Il ritorno è lontano (Bompiani, 2024), ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, è la storia di Sara e Nina, madre e figlia, dei loro tentativi di affermare le proprie soggettività e, contestualmente, di salvarsi e salvare il mondo. La vicenda si apre con la dolorosa assenza di Nina, trasferitasi in Germania per studio, che scatena una vera e propria crisi identitaria in sua madre (tema che sembra interessare diversi romanzi editi quest’anno: basti pensare a L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio, presentato, come Il ritorno è lontano, al Premio Strega).

Quella di Nina è un’assenza che diventa pervasiva in Sara e nel romanzo stesso fino a farsi materiale, corporea («Sara avrebbe dovuto esserne felice o almeno soddisfatta, a tratti lo era, ma a volte si sentiva come se le avessero tolto un polmone», p. 9). La partenza di Nina, infatti, non solo destabilizza l’equilibrio sul quale Sara aveva costruito la propria identità di madre fino ad allora, ma coincide anche con la scoperta, da parte di quest’ultima, di un tumore curabile solo attraverso un’isterectomia. Da condizione spirituale, la fine della maternità diventa organica, coincidendo metaforicamente sia con l’assenza di Nina che con quella dell’utero. Che la condizione di disagio e di crisi identitaria passino attraverso il corpo lo ricordano i numerosissimi brani in cui Sara si tocca in sovrappensiero il ventre («Per strada accusò qualche fitta al ventre, aveva le mani impegnate e non poté portarsene una là dove sentiva la solita fuga di materia verso il vuoto. Quante volte poteva volatilizzarsi il suo utero?», p. 153; «Sara, seduta di fianco a lei, si era slacciata i bottoni della camicia, non portava la panciera e con una mano si teneva il ventre», p. 217): il senso di vuoto che Sara vive ogni volta che entra nella camera di Nina è echeggiato dal «calco vuoto» che ora occupa il suo corpo e nel quale «avvert[e] l’assenza».

Questa attenzione al corpo materno richiama molti romanzi novecenteschi italiani scritti da donne e incentrati sul tema della maternità. Nello specifico, l’espressione stessa di «calco vuoto» ricorda la condizione di “non madri” descritta 1979 da Laudomia Bonanni nel Bambino di pietra. Qui la protagonista parla di certi fenomeni di “litopedio”: caso rarissimo di calcificazione fetale. Se in Sarchi il calco vuoto è assenza sofferta di maternità, in Bonanni il feto di pietra riempie il corpo delle donne che però scelgono attivamente di rinunciare alla maternità. Se per Bonanni il corpo della donna diventa campo di battaglia e strumento contro una maternità socialmente imposta, in Sarchi diventa nemico di Sara, e i suoi cambiamenti confermano la fine di uno stato che la definiva. E ancora, se in Bonanni questa sorta di determinismo biologico nella costruzione della soggettività femminile è in realtà strumento di emancipazione frutto del contesto storico e politico in cui il romanzo fu scritto, nel caso di Sarchi il corpo non si lega solo alla questione del materno, ma è al centro di tutti i temi affrontati dal romanzo, in nome di una “continuità organica” sui cui Sara e Nina, separatamente, riflettono: non è un caso che Nina, attivista ecologista, decida, a un certo punto, di protestare nuda («Cosa rimaneva da fare se non […] metterci il proprio corpo?», p. 105).

