In vetta alle classifiche italiane, autentico flop negli almanacchi a stelle e strisce. The Counselor, film scritto da Cormac McCarthy e diretto da Ridley Scott, è sbarcato il 16 gennaio scorso nel Belpaese depresso dalle performance in patria: negli Usa l’incasso totale era stato di 16.973.000 di dollari, per un film dal budget di 25 milioni. E questo nonostante l’americanissima ricetta di McCarthy, alla sua prima sceneggiatura originale: il deserto, la frontiera tra Messico e Stati Uniti, l’inferno del narcotraffico di Juarez e gli snuff movie. Sono solo alcuni degli ingredienti indigesti dell’immaginario letterario del romanziere americano, premio Pulitzer nel 2010 per The Road.

La pellicola è stata diretta e prodotta da Ridley Scott seguendo riga per riga la sceneggiatura originale dello scrittore nato nel 1933 a Providence, Rhode Island, e classico in vita della letteratura angloamericana grazie a opere come Blood Meridian, Suttree e No Country For Old Men, romanzo concepito inizialmente come sceneggiatura e il cui fedele adattamento cinematografico valse ai fratelli Cohen il premio Oscar nel 2007.

Era il 18 gennaio 2012 quando McCarthy vendette la sceneggiatura di The Counselor a Nick Wechsler, Paula Mae Schwartz e Steve Schwartz, già produttori di The Road, trasposizione filmica dell’ultimo romanzo dello scrittore. Con l’arrivo in cabina di regia di Ridley Scott e l’assegnazione del cast a un dream team di over 40, iniziò a comporsi il quadro del film a venire: uno stimato legale (Michael Fassbender) si avventura in un affare di droga al confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Con lui in affari lo scafatissimo Reiner (Javier Bardem, preferito a Bradley Cooper e Jeremy Renner): in ballo un carico di cocaina del valore di 20 milioni di dollari. Poi un intermediario, Westray (Brad Pitt), e due donne. Laura (Penelope Cruz), promessa sposa del Procuratore ma ignara dei torbidi traffici, e Malkina, interpretata da Cameron Diaz dopo la rinuncia alla parte della Jolie: femme fatale dalla sessualità oceanica, capace di trovare un orgasmo con il parabrezza della Ferrari 328 di Reiner, attonito osservatore dall’interno dell’abitacolo: «Era come uno di quei pesci gatto. Quei pesci pulitori che vedi risalire le pareti dell’acquario. Un’allucinazione. Vedi una cosa e non sei più lo stesso».

L’affare finisce male, ovviamente, e l’esile intreccio dilaga in tragedia e catarsi.

Una storia senza capo e con una coda drammatica, senza antefatti, spiegazioni o cause all’azione dei personaggi; scene di inaudita e ricercata violenza a scandire dialoghi che si avvitano su sé stessi in discettazioni metafisiche. Tutti marchi di fabbrica del celebratissimo McCarthy narratore, ma che possono lasciare interdetti se fedelmente trasposti al cinema. Così è per lo più motivato il flop al botteghino di The Counselor e le recensioni negative di critici, riviste, blog e quant’altro.

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Dan Fante, figlio del grande romanziere John, raccontò così la vita del padre nella Los Angeles degli studios: «L’industria cinematografica di Hollywood conosce soltanto due forme di espressione: benedizione o condanna». Anche il McCarthy del nuovo millennio, canonizzato e incensato, pare aver conosciuto la seconda. A parte rari casi, non dissimile è stato il destino di altri grandi scrittori americani alle prese con canovacci, registi e produttori di quelle colline di Los Angeles.
Alcuni predisposti e altri idiosincratici; chi per potersi mantenere l’“ozio” letterario, chi per curiosità e ripiego. Dal pioniere Francis Scott Fitzgerald al contemporaneo Bret Easton Ellis, dal bistrattato John Fante all’insospettabile Raymond Carver; i premi Nobel Faulkner e Steinbeck, e ancora W.S. Burroughs, Vladimir Nabokov, James Cain, Gore Vidal e Tom Clancy. Per fare semplicemente un elenco, non esaustivo.

