Siamo giunti alla terza tappa della presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2024. Gli incontri con gli autori si tengono alla Biblioteca Tiraboschi di Bergamo per cinque giovedì di fila alle ore 18. Domani ascolteremo Luca Scarlini.


Una delle frasi più celebri di Kafka dedicate al proprio genitore in Lettera al Padre recita: «Perché tu eri per me la misura di tutte le cose».

Si può riscontrare la sostanza dell’aforisma kafkiano in una narrazione che tiene insieme le turbolenze degli anni Settanta, il comunismo, il femminismo, gli influssi della cultura angloamericana, il rapporto nebuloso con il proprio orientamento sessuale e le manifestazioni di un aurorale universo queer? Stando all’opinione e alla capacità creativa di Luca Scarlini si direbbe di sì, vista la storia che offre al pubblico nel suo ultimo romanzo, nonché uno dei cinque finalisti dell’edizione corrente del Premio Bergamo: Le streghe non esistono.

Scarlini – drammaturgo, scrittore e performer teatrale classe 1966 – condensa tutti gli elementi succitati in un libro di poco più di centottanta pagine al confine tra autobiografismo e fiction. Il protagonista è Luca, bambino di nove anni alle prese, per l’appunto, con il rapporto decisamente problematico con il padre, denominato il «Retore», comunista austero e devoto, vecchio partigiano, genitore intransigente e violento:

«Mi coglie la vertigine: per me la questione è il senso che io non ricopro nel mondo del Retore, malgrado i miei sforzi di apparire o di scomparire. Per mio padre sono con ogni evidenza il problema, la nota stonata, il granello di sabbia che ferma la rotellina dell’ingranaggio. Non riesco a collegare in nessun modo il concetto di “amore” alla mia relazione con lui» (p. 14).

L’intero svolgimento della vicenda – che prende avvio nel 1975 tra Sesto Fiorentino e la campagna senese – ruota attorno alla consapevolezza stentorea di Luca che emerge fin dalle prime pagine del romanzo e che sembra rimanere una traccia soggiacente lungo tutto l’arco del libro: «L’amore paterno mi sembra come sempre né più né meno un miraggio, la trama di una commedia antica di cui non capisco la lingua, un concetto che per me non riesce proprio a produrre nessun senso» (p. 21). L’unico contatto tra i due sembra essere quello offerto dagli «sganassoni» che il Retore non risparmia mai di assestare a Luca per ogni sua svista o inadempienza. L’unica materia degna del furore e dell’interesse del padre rimane l’universo legato al proprio ideale politico comunista: i comizi, La Casa del Popolo, le festa de l’Unità, il corso di russo, il Vietnam, gli Inti Illimani.

Un legame, quello tra Luca e il Retore, che fa proprie alcune caratteristiche tipiche – se non addirittura stereotipiche – dei rapporti familiari della seconda metà del secolo scorso, ma che forse entrano ancora in risonanza con alcune realtà odierne. È una conflittualità portata al parossismo che trova nella presunta omosessualità di Luca un ulteriore pretesto per inasprirsi.

L’omosessualità assume i contorni di un dubbio capace di determinare l’esistenza del giovane protagonista: «A me certi giorni pare di non essere nemmeno in grado di fare il bambino, figuriamoci l’uomo, tantomeno del genere di mio padre, con tutte le famose accuse che portano al concetto usuale di “poro buco”» (p. 169). Un rapporto con la propria identità sessuale fumoso e poco esplicito che viene suggerito al lettore attraverso circostanze più attinenti alla sfera del sarcasmo teatrale e carnevalesco che non della serietà solitamente consona all’autoanalisi. Se da un lato Luca tenta di evitare un’indagine introspettiva, dall’altro demonizza la faccenda, la quale esplode in episodi narrativi tormentati:

«È sempre lì, sullo sfondo, il mostro della notte, dagli occhi gialli iniettati di cupidigia. Il prezzo dell’infanzia, è chiaro a tutti, è una continua evocazione dello spirito oscuro, per andarci sempre più vicini e imparare con crescente virtuosismo a fuggire all’ultimo secondo, quando sembra ormai che il buio si chiudesse per sempre su di noi» (p. 80).

