazione se non di stile.

La prima grande lezione di Bacchini a chi scrive poesia oggi sta proprio nell’uso della lingua e dei temi delle scienze: medicina e biologia, certo, ma anche geologia, botanica, chimica, astronomia… Lontano dalla vaghezza terminologica della tradizione lirica italiana, questo autore usa un linguaggio scientifico senza ideologia scientista, e neppure con l’intenzione alienante o straniante di chi tale ideologia vorrebbe denunciare. Il suo è invece un amor di precisione, che recupera e aggiorna la lezione pascoliana dell’accuratezza naturalistica del lessico. Di qui il suo amore per i polisillabi e per gli astratti in ‑zione, di solito impiegati al plurale concretizzante-individualizzante. Da questo slancio a nominare il mondo nasce la sua sintassi a forte tendenza nominale, che procede spesso per concrezioni e accumuli, come se l’esuberanza traboccasse oltre i confini del discorso per espandersi in catalogo. E dallo stesso slancio nasce anche quel tipico verso che si distende e si contrae ma preferisce allargarsi per la pagina. Verso ‘respiratorio’ e tendenzialmente lungo che Bacchini va sempre più perfezionando nelle opere della maturità, e a lui più congeniale degli haiku di Cerchi d’acqua (2003), esperimento che forse solo lui aveva il diritto di tentare, ma sostanzialmente fallimentare e comunque minore nella sua produzione.

Se Ponge ammoniva che l’on ne sort pas des arbres par des moyens d’arbres, si direbbe che Bacchini provi a sortir de l’homme par des moyens d’arbres. Sarebbe esagerato farne quasi un poeta antispecista, ma resta il fatto che pochi come lui hanno saputo passare con persuasiva naturalezza dalle vicende minime personali e da rilevazioni ambientali – sempre precise, legate a un luogo e a un’occasione – a una prospettiva cosmica aperta sul tempo profondo. Bacchini non è affatto disinteressato alla vicenda umana, ma inserisce il problema della vita umana in quello della vita tout court. Quando parla di esistenze individuali – la sua, o quella di figure care – è sempre nel segno del ricordo malinconico, della nostalgia. Ma questo poeta quasi crepuscolare attinge un’eternità pancronica (non però perdendo il senso dello scorrere del tempo e della finitezza umana) quando si rivolge al mondo naturale.

A legare le due prospettive in modo tutt’altro che pretestuoso è il continuo confronto col problema della morte. I temi del disfacimento organico, della putrefazione come ritorno nel ciclo della vita, ritornano con frequenza inquietante nelle pagine di Bacchini. Se non lasciano in bocca un sapore amaro e malato, è perché non sono indagati con quel tanto di morboso che ci si potrebbe attendere in altri autori (come lo stesso Benn di Morgue), ma con sguardo lucido e al contempo pieno di pietas. «I corpi giovani si attraggono | […] | benché si sappia che nei sotterranei di marmo […] o tra i lenzuoli ospedalieri | lo strazio torca gli organi, e li corroda» e benché «quella donna così desiderosa, | sarà spappolata nelle ptomaine, negli altri alcaloidi | rotolata nei sotterranei […] tornata | puramente siderale, materia originaria». L’arbre, appunto, può sembrare invidiabile; rispetto agli anziani col «volto torto | tumefatto» e alle «ragazze con fragili femori, e dentro, | nel tenero addome, | la pulizia delle mucose | con cicatrici» non è forse più bello «un fusto | d’albero venerando»? Tutte le creature, a ogni modo, sono parimenti destinate a soccombere all’entropia universale:

si rigenerano i cadaveri disciolti nella terra,
e con lentezza fanno verdi le gambe delle statue
i boschi urlano lontani per tutto l’emisfero

e il piccolo pianeta rotola, azzurro,
fra i numeri e le forze delle pietre siderali.

