Domani, giovedì 13 marzo, alle ore 18, Adriana Lorenzi, come ogni giovedì, intervista gli autori dei libri candidati al Premio Narrativa Bergamo 2017. Dopo i primi tre incontri, con Giorgio Vasta, Rossana Campo e Andrea Bajani, è il turno di Nadia Terranova con Gli anni al contrario (Einaudi Stile Libero 2015). Sulla Balena Bianca, ogni mercoledì, la recensione del libro presentato. Qui il calendario degli altri incontri. 


Gli anni al contrario di Nadia Terranova è una favola moderna, dove i due giovani innamorati si conoscono non tra castelli e regge, ma tra i banchi dell’università e le strade della resistenza politica. Eppure sono certamente nobili anche loro, con eredità pesanti quanto i loro cognomi; Aurora Silini, figlia del “fascistissimo”, e Giovanni Santatorre, con una lunga tradizione di avvocatura alle spalle, sono i protagonisti di questo libro sicilianissimo.

Il testo, diviso in quattro sezioni disomogenee per quel che riguarda la lunghezza, segue una duplice pista che trova in Giovanni e Aurora non solo due giovani innamorati latori di una storia tutta personale, ma vede in loro due esempi perfetti di quella generazione di italiani vissuta a cavallo del grande mutamento storico che ha opposto gli anni ’70 agli ’80. Tutto comincia con il sentirsi, come direbbe Pirandello, fuori di chiave: entrambi i protagonisti infatti prendono le mosse nella narrazione dalla volontà di distaccarsi dalle tradizioni culturali e familiari; Aurora nei confronti del padre, fascista per debolezza, e della sua logica che vede nella figlia un oggetto da “posizionare”; Giovanni in opposizione al percorso forense, già prestabilito per se stesso e i fratelli, e dagli ideali vetero comunisti del padre, sintomi di una sconfitta ante temporaL’emancipazione dei due avviene dunque attraverso la politica e la cultura; l’università funge da ponte non solo verso la vita pubblica, ma verso la costruzione di un’identità personale autonoma, che dimenticherà ben presto, in entrambi i protagonisti, le costrizioni delle famiglie di origine, imparando a convivervi.

Lo spazio e il sistema dei personaggi sono estremamente chiusi, come da manuale per quel che riguarda una favola: la narrazione ruota attorno a pochi elementi centrali in un moto satellitare che vede al centro la coppia e la figlia, Mara, qualche genitore, qualche amico e poco altro. Allo stesso modo lo spazio è fortemente concentrato sulla città di origine dei due, Messina. Tutto ciò che fa parte delle esperienze esterne (ci sono fughe a Taormina, Milano, viaggi a Bologna, Berlino, Londra) è descritto da un punto di vista messinese, come se il narratore non spostasse mai il proprio fuoco dall’ambientazione predominante. A ben vedere, però, nessuna descrizione è così precisa da identificare un luogo riconoscibile: la stessa Messina, gli stessi luoghi specifici che fanno da sfondo alla vicenda (appartamenti, università, automobili) non sono mai descritti con precisione; sfumano tutti attraverso un alone di indeterminatezza che è cifra specifica della mitologia alla base del racconto. L’impianto sentimentale attraverso cui Giovanni e Aurora impostano la loro storia d’amore (e consequenzialmente anche la trama del libro) infatti si presenta in nuce come un idillio amoroso, tipicamente caratterizzato, nelle sue linee base, dall’assenza di spazio e tempo definiti. Ma, se dell’indeterminatezza spaziale, che riesce a resistere nello stile della narrazione, abbiamo già detto, il problema è decisamente il tempo.

La condizione ucronica della loro vicenda personale cozza violentemente contro il trono della Storia ed è qui il più grande odore di sicilianità dell’opera che lancia un richiamo fortissimo verso i lidi di Aci Trezza e quella Casa del Nespolo penetrata e disperatamente annichilita dall’arrivo del Treno che cammina in linea retta, come il tempo nuovo che trasporta. A differenza del dettato verghiano, però, qui l’irruzione della storia è totalmente assecondata e partecipata e fa leva sulle ansie e le aspettative di una generazione intenta a rifondarsi, una massa di giovani che gravita attorno al Movimento del ’77 (anno d’inizio della vicenda), alle sue proteste e alla costellazione di figure più o meno fittizie di tale universo, figure nelle quali entrambi i giovani crederanno, per poi essere sistematicamente smentiti nella storia personale: la loro generazione sarà infatti destinata a fallire le proprie battaglie, perlomeno quelle collettive. Giovanni e Aurora, muovendo dal loro desiderio di distacco dall’insieme familiare, si trovano a dover ricercare delle basi nuove su cui fondare le loro persone in costruzione e proprio qui sta il punto dirimente. Se entrambi accettano gli entusiasmi giovanili della politica come sfogo alle proprie idee di edificazione umana, Aurora ben presto maturerà un senso individuale più acuto che pur mantenendo il medesimo obbiettivo di Giovanni (la costruzione di un futuro eudaimonico) lo perseguirà attraverso un percorso differente.

