Marco Malvestio, con Depurazione delle acque (La vita felice, Milano 2013), si presenta agguerrito e conscio (più della media) della venerabile tradizione letteraria in cui chi allinea parole non può non inserirsi; conscio d’essere, come ogni scrivente sempre e vieppiù nel nostro lungo tramonto, costituzionalmente epigonico, e non già l’inventore o il rifondatore della letteratura. Non viene dunque a bruciare ponti, ma – questa la mia impressione – a restaurarne. Atteggiamento squisitamente classico, e per questo soprattutto definirei Malvestio poeta neoclassico, più che per le scelte formali o per la coraggiosa mancanza di pudore nel nominare gli dèi – scelta pur essa notevole e non solo superficiale, in un mondo da cui ogni fibra di divino sembra fuggita da tempo. Forse, egli sa che gli dèi esistono se e solo se qualcuno l’invoca. Di certo, in una letteratura che dopo D’Annunzio (e nonostante i vari Giuseppe Conte) si è quasi completamente disfatta del mito, Malvestio parla per bocca d’Ovidio in un (notevolissimo) testo, e si fa un po’ ovidiano – penso all’Ovidio delle Metamorfosi – egli stesso in tutto il libro, se il tema prescelto, l’acqua, è simbolo per eccellenza di fluidità, inafferrabile movimento, scintillante metamorfosi, ciclico ritorno, palingenetico lavacro.

Per fortuna, Malvestio è lontanissimo dall’essere un Foscolo o un Byron di cartapesta: pur risoluto nella sua posizione, egli è consapevole, fin troppo, della difficoltà di metterla in atto nel nostro sfilacciato e inglorioso presente. L’ironia, dote che non gli fa difetto, non gli serve però a svicolare con una strizzatina d’occhio da questa contraddizione, sì a mediare criticamente e problematicamente fra i due poli (fra spleen e ideale, per dirla in gergo baudelairiano). Ciò nonostante a volte l’ironia sia affidata a un meccanismo di bathos per giustapposizione che rischia di parere un po’ superficiale, per quanto efficace, quasi più una marca del comico: «se almeno da nudo sapessi | (Dio queste atroci | velleità saturnine) | sfilare gli occhiali»; il «j’accuse da commissario» che s’annida nei pantaloni; la chiusa alla Woody Allen «pare imbarazzante presunzione, | il sabato pomeriggio | trovare parcheggio»; quel «signorina, mi sta suggerendo | futuribili estasi paniche?» che mi ricorda certe tattiche d’approccio dei più pittoreschi dandy bolognesi. Non è comunque l’ubiqua ironia disfattista e indiscriminatamente generalizzata (ergo depotenziata) di certo clima odierno, insomma il sogghigno pavloviano degli hipster e dei cinici da tastiera; è ben vedere qualcosa non d’opposto ma d’integrale a una presa di posizione ‘tragica’ (per rubare un termine chiave alla prefazione d’Anna Maria Carpi) o comunque ‘forte’, non complice di fronte al paventato spappolamento di società e linguaggio.

Poesia tragica, dunque, perché non sublima il dramma del mondo nell’elegia, non lo congela nel filosofema, né – come molta poesia soi-disante di ricerca – cerca di prevenirlo automutilandosi in segno di protesta e consegnando la pagina a una muta devastazione (che può essere la pura afonia come il vaniloquio asemantico); e nemmeno lo dribbla con una battuta a effetto, o vi amoreggia al modo decadente; ma cerca, a modo suo, di darcene atto e attraversarlo con agile dignità.

Sul piano formale, non è difficile rintracciare i portati della poetica dell’autore nella scelta di limpidezza e leggibilità coniugate a rigore di costruzione e pensiero; nel saldo radicamento nella tradizione (si vedano le citazioni e allusioni dotte esplicitate nelle copiose Note); nell’uso disinvolto di lessico colto (‘bassaridi’, ‘marcescenti’) e nel recupero di figure oggi rare eccetto che in funzione parodica, come le inversioni del tipo «quante ancora / pozze verdastre». Al tempo stesso, gli abbassamenti ironici di cui s’è detto, e il non censurato irrompere dell’attualità (il ‘low cost’, i ‘poetry slam’) bastano a disinnescare i rischi di titanismo fuori tempo massimo quali potrebbero apparire da una lettura superficiale d’alcuni passi (anche se lasciano aperti, come già accennato, quelli di certo crepuscolarismo – alla Gozzano, direi, più che alla Corazzini).

Certa disposizione ariosa di materiale tipografico sulla pagina per mettere in evidenza singoli emistichî o sintagmi o parole (come notevolmente accade in Soledades, p. 34) è un procedimento che, con buona pace dei dadi di Mallarmé, mi è sempre parso un po’ prescindibile; bisogna dire però che in genere Malvestio non l’usa gratuitamente – nella poesia citata, ad esempio, questa disposizione è rafforzata dalle allitterazioni («vaghi | verdi | freddi | fuggitivi, | e io | lirico | lugubre | liberty») e corrisponde a un effettivo rallentamento della scansione ritmica e concettuale che spiana la via a un endecasillabo ‘a effetto’, malinconicamente sentenzioso («e provinciale come il verbo amare»).

Pregio del libro è anche la sua coesione stilistica e tematica; questo è, percettibilmente, un canzoniere, con una sua mitologia interna fondante e una sua ragionata struttura compositiva, non già una collezione d’umori estemporanei e lampi sparsi, come sono tanti esordi giovanili anche di buon livello. La scrittura è nutrita d’intelligenza, buone letture, e cura ‘artigianale’ per la lingua, sì che anche dove non raggiunge il genio sta alla larga da sciatteria e genericità, evitando gravi cadute di tono. Se si tratta poi d’indicare i punti più alti, gli esiti più convincenti, possiamo volgerci al programmatico componimento d’apertura, misurato e suadente; al Mare della fertilità (che contiene, fra l’altre cose, quei tre versi di perfetta miniatura simbolista «rugiadosa Salomè e sifilitica | Giovanna d’Arco con lunghe | e limacciose voci in testa»), all’esordio di Teoria delle carni («è scivolato stanotte da sotto | la porta, furiosa imago mortis, | un orgasmo, un orgasmo, un orgasmo»), e soprattutto alla già citata Ovidio parla ai Geti, a mio avviso vero highlight del libro: arringa in prima persona che dissolve l’autore nel personaggio e l’exemplum antico in un presente atemporale, versi lunghi di misura costante, dall’andamento a un tempo maestoso e confidenziale, in cui l’autoironia e la grandiosità appaiono finalmente contemperate in una sincerità dolente.

Se vogliamo individuare invece il difetto o comunque il limite più importante del nostro autore, si può osservare che in questo poeta d’altronde così attento alla forma la parola non giunge pienamente a bruciare della sua luce la materia cui s’applica e a sostituirsi ad essa, facendosi profondamente necessaria; la parola, pur sapiente e ben scelta, resta intelligente commento al mondo, non si fa mondo. Probabilmente non è questo, però, il principale obbiettivo di Malvestio; credo che della scrittura abbia un’idea troppo nobile per pensare che essa debba divenire un sistema completamente chiuso e autoreferenziale.