Da Camden facciamo una lunga passeggiata fino a King’s Cross, costeggiando uno dei tanti canali che attraversano Londra. Pablo fa un vago riferimento al fatto di cambiare città e in me scatta qualcosa. No, ma noi non cambieremo mai, dico prendendolo in contropiede, lei non vuole – e faccio cenno a Giulia – ormai ho capito che in questo senso non ci sono speranze, ci siamo stabiliti a Roma e dobbiamo restare a Roma per tutta la vita… Credevo di poter controllare la voce, ma le mie parole hanno preso un tono inaspettatamente duro.

Mercoledì mattina, non riesco a fare niente: devo andarmene, staccare. Raggiungo Termini in motorino e carico Filippo, poi Castro Pretorio e Muro Torto, la prima strada che ho fatto appena arrivato in città, anni prima, sempre in motorino, con una bella amica bionda. Dalla bancarella del professore vediamo apparire l’obelisco di Piazza del Popolo oltre Porta Flaminia. Non ci incontriamo da tre o quattro anni però siamo sempre rimasti in contatto, gli altri (i calabresi, l’aretino) tutti persi di vista. È in città per poche ore e ha provato a scrivermi. Ai tempi dell’amica bionda, lui era uno dei rari expat universitari del nord: Venezia. Quelli del nord che si stabiliscono a Roma sono pochi e tutti un po’ matti, quasi sempre simpatici, quando ci parli ti accorgi subito che hanno seguito il traffico in direzione ostinata e contraria. In effetti nemmeno lui è durato molto, credo meno di un paio d’anni, poi è tornato a casa e ha cambiato vita, da studente di filosofia a marinaio. Nel momento in cui ci vediamo ha da poco compiuto la sua prima traversata atlantica in barca a vela, me ne parla fra un Caravaggio e l’altro. Il primo, anzi i primi due, sono in Santa Maria del Popolo: San Paolo sul lato sinistro e San Pietro su quello destro, collocati entrambi un po’ di sbieco, per cui bisogna fare a gomitate coi turisti per guadagnare l’unica postazione utile. La prima tela ritrae un giovane stramazzato a terra con gli occhi chiusi e le braccia aperte a V contro una luce che lo investe dall’alto. La seconda, un vecchio inchiodato a una croce che sta per essere capovolta. Un tizio carponi fa forza con le spalle, da sotto. In primo piano ci sono i suoi piedi sporchi. In pratica, dice Filippo, si porta la barca sulla costa africana orientale, all’altezza del Senegal per intenderci, e quando si alzano gli alisei, che sono una specie di autostrada, pian piano ti spingono dall’altra parte. Il viaggio dura meno di un mese. In realtà si va con molte altre barche ma tu non vedi mai nessuno, tanto sono distanti. Chiacchierando ci immettiamo su via del Corso ma subito, infastiditi dal passo dei turisti-zombie, prendiamo per i vicoli laterali. Veleggiamo a caso in direzione Pantheon, ci infiliamo in una libreria esoterica. Filippo mi chiede di me e io non so bene come fare a spiegargli tutto, ho sempre questa smania di entrare nel dettaglio, come se cercassi un’approvazione. A San Luigi dei Francesi ci aspetta il ciclo di San Matteo. Nel buio, Filippo dice che i genitori sono preoccupati per questo lavoro precario ma che lui vuole stare solo in mare, dice proprio così solo in mare. Poi un giapponese si decide a cacciare di tasca il portafogli e mette una moneta nella macchinetta che accende la luce. Davanti a noi compare un vecchio che porge ascolto a un tizio calato dall’alto, ha un ginocchio poggiato su uno sgabello, scrive qualcosa come se non avesse abbastanza tempo, va di fretta. Sulla sinistra, un gruppo di persone fa di conto attorno a un tavolo, un uomo ne indica un altro, che a sua volta si poggia la mano sul petto come a dire “a me”? La tela di destra è più disordinata, un uomo steso a terra sta per essere accoltellato da un tipo mezzo nudo che lo tiene per un braccio. La luce scatta e noi andiamo in silenzio a sederci sugli scalini. Filippo si rolla un drummino. San’Agostino sarebbe proprio a due passi, si fa un pezzo per via della Scrofa e poi a sinistra, c’è la Madonna dei pellegrini, questa ragazza mora con in braccio un bambino gigante e davanti due persone inginocchiate coi soliti piedi sporchi. Descrivo la scena a Filippo che mi dice ah sì, me la ricordo sul libro d’arte. Vedo su internet che fra poco la chiesa chiude, lui dovrebbe tornare. L’idea di perdere tempo ci fa un po’ paura.