È Giovanni infatti il fulcro problematico della storia. Il suo idealismo affonda in una radice ciecamente romantica; costantemente irrequieto egli è alla continua ricerca di uno spazio fisico e politico di cui sentirsi parte. Egli è l’esempio di come, se non sussunti in un qualcosa di concreto, i sogni possano diventare allucinazioni. In questo Giovanni vive una perenne crisi di adattamento, incapace di scegliere secondo ragione, sempre trasportato dallo iato latente tra l’eroe che avrebbe voluto essere e che non è stato. Fondamentale per il suo sviluppo in questi termini è il confronto con l’amico Gipo, attivista siciliano trapiantato a Bologna, esponente di spicco del Movimento. Per la prima parte del libro Gipo non è solo il costante riferimento di Giovanni con la Storia, ma è, nel concreto, un altro Giovanni, l’idea di come lui avrebbe voluto essere («Non si arrende mai, non poté fare a meno di notare Giovanni. E non voleva arrendersi nemmeno lui, ma la sicurezza per dirlo in modo schietto gli mancò.»). Gipo è insieme fratello maggiore e giudice, che istiga Giovanni e nello stesso tempo lo taglia fuori dai giochi; ma è esaustivo solamente di una fase della vita del protagonista, proprio ad esemplificarne la vacua transitorietà: con lo scorrere delle pagine, la sua figura perda progressivamente di valore fino a scomparire in maniera indolore, così come accade alla lotta politica che cede luogo alla tragedia personale.

Con l’avanzare di una maturazione imposta dalla vita privata (il matrimonio e la nascita di Mara) e dal mutare della Storia (la fine del Movimento e l’arrivo degli anni ’80 con il loro carico di mode e pescecani) Giovanni si trova nuovamente imbrigliato in sentieri che non ha intenzione di percorrere e il sogno del futuro si muta in delirio, la realtà diventa deforme, la lotta diventa disperazione. La sua intera vita non si rassegna alla grigia vittoria del quotidiano, fatto di compromessi, contratti e routine, alla perdita delle cose grandi:

aveva accontentato la moglie ma non sé stesso e continuava a fantasticare di farsi mettere dentro. Gli veniva fuori un eroismo improbabile […]. Ho fallito, si tormentava, altro che rivoluzione, ho anteposto le mie piccole sicurezze alla lotta, mi sono isolato, mi sono tirato indietro. […] Dovevo fare tutto, non ho fatto nulla.

Giovanni resta così ancorato ad un ideale deformato, fuori dalla realtà, perdendo progressivamente il contatto con essa e denotandosi agli occhi di tutti come un bambino incapace di crescere («si disse che i grandi, in fondo, non sono che bambini sopravvissuti»). L’illusione diviene quindi infantilismo e ciò emerge nel rapporto con l’esterno: egli privilegia il rapporto con la figlia Mara, come fosse l’unica in grado di comprenderlo, mentre i genitori lo trattano come un bambino capriccioso («La madre e i fratelli […] sopportavano quel ridicolo entusiasmo campestre davanti al quale pensavano soltanto: va bene, divertiti con questo nuovo giocattolo, poi per favore torna a casa e diventa uomo una volta per tutte.»).

Nonostante non sia manifesto all’interno della narrazione, mi pare chiaro che il passaggio evolutivo dei due protagonisti dall’estrema giovinezza ad una maggiore maturità passi in accordo con la capacità di “cambiare strumento” attraverso cui definire la propria esistenza, ed è proprio qui il punto in cui va valorizzata la figura di Aurora. Essa, sia chiaro, non ricopre un ruolo minore in qualità di subordinata alla figura del marito o di stereotipo di moglie noiosa e fastidiosa; Aurora è un personaggio tragico ma senziente, un eroe “democratico” in bilico tra due vuoti, ma in grado di cambiare il mezzo di perseguimento del proprio futuro: l’ideale diventa l’amore che ha per Giovanni e per quel nucleo familiare che tenta di sostenere nell’autonomia e nella libertà. Con sguardo lucido possiamo dire che è effettivamente Aurora l’eroe del romanzo: è lei che, compresa la vacuità dei sogni a cui entrambi tenevano dietro, si sposta su un piano concreto, non infiacchendosi mai, ma pretendendo finalmente un risultato dalla vita e dagli sforzi, e compiendone di mille in vista di questo risultato.

Intanto lei era rimasta a far quadrare un mondo che non aveva scelto di abitare da sola: un lavoro provvisorio, una laurea non utilizzata, la compassione e l’invadenza degli altri. E ancora: la disgregazione, la sconfitta e l’insopprimibile desiderio di essere amata. Di anni addosso Aurora se ne sentiva settantasette.

Gli anni al contrario racconta in definitiva, attraverso la storia di due personaggi che sono poi due modalità di approccio alla realtà, la incapacità di autorappresentazione propria di ogni uomo, in accordo con l’intimo disagio di sentirsi costantemente discordi a un tempo da passato e futuro. Ma c’è di più: all’uomo inabile a rappresentarsi senza l’appoggio di contenitori ideologici sfugge anche di mano come essi vadano declinati, a un dato punto della propria vita, in chiave concreta per evitare di esserne sommersi. La difficoltà dello stare al mondo si estrinseca poi tanto maggiormente quanto più è accordata ad una libertà radicale che spaura e disorienta. La grande sfida dei giovani ora come allora, sembra dire Terranova, è quella di riuscire a definirsi oltre quei dati contenitori, quella di riuscire ad orientarsi nel vuoto. Ed ecco allora l’ultimo aspetto sicilianissimo: l’inesorabile confronto tra i vecchi e i giovani, tra padri che consegnano un sistema valoriale rigettato e figli impossibilitati a fondarne uno alternativo, per lo meno collettivamente parlando, dal momento che la Storia ha fallito e che ognuno è dovuto correre ai ripari per come ha potuto. Il lascito quindi grava tutto sulle spalle dei posteri, come Mara, costretti a fare come il Colapesce della leggenda siciliana: scoprire che al mondo manca un pilastro e sostituirvisi.


Nadia Terranova, Gli anni al contrario, Einaudi Stile Libero, Torino 2015, 152 pp. 16€