Non appena iniziato Un solo paradiso (Sellerio, 2016), l’ultimo romanzo di Giorgio Fontana, irrompe una certezza: il desiderio di continuarlo. E’ una certezza difficile da spiegare, perché associata alla sensazione, contrastante, che quella storia che va a cominciare sia caratterizzata da una certa «debolezza di specificazione», per rubare le parole a Henry James. Il mondo che viene evocato (Milano, giorni nostri) non conquista un interesse maggiore di quello suscitato dalla realtà quotidiana, quella non trasfigurata dalla scrittura. Al contrario, conserva le stesse vaghezze nei nomi dei locali (il Cremisi, il Ritornello), la stessa genericità nelle persone che riempiono le strade («i manager chiamavano taxi sollevando due dita, il telefono stretto fra collo e spalla»), la stessa approssimazione dei dialoghi che determinano incontri o solitudini («Come stai, vecchio?», «Al solito», «Lavori ancora nello stesso posto?», «Già», «Io sto pensando di lasciare il dottorato. È solo una farsa.», «Te l’ho sempre detto»). Eppure la storia di Alessio e di Martina fa esplodere quella foga di lettura che si prova in certi romanzi d’avventura pregni di grandi uomini e imprese titaniche. Com’è possibile? Dopotutto stiamo parlando di una storia d’amore piuttosto prevedibile. Alessio e Martina si incontrano in un locale milanese. Hanno un primo, generico, dialogo: non dirmi che anche a te piace il jazz? Allora non sono l’unica a Milano! Condividono alcuni giorni intensi (per Alessio “un fremito: una certezza fisica, immediata, la promessa di una nuova vita”). Poi però Martina scompare e Alessio si lascia scivolare nell’autodistruzione. Dov’è avvenuto il trucco (fuor di metafora: il talento di Fontana che rende Un solo paradiso un libro così avvincente)?

Alessio non racconta in prima persona. La storia è da lui consegnata nelle mani di un amico, un fotografo che entra casualmente in un bar e lo incontra dopo anni. I due personaggi, fin qui, sarebbero campioni esistenziali della letteraria «debolezza di specificazione». Il primo un libero professionista alla ricerca di una birra con cui «elaborare meglio i vari propositi: uno sport, meno panini mangiati di corsa e soprattutto più lavoro». L’altro, lui: Alessio, ferreo coltivatore del «dolceamaro contentarsi», uno «stile di vita» il cui «succo era aspettarsi il meno possibile dalla vita». Eppure, all’interno di questo bar tutto cambia. Una luce cruenta si posa d’improvviso sulle descrizioni. Il respiro narrativo serra i denti. Alessio compare «seduto a un tavolo sul fondo … stretto nel solito cappotto dai bordi sdruciti … aveva lo sguardo di un animale braccato … gli occhi sognanti e acquosi dell’ubriaco». È chiaro fin da subito: Alessio ha una storia. Nei giorni trascorsi deve aver visto le tenebre urlare dall’orizzonte e consegnarlo all’uragano che squarcia le chiglie delle navi. Così chiede all’amico se vuole ascoltarla: «ti va?». Quello accetta e, mentre noi lettori ci prepariamo ad ascoltarlo, ci confida: «e con questo divenni, senza saperlo, il depositario di tutta la storia».

Un tale stratagemma narrativo riesce ad allucinare la vicenda, modificandone i toni, le tensioni, i temi in gioco. Noi avvertiamo lo sforzo di testimonianza di quel depositario della storia. La solennità, e i nervi scossi, con cui si accinge all’impresa di riportarcela. La sua fatica accende di curiosità i nostri occhi. Non possiamo che continuare la lettura, guidati da un turbamento. Ecco che quella «debolezza di specificazione» è il mare calmo in cui, per contrasto, diventa fragoroso l’irrompere dell’uragano. Milano, la «città di addii», è uno sfondo limaccioso, che all’inizio ben si presta ad accogliere quella prima narrazione un po’ accomodata e imprecisa, con chiacchierate alle mostre, discussioni sull’Indie Rock, frasi fatte e generiche. Ma il gioco funziona così bene che non giunge stonata l’affermazione dirompente che, lì in mezzo, un uomo «come gli antichi profeti aveva guardato un dio negli occhi e la verità l’aveva trasfigurato».

Ecco, sì: forse proprio qui sta il punto. Un tremore di mistero biblico incombe su ogni istante di questo viaggio nelle conseguenze dell’amore. C’è la caduta. Ci sono la salvezza e la perdizione. Ci sono felicità così grandi che spaventano. E c’è la visione di una bellezza assoluta, che tuttavia avviene fuori dalla grazia, nel mondo della «debolezza di specificazione», la cui luce perciò non salva, ma al contrario acceca, brucia e fa sanguinare gli occhi.

Il punto a favore di Fontana non è tanto che ci siano questi elementi, ma che si avvertano. Fontana, qua e là, li dice, ma soprattutto li fa succedere, intuire, lascia che si insinuino nel tono della narrazione e nelle sue tinte sottintese. Come una sensazione, un’ombra sugli eventi. La narrazione è contenuta, tutt’altro che sentimentale, eppure i suoi temi si appiccicano a fondo per il tramite delle sensazioni, senza che ci si fosse preparati. E a questo punto colpiscono, fanno male. Va detto che già la passione musicale di Alessio, che inizialmente sembrava una semplice caratterizzazione del personaggio, ci aveva suggerito il tema portante della parabola: «qualcosa nel jazz aveva l’aspetto del maleficio. Martina si domandava perché quella musica fosse, più di ogni altra, così intimamente legata all’autodistruzione: perché tanta bellezza dovesse sempre esigere uno scotto».

Bellezza e scotto. Grazia e caduta. Due termini che nella parabola di Alessio risultano inseparabili: non opposti, ma conseguenti. D’altronde, per quanto riguarda il momento di grazia di Alessio, «la fonte autentica della sua felicità stava proprio nel suo essersi reso inerme». E per quanto riguarda quello, successivo, della caduta all’inferno: «sorridendo si diceva: son finito qui per amore, soltanto per amore». Insomma, il paradiso predispone l’inferno, l’inferno è il compimento del paradiso, e l’amore sta lì, in agguato, a incidere sulla nostra pelle questa verità «scevra di inganni». La domanda che sorge infine è: il gioco vale la candela? Non è che tutto sommato vale la pena riabilitare il «dolceamaro contentarsi» di Alessio? E qui è la scrittura a venirci incontro: no, sembra dire. Quelle sono vite che vengono raccontate dalla «debolezza di specificazione». Una lente di ingrandimento (stilistica), che ne mette in luce la sciattezza sostanziale e ci porta a preferire la fiamma che brucia e distrugge, lasciandoci sgomenti di fronte allo spettacolo, come quel Leonard Cohen che guardando Giovanna d’Arco sussurrava: «Vidi il suo fremito, vidi il suo pianto. Io stesso desidero amore e luce, ma dev’essere così crudele e così luminoso?»

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