Burhan Sönmez è un narratore di origini turche. Attivista contro il regime di Erdogan, è stato ferito gravemente durante uno scontro con la polizia e costretto a ricevere cure speciali in Inghilterra. Da poco è uscito il suo quarto romanzo, Labirinto, dove la città di Istanbul, tema già affrontato dallo scrittore in altri libri, fa da sfondo alla storia di un musicista blues che perde la memoria. Abbiamo avuto modo di incontrare l’autore al Festivaletteratura di Mantova che ringraziamo per l’opportunità; questo è il dialogo che ne è seguito.

Il sociologo Mark Fisher sostiene che l’amnesia sia un tratto peculiare della nostra dimensione postmoderna. Legato alla perdita del futuro c’è il progressivo oblio del passato e della memoria come coordinate di autodeterminazione e direzionamento di sé. Perdere l’uno significa perdere l’altro. Nel tuo libro, la memoria alterata del protagonista oscilla costantemente tra presente e passato mescolando e confondendo i piani, ma non si parla mai di futuro. Quale ruolo ha quest’ultimo nel tuo libro?

Se vuoi conoscere il tuo futuro devi necessariamente avere a che fare con il tuo presente e con il tuo passato. Se non sei in grado di adoperarti in queste dimensioni non riuscirai a direzionare il tuo futuro. Ora, chi è il proprietario del futuro nelle nostre vite? Le grandi compagnie finanziarie ti dicono di non preoccuparti per il tuo futuro, saranno loro a decidere per te. Il loro imperativo è: goditi il presente! La moda ti dice «non preoccuparti del domani, te lo stiamo preparando noi, divertiti oggi». E gli Stati e la scuola e i media, tutti ci dicono di non preoccuparci, che hanno un futuro già pronto per noi. Così, lo spazio, l’idea della nostra futurabilità è stato invaso da altre forze istituzionali e politiche; ma come individui, quale ruolo abbiamo? Per affrontare correttamente questa istanza dobbiamo per prima cosa scendere sul piano del presente e su quello del passato. Il protagonista del mio libro soffre una crisi del passato che è anche una crisi del futuro, è un riflesso, come in uno specchio. Mentre seguiamo le tracce del suo passato stiamo provando a capirne il futuro (e mentre la storia procede, lui fa esattamente la stessa cosa), ma per accedere a questo nuovo futuro Boratin [il protagonista ndr] dovrà decidere cosa fare con questo suo passato. Andrà fino in fondo arrivando a scoprirlo completamente o lo lascerà perdere? Credo che questa sia una grande domanda dei nostri tempi, per ognuno di noi.

Senz’altro il tema dell’amnesia può avere più di una lettura, positiva o negativa a seconda della prospettiva da cui lo si affronta. Dimenticarsi del passato può essere vissuto come una liberazione dai pesi di azioni lontane, come una speranza e una possibilità o, in alternativa, come un arrendersi alle forze che, tu stesso dicevi, invadono le nostre menti. In che modo hai affrontato nel libro la trattazione di una materia così complessa?

In qualità di autore del romanzo io ho evidentemente una prospettiva diversa da quella del mio personaggio, chiara e certa: dobbiamo essere leali e molto gelosi nei confronti del nostro passato. Ma per il mio protagonista questa risposta non è così limpida e lui è piuttosto riluttante nell’accettarla perché percepisce il passato come un territorio invaso da altre forze e persone. Boratin sente che il suo passato non gli appartiene, non è realmente suo, ma è in un certo modo creato da altre prospettive. Il desiderio che sente è quello di riappropriarsi di quello spazio che è il suo tempo tentando, attraverso l’inizio di una nuova vita, di impossessarsi anche del proprio futuro. Se sia giusto o sbagliato è una domanda per il lettore, a cui però va il mio messaggio: bisogna pensare al nostro passato e decidere cosa fare con esso, perché se non lo faremo noi, ci saranno altre forze a farlo, tra cui, ad esempio il populismo politico di oggi. La memoria è il campo di battaglia della politica.