Se la stabilità emotiva del Retore è messa a dura prova da questa dubbia omosessualità di Luca, quella della madre – contraltare felice alla figura del padre – declina le proprie attenzioni nei confronti del figlio in maniera più eclettica e attinente alla libertà d’espressione personale.

Questa donna – femminista audace e irriverente – trova la propria occasione di affermazione tra l’ingenuità di Luca e l’ortodossia comunista del Retore; è colei che lavora per pagare l’affitto della casa nella quale la famiglia vive e, complice la momentanea distrazione del Retore, è la persona che introduce il figlio a quel mondo che oggi siamo soliti definire queer: un universo eccentrico costituito da gay e drag queen, che negli anni Settanta in Italia sono stati forieri delle influenze considerate scandalose tipiche della cultura inglese e americana: «È evidente che c’è tutto un mondo omosessuale, che vive se stesso in gloria. E tutto malgrado i continui “poro buco” e le aggressioni» (p. 93). È proprio il contatto con questa dimensione stravagante che vede Luca muovere alcune mosse nella direzione di un orientamento sessuale diverso dall’eterosessualità, per quanto rimanga ancora poco definito e definibile: si trucca, indossa abiti femminili, ma soprattutto si sente a proprio agio, divertendosi, in compagnia di travestiti e omosessuali che non si risparmiano alcuna ostentazione.

La svolta narrativa nella storia avviene a causa di due motivazioni in apparenza scollegate tra loro: la minaccia di un viaggio partitico alla volta della Crimea e il ricovero di Luca in ospedale a causa di una malattia che si rivela essere dovuta a dei «linfoblastomi in eccesso» (p. 106). L’apprensione che avvince il protagonista dovuta ai due avvicendamenti sono l’esordio di una profonda e lucida riflessione che vede ancora una volta il Retore causa e misura di tutte le cose:

«Avevo quattro anni e ho sentito una frase pronunciata dal Retore con fare mondano davanti ai suoi amici: “Io non l’ho voluto certo, a me piace essere libero, fare il mio comodo, con lui sono cominciati i problemi, ma lei ha tanto insistito”. L’odio, la rabbia, l’avversione, la scoliosi, i linfoblastomi, la perdita della vista, che si misura in diottrie che fuggono a precipizio, quanto detesto il Retore: tutte le malattie sono nate in me di colpo in quel momento» (p. 132).

Di qui prende avvio la porzione narrativa che vede concretizzarsi per Luca la possibilità di emanciparsi dal sistema impositivo e asfissiante del padre. Il protagonista viene iniziato alla magia – intesa come presenza femminile dai caratteri dionisiaci che domina i fili dell’universo – entrando in contatto con la figura più misteriosa e inaccessibile del romanzo: Graziosa, «una maestra acutissima nel porre domande e nel non dare risposte, nel seminare dubbi e scatenare paure» (p. 161). Questa vecchina – supportata dalla comparsa nel libro di alcune sue seguaci – scardina il dogma proposto dal titolo del romanzo – se le streghe esistano o meno – offrendo a Luca la possibilità di venire a conoscenza di quella cultura che si è stratificata in anni di storia toscana, dall’esperienza degli antenati etruschi e dei culti isiaci fino a giungere alla più moderna fata turchina:

«Quello che imparerai lo capirai dopo, o forse mai, ma avrai accesso a una sapienza che è negata ai maschi, starà a te di farne tesoro. […] Allora i sentieri della magia diventano luoghi vuoti, scappano via per poter conservare l’immagine della terra come la vedevo io, prima della sua profanazione.  I maschi credono di poter dare forma armoniosa a tutto, ma anche se disegnano campi eleganti, la foresta è femmina e rimane il luogo dello spavento» (pp. 155-156).

