È proprio vero. Sono i Paesi “di cerniera” e di transito, spesso contesi da popoli e nazioni diverse, luoghi di contaminazioni e di conflitti, i più attraenti da esplorare. La Moldavia è uno di questi. È una terra difficile da inquadrare nei suoi precisi confini e da definire nelle sue connotazioni storico-politiche, per via delle alterne vicende e dominazioni che ha conosciuto.

Oggi la Moldavia storica è una regione divisa tra due Stati, la Moldova e la Romania, di fatto poco comunicanti tra loro. La parte ovest è attrattiva per le sue ricchezze artistiche, soprattutto i suoi monasteri, l’altra ha ben poco da offrire al turista, se non una storia complicata e dei buoni itinerari vinicoli. È quella che ha per capitale Chisinau, e che è stata al centro di dispute tra potenze quando ancora si chiamava Bessarabia, una fetta di terra il cui passato ha tanto da raccontare e non sempre in modo edificante.

È stata più volte conquistata e ceduta, lì a metà strada tra i due fiumi Prut, che la divide dalla Romania, e soprattutto il Dniestr, che segnava a est il recente confine con l’Unione Sovietica, a poche decine di chilometri. Quell’area tra i due fiumi che oggi corrisponde alla Moldova, da sempre a maggioranza romena, era stata annessa dall’Unione Sovietica alla vigilia della Seconda Guerra mondiale. Divenne così parte della Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina, dando così inizio a un confuso melting pot etnico e linguistico che poi è la sua bellezza, e che a Chisinau è evidente: qui si parla, malvolentieri, russo, e poi romeno e ucraino. Ma la russificazione partiva da lontano, dall’epoca zarista, toccando il culmine  soprattutto negli anni di Alessandro  III, che mandò nella capitale funzionari russi, impose la sua lingua e il suo sistema amministrativo. Da lì la tendenza è andata avanti fino a poco più di trenta anni fa, con l’indipendenza. E l’impronta russa e sovietica è evidente già nell’impianto architettonico e urbanistico, con le sue strade larghe costeggiate da edifici a un piano propri delle città russe, a eccezione di quelli pubblici che conservano invece un’aria di maestosità, non disgiunta da una certa eleganza.

Chisinau è stata al centro di tanti fermenti politici, ribellioni e anche gravi pogrom, già dall’inizio dell’Ottocento, quando quella terra fu annessa alla Russia zarista, ospitando anche esponenti rivoluzionari e oppositori, il più noto dei quali fu Alexander Puškin, che dovette qui scontare tre anni di esilio nella sua gioventù. La casa dove trascorse questo difficile periodo è diventato un museo aperto al pubblico e perfettamente conservato, un luogo dove sono raccolti cimeli che ripercorrono l’intero itinerario letterario e personale del poeta che più di ogni altro ha incarnato l’anima del suo popolo. La casa è una costruzione di un solo piano, appunto nello stile tipico russo, composta di diverse unità. Dovrebbe essere una delle attrattive principali della città, che di luoghi di interesse ne ha pochi, ma il museo è poco frequentato. La comunità locale tuttavia deve averlo molto a cuore, almeno a giudicare dalla cura con cui viene mantenuto, a dispetto dei pessimi rapporti della Moldova con la “Grande Madre” Russia dai tempi della caduta del blocco sovietico.