I governi autoritari sono infatti sempre intenti alla costruzione di un passato tutto loro. Ma a questo punto, l’amnesia di cui abbiamo parlato diventa un elemento potenzialmente attraente per questo tipo di politica. La posizione in cui Boratin si trova è molto complicata, perché se da un lato può sentirsi libero dal passato artificiale creato dalle forze che lo circondano, dall’altro senza di esso perde ogni punto cardinale della sua personale geografia all’interno dell’esistenza, ritrovandosi bloccato senza che quelle forze di cui parli abbiano smesso di operare.

Credo che il centro della domanda non sia se dobbiamo o meno ricordare il passato. Dobbiamo. Il punto è come. Come, in quale maniera dobbiamo ricordare? I politici o i leader populisti si concentrano costantemente sul ricordo delle grandi vittorie nazionali o di una più generale grandezza della nazione stessa, come nello slogan di Trump “Make America Great Again” – dove il ruolo fondamentale lo gioca quell’again. Ogni leader populista per creare una certa idea di sé si richiama continuamente – anche se non in maniera manifesta – a un certo tipo di memoria storica, proponendosi come un nuovo Napoleone, un nuovo Nerone o un Mussolini nascosto che questa volta la spunterà. Ma noi, gente ordinaria, dovremmo rifarci ad un altra coordinata memoriale. Dovremmo ricordare Spartaco o le grandi figure dei movimenti femministi. In questo senso la vera domanda è come ricordare il passato. Da quale idea ci facciamo condurre? Dai politici populisti, dalle grandi compagnie finanziarie, dai media o da persone comuni? È per questo motivo che ho descritto quest’area della memoria come un campo di battaglia.

Ne Il gigante sepolto uscito qualche anno fa, Kazuo Ishiguro pone un dilemma complesso sul tema della memoria come luogo di scontro. Se dimenticare il passato potesse condurre alla cancellazione dei conflitti e quindi a una condizione di pace interna ed esterna ad una società, l’amnesia collettiva sarebbe un giusto prezzo da pagare?

Come ho detto, non credo si debba mai dimenticare. Nella domanda che poni, dimenticare significa perdonare. Se fossimo d’accordo sull’avere insieme un futuro positivo, di pace, per me e per te, per amici, parenti, per la società, per quale motivo dovremmo ricordarci i torti del passato e punire delle persone per questi? A quel punto non diventa più necessario, perché abbiamo una condizione di pace. E quando esiste una pace, la vendetta più efficace per un futuro migliore della società è proprio il perdonare.

La Turchia di oggi sta cercando di resuscitare l’idea del glorioso passato ottomano da contrapporre al passaggio che ha rivoluzionato il paese durante il Novecento. Negli intenti di Erdogan è più importante l’amnesia o la memoria?

La memoria. La principale battaglia di Erdogan non ha a che vedere con l’oggi ma con ieri. Sta cercando di distruggere gli ultimi cento anni, puntando su un nazionalismo estremo che vede nella Turchia la nazione leader dell’Oriente mediterraneo. Erdogan si presenta come un uomo prescelto che porterà il passato glorioso nel futuro delle persone. Ma questa non è una lettura corretta del nostro passato. Il passato ha dimensioni differenti: i dominatori hanno sempre sfruttato i dominati, ucciso persone innocenti, distrutto altre culture. Nella nostra società durante l’ultimo secolo è avvenuto una sorta di nuovo illuminismo che si è tradotto nella possibilità di avere una società più egualitaria, parità tra uomini e donne – uno dei temi più importanti nella mia nazione – e molto altro. Erdogan ad esempio ogni anno, da quando è al governo, ripete davanti ai media, senza vergogna, di non credere nella parità tra uomini e donne che, per natura, non possono essere parificati. Questa è la sua idea di memoria e questa la sua idea di futuro. Cosa possiamo fare? Resistere alla sua mente e a queste pazzie.

Ci sono degli aspetti peculiari del governo di Erdogan che lo distinguono dagli altri leader autoritari del mondo?