 In Il ritorno è lontano,il corpo umano è infatti indissolubilmente legato al mondo circostante e alla natura, in quanto loro parte integrante. Legame che non è reso solo attraverso le riflessioni e l’attivismo ecologista di Nina, ma anche e sorprattutto per mezzo di precise scelte stilistiche come il ricorrere di metafore e similitudini che richiamano il mondo vegetale («Sara si vide riflessa nel vetro della serra: per quale ragione i suoi capelli crescevano come liane, spuntava già il bianco delle radici. Perché non aveva la saggezza di un ciclamino o la fede di un cappero che scomparivano ogni inverno? Perché non riusciva ad accettare di seccarsi?», p. 67). Seppure irresolubile, quello tra corpo umano e natura è un rapporto che si cerca di recidere: tanto Sara non accetta che il suo corpo si avvii alla fine del suo ciclo biologico – e quindi, tra le altre cose, di non poter più essere madre – , tanto si fatica ad accettare che il mondo stesso abbia una data di scadenza. E il parallelismo tra il corpo materno e madre-natura, appunto (l’ecofemminismo molto ha ragionato sull’associazione romantica ed iconografica tra natura e donne angelicate e vittime, un accostamento spesso criticato in quanto frutto di uno sguardo maschile e “coloniale”) non si esaurisce qui: se Nina ha deciso che per affermare sé stessa in quanto individuo è necessario un taglio netto con la sua famiglia e sua madre, così il genere umano ha deciso che il modo per autoaffermarsi è staccandosi da madre-natura. Il matricidio in senso filosofico, teorizzato da Julia Kristeva, non è quindi solo quello che Nina compie per costruire e affermare la propria soggettività, ma anche quello contro cui lei stessa combatte e di cui accusa l’umanità intera dal momento in cui ha deciso di vivere “contro” (madre-)natura in nome del progresso.

Questo matricidio, che riguarda il rapporto madre-figlia e, più in generale, il rapporto individuo-natura, è anche il frutto di uno scontro generazionale che Sarchi rappresenta con precisione. Come detto, il distacco dal materno di Nina potrebbe sembrare in contraddizione con le accuse che lei stessa rivolge a un’umanità assassina. In realtà, il matricidio coincide anche con l’allontanamento da tutta una serie di valori di cui la generazione di Sara è simbolo e fautrice, compreso il distacco da madre-natura e la conseguente accelerazione della sua fine. Attraverso la narrativizzazione della questione ambientale, infatti, Sarchi dà voce a generazioni, approcci e sguardi diversi: Nina è radicale, Sara è scettica, Vittoria, madre di Sara, è nostalgica. Nel romanzo la generazione di Nina è accostata a quella di Vittoria («[…] Nina è una ragazza d’oro. Hanno l’ardore del Sessantotto, questi giovani. Ma quale Sessantotto, mamma? Hai provato ad ascoltare le loro parole, ti pare che abbiano lo stesso vocabolario del sessantotto? […] Li hai ascoltati in televisione? Cosa ti ha appena mostrato tua nipote? Vasetti di terra nera con dentro semi che forse diventeranno piantine. Chiedono di sopravvivere, di poter avere acqua e aria pulita. Vittoria, scosse la testa con aria di compatimento», p. 63), ma è posta in netta antitesi con la generazione di Sara, che «aveva accettato di essere pieghevole, flessibile, paziente, fino a non essere altro che una massa polverizzata» (p. 30).

Questa serie di movimenti confusi di allontanamento e ritorno non sembrano trovare soluzione se non nella consapevolezza nuova e graduale che tutto esiste secondo una continuità organica: «Che cosa ci aveva strappato dall’idea che esista una continuità organica e che tutte le forme di vita abbiano un’antica dipendenza dalla prima apparsa sulla terra, la vegetazione?» (p. 157), si chiede Sara. Forse proprio questa consapovelozza – più dei tentativi di lotta intrapresi da Sara (che prende in affido Pietro, un bambino traumatizzato e problematico attraverso cui si illude di poter ripristinare serenamente la sua identità di madre) e da Nina (alla ricerca di forme di protesta ecologista sempre più radicali), spesso gesti di affermazione personale prima che di altruismo – è l’unica strada verso il ritorno, di Nina alla madre, di Sara alla maternità, dell’essere umano a madre-natura.


A. Sarchi, Il ritorno è lontano, Milano, Bompiani, 2024, 240 pp., 19.