Accanto alla solidarietà ‘orizzontale’ fra le creature, i migliori testi di Bacchini cantano quella ‘verticale’ fra ère lontane. Il senso altimetrico del tempo, la fedeltà a una terra che conserva le tracce di tutti gli esseri che l’hanno abitata, si esprimono per Bacchini in una poetica stratigrafica. Così, in Conchiglie rosa la contemplazione del paesaggio emiliano consente una vertiginosa escursione fino al passato più remoto:

Sono vissuti pastori
nel tempo di queste colline e le ossa cariate
delle loro pecore
diventano un gioco per i cani che frugano. E prima

il mare

vi aveva cresciuto conchiglie bianche.

Ma su quelle stesse colline si è combattuta nel 1495 la battaglia di Fornovo «contro Carlo VIII, | disceso rapido dalla Cisa, e un nostro amico | ha ritrovato una spada nel campo arato». Per giungere fino al futuro, quando «dopo di noi | la prole del contado […] con altri costumi | si allontanerà dalla sfera, tentando lune | a cui parlo d’estate.» In un’altra poesia si rievocano i Celti della Cisalpina «tremare ai passi delle marmoree legioni»; ma tutti i protagonisti della storia antica «sono rientrati […] nel fondamentale ciclo, e tramutati in azoto e carbonio». Anche loro, sepolti accanto a quegli uomini preistorici le cui «gesta fossili | non hanno avuto voce». La sedimentazione di eoni trascorsi risuona negli individui, che ricapitolano una lunga storia evolutiva. Nel «grido dirupato» delle cornacchie c’è «il canto ritardato | dei freddi avi rettili», e il poeta stesso non fa che modulare il suo canto su quello degli uccelli, se «di certo l’usignolo e il merlo | hanno ottenuto conseguimenti già grammaticali».

Le origini naturali dell’uomo insomma sono il quadro del problema, ma non possono esserne la soluzione, per questa creatura paradossale la cui natura è andare contro natura, prendere a rabbiose capocciate i propri limiti congeniti. Da qui il fondo d’angoscia che accomuna il lucreziano moderno Bacchini al suo inarrivabile antenato latino: non per la presenza d’un anti-Lucrèce interiore, ma perché anche il giardino di Epicuro contiene il giardino di Leopardi, il vasto ospitale dove tutto «è in istato di souffrance». Lo stesso vitalistico slancio sessuale e ‘taurino’ della giovinezza, che Bacchini canta in toni paganamente ispirati, schiaccia sotto i corpi degli amanti «qualche minimo insetto» e le «mirabili forme» dei fiori; e il sesso non conforta, «perché ad ogni emissione del seme palpitante | si penetra nelle connessioni del mondo, | in cui trema la castità funeraria | che è dentro ogni poesia e ogni povertà». Alle medesime perturbanti verità rimandano tanto la speculazione scientifica quanto quella poetica, poiché «la malinconia è piena | di meditazioni stellari e botaniche» e «la voce della scienza […] ha il volto rupestre di Dio». Sullo sfondo di ogni vicenda brilla la «incommensurabile atrocità del fuoco astrale». Di qui prorompono interrogazioni angosciate: «Sorella scienza | dammi informazioni, gratta sotto la polvere del cosmo | se puoi trovare un posto senza cadaveri dove è vissuta | la vita».

Lucreziano è anche lo slancio verso l’infinito di questo poeta «dell’ampiezza, della grande distanza» (Paolo Briganti). Come sapeva Otto Dietrich zur Linde nel borgesiano Deutsches Requiem, «il monumento dove appaiono più chiaramente i tratti […] faustiani non è il composito dramma di Goethe, ma un poema scritto venti secoli fa, il De rerum natura»; opinione, questa, dello stesso Borges, che per faustiano intendeva – lo precisa in un saggio giovanile – un poema che «esalta l’infinitezza spaziale e temporale». E questo slancio energico e generoso non è la meno preziosa  preziosa fra le lezioni di Bacchini che ci possiamo portare nel XXI secolo.