Posso enumerarti degli aspetti che sicuramente sono di Erdogan, ma non ho la certezza che non appartengano anche agli altri leader. Per prima cosa, mentire continuamente credendo lui per primo in quello che dice, come in una sorta di disfunzione cognitiva. Per esempio, Erdogan sostiene che chiunque vada a studiare all’estero per poi tornare in Turchia diventi uno strumento nelle mani delle nazioni straniere contro la Turchia stessa, ma i suoi figli studiano negli Stati Uniti o in Inghilterra. Questa mi sembra una mentalità peculiare. Inoltre penso di poter affermare che lui creda realmente di essere mandato da Dio a salvare la Turchia, come un prescelto, non scherzo. Ma di più, crede di essere qui per governare tutte le nazioni – che è il reale motivo per cui odia chiunque lo contrasti. Si sente davvero essere l’uomo giusto: «avete un solo obbligo: obbeditemi». Penso che non sia solamente una posa, ma qualcosa di veramente profondo in lui, il che ovviamente lo rende più pericoloso.

Per esemplificare l’accettazione dell’inaccettabile hai scritto che in Turchia oggi gli oggetti contraffatti, non originali, sono diventati “normali”. Una società forzata a credere nelle falsità rischia di perdere discernimento e adagiarsi su una dannosa passività. Esiste una chiave per invertire questa tendenza? Quali strumenti ha oggi la Turchia per liberarsi dall’autoritarismo?

Al momento in Turchia c’è una pessima opinione della politica. Ora, tutti sanno che questo governo è corrotto (la più grande corruzione nella nostra storia è nata con questo governo), ma i discorsi scivolano sul qualunquismo e l’idea che qualunque governo sia corrotto allo stesso modo ha contagiato la maggioranza della gente convinta oramai che questa non sia una specificità di Erdogan. Cosa si può fare? Non arrendersi, non credere di essere stati vinti da una politica simile. Dobbiamo continuare a lottare anche se dovessimo perdere. Io non credo nelle vittorie, credo nella resistenza. Erdogan ha vinto ogni elezione dal ‘94 scalando tutte le posizioni della politica turca fino ai suoi vertici. Le persone che lo hanno contrastato sono state sempre deluse ma non hanno cessato la loro lotta e ora, dopo venticinque anni, per la prima volta qualche mese fa Erdogan è stato sconfitto, perdendo alle amministrative città come Istanbul, Ankara, Izmir. Io credo in questo. Inoltre, invece che concentrarci sul potere centrale, dobbiamo ricordarci il valore di altre forze che modellano la società: libri, film, giornali, riviste, la musica. Il potere culturale è in verità l’elemento più grande che incide sulla società e che si proietta sul futuro. Erdogan stesso, l’anno scorso ha detto per due volte che in Turchia è riuscito a controllare l’esercito, la polizia, i media, insomma tutto, ma non la cultura. Lamenta di non essere in grado di invadere il campo culturale che non si lascia dirigere da un ordine politico, ma dalla creatività. Nel mio paese abbiamo questo tipo di potere contro l’oppressione del governo ed è grande. Le persone di ogni età creano splendide iniziative in ogni campo. Sono molto fiero delle nuove generazioni, specialmente delle giovani donne. Sono molto forti e ricche di innovazione. La loro mente è molto lucida.

Con quali modalità si conduce la lotta femminista in Turchia?

Un fenomeno molto interessante sono i gruppi di lettura, in Turchia sono migliaia. È una nuova tendenza. In ogni quartiere, in ogni strada, in ogni fabbrica, gruppi formati da cinque o dieci donne leggono libri, invitano scrittori. Questo è un modo per sopravvivere alla mentalità asfissiante del paese. Oltre l’8 Marzo, sempre più spesso Istanbul è invasa da donne che reclamano a gran voce i loro diritti e il loro numero è cresciuto negli anni. Le donne nel mio paese possono trovare molte vie per sopravvivere e migliorare la loro esistenza e questo mi fa ben sperare per il futuro della Turchia.