Non c’è niente di lussuoso tra quelle mura, anzi. L’impressione è quella di una sistemazione modesta dove fu costretto a vivere Puškin, che a Chisinau pare abbia passato il periodo peggiore del suo esilio. Ci era finito per le sue posizioni politiche, i suoi scritti troppo liberali e i suoi legami con i cospiratori antizaristi. I suoi epigrammi pungenti e i suoi versi sovversivi erano diventati così popolari che lo zar Alessandro I non poté fare a meno di prendere provvedimenti, ma fu clemente: invece di spedirlo in Siberia lo mandò d’ufficio nella periferia dell’impero, prima a Ekaterinoslav, oggi la città contesa di Dnipro in Ucraina, e poi in Bessarabia.  In quella che per lui fu la “città maledetta”, da cui cercò in tutti i modi di andarsene, Puškin si dedicò intensamente alla scrittura e alle sue avventure amorose, nelle quali pare avesse successo. Scrisse Il prigioniero del Caucaso, I fratelli masnadieri, Gabrieleide, una serie di liriche e buona parte del romanzo Evgenij Onegin. Alla fine, fu un periodo proficuo: i suoi versi e le sue prose ebbero un’eco notevole in tutta la Russia diffondendo l’immagine dell’esule resistente, che non si piegava di fronte al destino avverso. Fu allora che prese forma il cliché del giovane artista tormentato dai tradimenti, dalle calunnie, dagli amori non corrisposti, deluso, dell’uomo disgustato dai veleni della civiltà e attratto dallo stato di natura, afflitto da una precoce “vecchiaia dell’anima”. Da parte loro, i personaggi delle sue opere superavano l’autobiografismo e si elevavano a eroi del suo tempo, diventarono simboli della temperie di un’intera generazione e dei suoi tormenti. 

All’ingresso della casa museo, le due donne non giovani all’accoglienza spiegano la composizione dell’edificio, formato da una grande anticamera che dà accesso alle due parti in cui è divisa la casa: la prima a sinistra è la camera di Puškin dove si possono vedere arredamento e decorazioni della prima metà del XIX secolo, libri e ritratti di persone a lui care. Tra queste, sul tavolo di lavoro, c’è un ritratto dell’amico poeta Vasilij Andreevič Žukovskij con la dedica “all’allievo vincitore dal maestro, sconfitto in quel solenne giorno in cui finì il suo poema Ruslan e Liudmila, 26 marzo 1820”.

Era proprio alla vigilia della sua partenza per l’esilio, quando Puškin pubblicò il poema favolistico ispirato alle leggende e alle fiabe popolari che aveva sentito da bambino e che poi diventeranno un’opera lirica. Quel ritratto lo portò sempre con sé fino alla morte, appeso al muro nella sua ultima casa di San Pietroburgo.

Spicca poi un altro ritratto, quello di Lord Byron, ritenuto da lui un maestro, l’idolo della sua gioventù, che definì “il maestro dei miei pensieri” e, nelle teche, le opere complete del poeta inglese, a fianco di splendide edizioni in francese dei Chefs-d’ouvres drammatici di Voltaire, di Ovidio, dei Memoires di Saint-Simon, delle Lettres de Milady Juliette Catesby a Milady Henriette Campley. E poi i suoi  manoscritti originali de La figlia del capitano e della poesia Lo scialle nero, e pagine del poema Il prigioniero del Caucaso, scritto in questa casa. Nella hall c’è un’esposizione che rivela l’ambiente socio-politico della Bessarabia di quegli anni e l’interesse del poeta per quella terra, le sue tradizioni, la sua gente.

Chisinau, luogo di elaborazione e scambio di nuove idee e fermenti politici, era stata chiamata “la culla della rivoluzione greca” e nel 1821 il grande poeta russo fu diretto testimone della “Hetaerae”, il movimento di liberazione nazionale contro la dominazione turca, entrando  personalmente in contatto con i suoi leaders, i fratelli Ypsilanti a cui dedicò una serie di poemi. Ma la sala centrale è la Onegin Hall, dedicata all’Evgenij Onegin, che fu concepito in quelle stanze. Oltre ai manoscritti e a una gran quantità di oggetti relativi all’opera, la Onegin Hall intende riprodurre gli ambienti e il clima letterario, sociale e anche intimamente interiore che hanno ispirato  il romanzo in versi: la stanza “rurale” dell’eroina Tatiana, lo studio di Onegin e altro materiale che si ritrova perfettamente  nel romanzo. Come le tele e le incisioni del XIX secolo, dove si possono ritrovare scene delle promenades pubbliche del tempo frequentate dai suoi personaggi, i panorami ammirati da Puškin, e illustrazioni che ricreano le scene chiave del romanzo.