Dopo l’esordio alla scrittura filmica nel 1929 con Pusher-in-the-Face, Francis Scott Fitzgerald, l’autore del Grande Gatsby, accettò nel 1937 di lavorare come sceneggiatore sotto contratto per 18 mesi, con la MGM. Fitzgerald collaborò a diversi film tra cui i quali Donne (The Women, 1939) e, un anno prima, cofirmando l’adattamento di Three Comrades (Tre camerati) del regista Frank Borzage. Ma la versione non venne considerata dal produttore, che la fece riscrivere da Mankiewicz, causando a Fitzgerald – accortosene solo alla prima del film – una grande delusione. In molti presumono di ricondurre a questo episodio una ricaduta dello scrittore nell’alcolismo e al conseguente ricovero in ospedale a New York.

Fonte di stabilità finanziaria, ma anche di delusioni, frustrazioni e stress dovuti ai ritmi lavorativi degli studios, il suo rapporto controverso con Hollywood Fitzgerald lo ha restituito in un romanzo, The Last Tycoon (Gli ultimi fuochi), la storia ispirata a Irving Thalberg, potente produttore della Mgm, un «uomo eccellente ed esausto», morto a soli 37 anni. «Si può accettare Hollywood qual è, come facevo io, o si può ignorarla con il disprezzo riservato a ciò che non riusciamo a capire. Si può anche capirla, ma solo confusamente e a tratti». Sono le parole in apertura del libro di Cecilia, la voce narrante.

faulkner

Schivo, riservato e recalcitrante alla “macchina dei sogni” hollywoodiana, William Faulkner lavorò per il cinema dal 1932, senza particolari successi e soddisfazioni. Non un grande cruccio per un premio Nobel, considerato un maestro del romanzo moderno e sperimentale.
Del suo passaggio tra gli studios losangelini è rimasta la collaborazione con Howard Hawks, regista, produttore cinematografico e sceneggiatore tra i più apprezzati dalla critica dell’era classica di Hollywood; poi gli script de Il grande sonno, La regina delle piramidi e Le avventure di Don Giovanni.
Diversa la vicenda di un altro Premio Nobel per la letteratura, John Steinbeck. Il primo soggetto cinematografico dell’autore di Uomini e topi e Furore risale al 1944, con Lifeboat (Prigionieri dell’oceano) di Alfred Hitchcock, per il quale ottenne una nomination all’Oscar.
Poi è la volta di A medal for Benny (1945; L’ombra dell’altro) di Irving Pichel, The red pony (1949; Minuzzolo ‒ Il cavallino rosso) di Milestone, e Viva Zapata! (1952) di Elia Kazan, con Marlon Brando.

Lolita

Di Vladimir Vladimirovič Nabokov, invece, è il romanzo da cui scaturì nel 1962 il film Lolita, di Stanley Kubrick. Indigesto a molti editori – in quattro si rifiutarono di darlo alle stampe –, lo stesso Kubrick suggerì all’autore di sfrondare l’intreccio e smorzare l’impatto forte di alcune scene. Nabokov si oppose e rinunciò. Nel gennaio 1960 Kubrick tornò alla carica e l’autore accettò immediatamente: a convincerlo 40 mila dollari e le spese di soggiorno negli Usa per sei mesi, più altri 35 mila dollari per comparire come unico sceneggiatore del film. Ma dopo sei mesi di lavoro Kubrick si trovò in mano 400 pagine di script, realizzabile – a detta del regista –  forse in sette ore. Un copione comprensivo di battute per il cane, postillate delle indicazioni sulla giusta intonazione da tenere. Nabokov, ovviamente, dovette riconsiderare il tutto, potando e rifinendo. Poi ci mise mano Kubrick stesso e infine le improvvisazioni di Peter Sellers sul set contaminarono ulteriormente il manoscritto dello scrittore russo.

L’epilogo: ai titoli di coda Nabokov risultò sceneggiatore unico, ma a proiettori spenti l’autore ebbe a dire  che nel film non era stato utilizzato più del venti per cento del suo lavoro. Modestia o maniacalità? Non si saprà mai.

