In Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022) Daniela Brogi offre un quadro della condizione femminile contemporanea in Italia. Lo scopo, se non di fornire nuovi «linguaggio e prospettiva» che fondino un discorso inedito sulla questione e, dunque, un «nuovo mosaico», è quello quanto meno di aprire una riflessione sulla loro necessità, che non si limiti a «infilare polemicamente delle tessere assenti, né [a] rappezzare buchi, o [ad] aggiungere nomi tanto per far numero». Se questa specifica dell’autrice rischia di sminuire tentativi precedenti e propedeutici al cambio di linguaggio che lei stessa auspica, bisogna riconoscere che, allo stesso tempo, aiuta a prevenire certe polemiche puntualmente mosse contro la nuova tendenza delle studiose, soprattutto, a riscoprire soggettività e creatività femminili dimenticate, estromesse o silenziate. Polemiche che accusano di forzare le maglie di una rete che si è formata per meritocrazia, aggiungendo anelli deboli, non abbastanza resistenti da sorreggere le fila nelle quali vengono inseriti e quindi incapaci di reggere il paragone con i vicini.

In questo saggio dal gusto letterario, anche solo per l’abbondanza di metafore utilizzate, Brogi costringe chi legge a porre l’attenzione sull’«elefantessa intrappolata in una stanza dove si continua a conversare, fingendo di non vederla». Il volume si propone di restituire un quadro il più esaustivo possibile degli spazi occupati o non occupati dalle donne, intesi in senso metaforico così da inglobare diversi campi semantici. Questo escamotage diventa fondamentale per la gestione di una materia così vasta, tanto da toccare concetti e situazioni anche molto diversi, che in assenza di questo fil rouge non avrebbero avuto modo di essere inclusi e trattati nella stessa sede.

Il libro si compone di cinque parti, che corrispondono a cinque interpretazioni diverse della metafora dello spazio: spazio storico, spazio come territorio e condizione di creatività, spazio come discorso abitato da stereotipi sessisti, spazio come stile ed esperienza, spazio come messa alla prova della contemporaneità. È già evidente come tale struttura e questa declinazione metaforica da una parte abbiano il pregio assoluto di inglobare nella discussione ambiti diversi e ampissimi; dall’altra, questa stessa ampiezza rischia di rendere dispersiva la trattazione, che tocca moltissimi aspetti senza che nessuno venga davvero approfondito fino in fondo. Inoltre, la declinazione metaforica del concetto di spazio è, in alcuni punti, estremizzata fino a diventare forzata, così da spezzare l’armonia che intendeva creare: la sensazione di perdere il filo del discorso o di perdere di vista il leitmotiv dello spazio è frequente durante la lettura.

Senza dubbio la varietà degli argomenti rende l’opera un vademecum utile per chi si approccia alla questione di genere (in Italia) da neofita, per chi è in cerca di una bibliografia di base da cui partire, per chi voglia crearsi un’opinione che permetta di prendere posizione nei dibattiti correnti, e questo rimane un merito del libro e della sua autrice. L’esaustività è raggiunta, però, orizzontalmente, grazie alla varietà di questioni toccate, ma forse non verticalmente, in profondità. L’ambiziosa portata contenutistica da gestire in così poco spazio concede un’infarinatura generale dei maggiori dibattiti in corso sulle questioni di genere, ma non restituisce per intero la complessità delle stesse.

Il libro, si apre, prevedibilmente e comprensibilmente, con la richiesta per eccellenza del diritto e della necessità di uno spazio proprio che permetta alle donne di lavorareA Room of Her Own di Virginia Woolf. Da qui, Brogi cerca di rispondere a questa esigenza declinando, ulteriormente, il concetto di spazio storico in nuove metafore di ‘spazi possibili’ per le donne: «il recinto, l’abisso, l’interstizio, la mappa, il fuori campo attivo». Questa organizzazione rigida e geometrica della materia trattata è funzionale alla lettura, e aiuta a gestire al meglio la versatilità dei contenuti. Venendo meno nei capitoli successivi, che si fanno più aperti e fluidi, però, diventa difficile tenere sotto controllo la quantità di informazioni e riflessioni fornite.