Hai scritto che la Turchia si è arroccata in una posizione di “prezioso isolamento”. In quest’idea di una Turchia isolata e imperialista qual è la responsabilità ideologica dell’Occidente?

Prima di tutto nell’accrescere l’idea di uno scontro tra civiltà e sottolineare le diversità profonde tra le parti in atto. Ma cosa si intende in questo caso per civiltà? La religione essenzialmente. Quando dicono Ovest dicono Cristianesimo, quando dicono Est intendono Islam, ma se tu chiedessi a me quali sono le vere divisioni di civiltà ti direi che in tutto il mondo ci sono altre divisioni: oppressori e oppressi, ricchi e poveri, il patriarcato e le lotte delle donne. In Turchia invece è profondamente radicata l’idea che esistano due “mondi” e che la Turchia possa essere il leader del mondo orientale, come l’impero Ottomano. Ma essere i leader dell’Est significa poi poter sconfiggere l’Ovest e governare il mondo intero che è un’idea ovviamente molto stupida, infantile. Se io stesso scrivessi una roba del genere in un romanzo il mio editor mi direbbe di cambiarla o toglierla. Ma è proprio questa mentalità a muovere le azioni di molti politici nel mondo, che spesso non sono altro che psicopatici che credono ciecamente al potere. Una volta, mentre stava crescendo di popolarità, Mussolini fece una conferenza stampa. Tra i giornalisti c’era un giovane Ernest Hemingway, all’epoca non ancora famoso, che scrisse di come, mentre aspettava le domande, Mussolini assumesse una serie di espressioni truci e contrite guardando un libro davanti a lui. Hemingway si avvicinò, incuriosito da cosa fosse questo libro, ma vide che era semplicemente un dizionario e per di più era al contrario. Ecco l’idiozia del potere. Guarda Putin che si fa mettere sui calendari, Erdogan che fa il sultano e poi Modi, Orban, ma persino Johnson in Inghilterra; sono loro i nostri leader. È una vergogna per l’umanità.

Nei tuoi libri hai affrontato spesso la dimensione della città, in particolare Istanbul, come un campo di battaglia tra forze culturali opposte tra loro. In che modo la Istanbul di oggi riflette questi conflitti, le speranze e le possibilità dell’oggi? Cosa vede la città nel suo futuro?

Negli ultimi duecento anni Istanbul è stata il punto di incontro di diverse culture, ma ora la situazione è mutata, la città è preda delle forze della finanza e dell’economia globale. In vent’anni sono stati costruiti centinaia di grattacieli, così tanti da essere in testa alle città con più grattacieli in Europa. A Istanbul in quindici anni sono stati costruiti 114 centri commerciali. Che cosa sta accadendo? Chi sta modellando la città in questo modo? Certo sarebbe preferibile avere un numero simile di parchi pubblici e piccoli negozi, ma oggi a Istanbul non ne trovi quasi più. Se vuoi portare tuo figlio fuori lo porti al centro commerciale, che è il posto più popolato e sicuro in questo momento. La città è oggi danneggiata dal potere politico e finanziario che dobbiamo combattere perché questo potere non risiede sono a Istanbul, ma è anche a Nuova Delhi, a Mosca, a Roma, ovunque.

Intervenendo qui al Festivaletteratura hai detto che noi esseri umani siamo «strumenti nelle mani del tempo». Per realizzare che cosa?

Credo che al di là della politica e della società ci sia una dimensione esistenziale che tutti dobbiamo interrogare. Di questo pianeta, questo sole, questa galassia non sappiamo nulla. Heidegger dice che non siamo arrivati in questo mondo, ma ci siamo caduti, ci siamo trovati in questa realtà che non capiamo e che è come una prigione, un labirinto. Siamo qui e non possiamo uscire fuori perché non sappiamo cosa sia il “fuori”, cosa ci sia nel “fuori” a parte morire. Questo è un grande interrogativo che tengo in mente ogni volta che scrivo qualcosa.