È la magia a diventare occasione per donare senso all’intera narrazione sul limitare delle ultime pagine, dove vengono esorcizzati i conflitti con il Retore e con la propria incerta omosessualità:

«Ma del famoso quesito che agita le notti del Retore, se io sia finocchio o meno, non mi frega più niente. […] Capisco che senza magia non si può vivere, e che questa è la ragione della mia continua sciarra con il Retore che ha come suo credo di riportare tutto nei limiti stretti del verosimile. La lezione di Graziosa, signora del gioco, è insomma che senza accettare i propri limiti, le proprie paure, non si può immaginare la felicità» (p. 182).

Forse, proprio in questo contatto tra la sfera sessuale di Luca e l’elemento magico femminile, Scarlini propone un messaggio al lettore contemporaneo: rispolverando le tappe di un capitolo che ha raccolto un progressivo avvicinamento tra mondo Lgbtq e femminismo – entrambi aspetti gravitanti attorno alle figure della madre e di Graziosa –, l’autore illumina con una pagina di storia alcune tematiche di estrema attualità, quasi a voler suggerire con il proprio libro un modo per svicolarsi da figure maschili che, nonostante siano passati cinquant’anni, sono ancora troppo simili al padre di Luca e al retaggio del passato che è chiamato a rappresentare.

La linearità della trama viene puntellata da una lingua e da uno stile certosini e azzimati, a volte dai caratteri barocchi, che si manifesta in un lessico spesso aulico e da scelte sintattiche volutamente marcate; non mancano, inoltre, latinismi e arcaismi. Queste caratteristiche possono risultare a tratti discordanti con la voce di un protagonista di nove anni e rischiano di rallentare una lettura che di per sé implicherebbe un ritmo dinamico e frizzante dettato dal tenore ironico del libro. In questa preziosità del linguaggio – che fa propria una sostanziosa quantità di riferimenti storici, letterari, musicali e cinematografici –, Scarlini trova nell’ironia straniante la forma d’espressione più efficace per trattare con distacco intellettuale le dinamiche violente insiste nella storia, siano esse quelle legate al machismo punitivo del Retore, al rapporto conflittuale tra i due genitori, o alla sua presunta omosessualità:

«Io nella sua visione sono votato a diventare una modella del numero di Natale di Gioielli di Rakam. Nelle notti agitate mi immagina vestito con l’abito di Raffaella Carrà di plastica rossa con borchie di ogni forma e trasparenze osé, gli stivali tacco ventidue, a ballare indiavolato il Tuca Tuca, che furoreggia da anni, mixato insieme a Morti di Reggio Emilia, in compagnia di uomini nudi di ogni età a cui ammicco oscenamente». (p. 90)

Nonostante la stesura della narrazione possa risultare a volte eccessivamente ardita e sofisticata sul piano linguistico e stilistico, la vicenda fa entrare in contatto il lettore con personaggi ben riconoscibili sulla pagina grazie a contorni caratteriali netti e, a volte, caricaturali; gli aspetti della personalità di ciascuno – ideali, valori, credenze, ecc. – vengono portati agli estremi ed esasperati nella loro caratterizzazione come se fossero maschere teatrali. Ciascuno di questi personaggi è coinvolto in dinamiche sociali che restituiscono con precisione il panorama culturale degli anni Settanta del secolo scorso e che riproducono fedelmente le dinamiche di potere intrinseche in numerose famiglie del tempo. Le streghe non esistono assume i contorni di un romanzo di formazione diverso e ben architettato, dove vengono indagate le correnti di un pensiero vivace, stravagante e volto alla libertà d’espressione personale, sia essa verbale o sessuale.


Luca Scarlini, Le streghe non esistono, Firenze, Bompiani, 2023, pp.186, 16,00€.