Brogi spiega come e quando le donne siano state rinchiuse nel “recinto” dell’ignoranza, o, se fortunosamente evase, di come il loro talento o il loro genio siano stati gettati nell’“abisso”. Ricalcando il concetto ferrantiano di smarginatura (centrale sia nei suoi romanzi – nei quali personaggi e personagge vivono l’esperienza fisica e metaforica di «smarginarsi», uscire dai propri confini fisici, espandersi e sfocarsi – sia nel suo ultimo saggio I margini e il dettato, in cui si applica più specificatamente all’autorialità femminile e alla pratica di uscire dai confini stabiliti di generi e pratiche letterari), fornisce poi esempi di come, attraverso interstizi creati tra i generi codificati della letteratura, le soggettività femminili scriventi siano riuscite a riflettere sull’«identità destabilizzata e [sul] trauma» di cui si fanno carico. Viene inoltre denunciata l’estromissione delle donne da qualsiasi “mappa” e si avanza l’augurio di ripopolare un “fuori campo attivo”, uno spazio sgombro di pratiche sessiste. La metodologia con la quale l’autrice si appresta all’analisi di questi spazi abitati, abitabili o inabitati dalle donne è di stampo dichiaratamente femminista, un merito da riconoscere al volume, dal momento che, come denuncia Brogi stessa, è questa una parola pronunciata ancora con sospetto in Italia:

Nel discorso comune e nell’opinione pubblica, nominare il femminismo in tanti casi suscita immediatamente reazioni difensive; dichiararsi femministe, o femministi, vale a dire, anzitutto, contrarie e contrari al sessismo (cioè alla violenza e alla discriminazione di genere), può spesso significare essere subito situati in una storia di rabbia, di rivendicazione, anziché in una vicenda di liberazione costruita nel tempo e nelle azioni (…).

Altrettanto apprezzabile è il tentativo di smontare concetti cardine che alimentano retoriche più o meno velatamente maschiliste: l’autrice riflette polemicamente sul concetto di meritocrazia, sulle obiezioni apparentemente progressiste contro il concetto di quote rosa, o ancora sulla demonizzazione di quella che è stata definita cancel culture, passando con disinvoltura (e forse troppo bruscamente) da questioni di teoria letteraria a casi di cronaca come il delitto del Circeo. Tutti spunti interessanti e fondamentali, che offrono coordinate preziose per orientarsi in una materia labirintica, ma che spesso si susseguono in modo confusionario.

Il quarto capitolo è il più riuscito e interessante, perché più chiaramente delimitato. L’autrice, infatti, si concentra qui sulla letteratura come spazio abitato o inabitato dalle donne. Attraverso una dichiarazione di poetica che fa da avvertenza al suo discorso, Brogi spiega che non intende usare il concetto stesso di ‘scrittura femminile’ come etichetta – tanto temuta dalle più note scrittrici del ventesimo secolo italiano – e anzi evidenzia come il concetto stesso sia privo e privato, in questa sede, di «frontiere e confini» e quanto sia invece utilizzato per riflettere su «qualità diverse di voce, di sguardo e di immaginativa». Dopo tutto, già nel 1976 Hélène Cixous aveva spiegato quanto fosse difficile definire il concetto di écriture féminine, non teorizzabile o codificabile, ma esistente.

Brogi, dunque, alla luce di questa importante premessa, si concentra sulle forme di questa scrittura, per non ricalcare una «polarità tra maschile e femminile come una condizione, quasi un’essenza inaggirabile» e per non usare il genere «come prospettiva unica». Si concentra, piuttosto, sulle innovazioni formali che nelle autrici hanno coinciso con la possibilità di affermare le loro soggettività di scrittrici: «certi modi di inventare e smontare le biografie e l’autobiografia»; «l’uso della plurivocità»; il «discorso indiretto libero usato per creare un senso di distanza e di estraneità all’io, anziché di introspezione»; la «reinvenzione dello spazio romanzesco come zona di dialogo tra figure appartenenti a epoche diverse o immaginarie». Il pregio di questa riflessione sta nel non soffermarsi tanto sui limiti e i danni che l’egemone male gaze si trascina dietro, quanto nel riscoprire le innovazioni del female gaze, incodificabile ma possibile.

Brogi, nel suo saggio, ha recuperato spazi già in precedenza rivendicati come femminili, abitati sia passivamente che attivamente: la genealogia femminile già teorizzata da Ferrante ne La frantumaglia, il gineceo letterario concepito da Maria Bellonci, il pozzo in cui cadono e si ritrovano le donne, e di cui Natalia Ginzburg e Alba de Céspedes scrivono sulla rivista «Mercurio», sono tutti spazi ripresi – più o meno esplicitamente – ma che in questo volume diventano «zone di passaggio, di transizione» verso una auspicata nuova riflessione.


Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022, pp. 128, € 12.