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La vicenda più felice dell’epopea dei romanzieri a Hollywood l’ha scritta forse John Fante, l’autore di Chiedi alla polvere, la cui “scoperta” e conseguente consacrazione si deve a Charles Bukowsky. Iniziò nei primi anni ‘30 a collaborare con Hollywood in veste di sceneggiatore. Apprezzato dall’industria del cinema, fu trascurato dalla critica letteraria e sugli scaffali delle librerie. Un percorso professionale che lo distinse tra i più famosi ed attivi di Hollywood dagli anni ’50 fino ai ’70 e che lo condusse anche in Italia, alle dipendenze di Dino De Laurentiis.

Nel 1934 scrisse il soggetto di Dinky, per la Warner Brothers, fu sceneggiatore e correttore di bozze per la Metro-Goldwyn-Meyer, collaborò con Orson Welles per il suo film All is True (mai portato a termine) per il quale scrive due sceneggiature. Il film di successo arrivò nel 1956 con Full of Life, tratto (per ironia della sorte) dal suo omonimo e sfortunato romanzo. Poi la collaborazione con lo sceneggiatore Robert Towne (autore di Chinatown, diretto da Polanski), su su fino agli anni ’70 e ai frequenti contatti con Francis Ford Coppola per una riduzione cinematografica del romanzo The Brotherhood of the Grape (pubblicato la prima volta in Italia solo nel 1990 col titolo di La confraternita del Chianti) che però non fu mai realizzata. Il figlio Dan raccontò del padre: «Mio padre ha scritto sceneggiature per 40 anni a Los Angeles. Non è diventato famoso per questo, ma ha sempre guadagnato bene e alla fine ha imparato a giocare a golf».

Molto meno felice, si direbbe, è la prima esperienza al cinema di Bret Easton Ellis, autore culto di American Psycho, che fa il suo esordio nel 2012. Sua la sceneggiatura di The Canyons, presentato fuori concorso il 30 agosto 2013 alla 70esima  Mostra di Venezia. A girarlo ci ha pensato Paul Schrader, autore di script come Toro scatenato e Taxi driver nonché regista di American Gigolò e Mishima. Il risultato è un noir a basso costo (il budget è stato interamente ricavato da crowd funding) recitato dalla strana coppia Lindsay Lohan e James Deen, pornodivo americano alla prima prova accostumata.

the canyons

La travagliata liaison scrittori-cinema annovera anche vicende di copioni d’autore mai diventati film. Un caso illustre è Dostoevskij di Raymond Carver e Tess Gallagher. Era il settembre del 1982 quando il regista Michael Cimino (un nome su tutti, Il cacciatore, cinque premi Oscar nel 1978) propose a Raymond Carver di scrivere una sceneggiatura sul grande scrittore russo.
Affiancato dalla seconda moglie, il maestro americano del racconto presentò uno script di 220 pagine. Ma il film non vide mai la luce, non tanto per l’eccesivo volume della sceneggiatura quanto per il volta faccia del produttore Carlo Ponti – fondatore nel 1950, assieme al socio napoletano, della Ponti-De Laurentiis. Il testo, una sceneggiatura leggibile come un romanzo a tutti gli effetti, fu pubblicato in seguito, per volontà di Carver e Gallagher, in una versione alleggerita di 100 pagine.

È quella tuttora edita in Italia da minimum fax.

Un’altra sceneggiatura che torna alla luce esclusivamente su carta stampata è Blade Runner, a Movie, opera di William Seward Burroughs, tra i capofila della rivolta e della cosiddetta letteratura hipster e beatnik. Una sceneggiatura fantascientifica che l’autore di Naked Lunch concepì e portò a termine nel 1979 ma che finì nel dimenticatoio. A salvarsi fu solo il titolo, mutuato da Ridley Scott per il suo capolavoro, basato però sulle suggestioni di un altro testo, Anche gli Androidi sognano pecore elettriche? dell’indimenticato Philip Dick.

Si tratta di un canovaccio di un film dove l’America è assalita da un cancro fulminante, diventato un’epidemia capace di abbassare tutti i livelli delle difese immunitarie. Medici dell’underground, giovani assistenti (i blade runner) e virus-vaccino completano il quadro di una catastrofe in 79 pagine, che lo schermo però non ci potrà restituire.