Si vede tutto nel primo minuto della Dolce vita: gli archi degli acquedotti, la cupola di Don Bosco e i palazzi in costruzione, compreso quello che contiene la casa in cui sto scrivendo. (Nella scena successiva Marcello prova a rimorchiare delle ragazze che prendono il sole in terrazza affacciandosi dalla cabina dell’elicottero su cui sta viaggiando, lui parla ma il rumore delle pale ne copre la voce, e in effetti il senso del personaggio non è proprio questo? uno scrittore che non ha voce?). Ma i riferimenti non finiscono qui, del resto siamo attaccati agli studi di Cinecittà, dove Fellini ha praticamente passato metà della sua vita. Il Tuscolano è un grande rettangolo di palazzoni orientato verso i coni rovesciati dei Colli Albani, a chiuderlo ci sono da un lato il Parco degli Acquedotti e dall’altro l’aeroporto di Centocelle, dove nel 1909 i fratelli Wright hanno fatto la prima aereo-ripresa della storia. Sul lato corto dalla parte del centro, il quartiere è sigillato dall’Acquedotto Felice, col mascherone di un demone-delatore che controlla chi viene e chi va sulla salita del Quadraro, il nido di vespe dove nel 1944 i nazisti hanno rastrellato civili. Da qualche parte ho letto che è il quartiere più popoloso d’Europa e non stento a crederlo. L’altro riferimento per me essenziale della Dolce vita è una specie di altorilievo che segnala semanticamente l’abitazione di Steiner, l’intellettuale con Moravia e Rosselli in salotto che a un certo punto (non si capisce perché) accoppa i figli e si suicida. Ogni sabato mattina mentre vado al mercato ci passo davanti. Ma da queste parti lo spirito di Fellini è rincorso da quello di Pasolini: solo qualche settimana fa siamo incappati nei riccetti candidi di Ninetto. Innanzi tutto, gli acquedotti su cui si apre La dolce vita (1960) sono gli stessi dove i ragazzini di Mamma Roma (1962) scialano per tutto il giorno. E poi La ricotta, quando Orson Wells risponde alla domanda di un giornalista – “Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?” – dicendo semplicemente “Egli danza… egli danza” e infine recita una poesia di cui l’intervistatore capisce solo due versi: “Giro per la Tuscolana come un pazzo / per l’Appia come un cane senza padrone”.      

Il cilindro di Castel Sant’Angelo appariva in una luce fredda, mentre perdevo punti della patente e ore di sonno.    

Da mesi mi sveglio alle 5:55 per prendere il treno a Latina, essere a Termini alle 7:10 e aspettare il più tragico dei mezzi di trasporto cittadini, il tram linee 5, 14 e 19 nella fattispecie. In qualunque film d’ambientazione romana in cui non si debba stipulare un mafioso patto di accettazione sullo status economico-sociale dei protagonisti, si vedrà scorrere una di queste vetture, preferibilmente nello scorcio della tangenziale: semantica della povertà. La scuola si trova ai limiti estremi di Centocelle, davanti al Quarticciolo, dove fra l’altro è stato ambientato Nessuno mi può giudicare con Paola Cortellesi. Lei è una sciura che perde il capitale, diviene poverella e si deve trasferire proprio qui, appunto. Apro una parentesi che ci porta in un’altra scuola/periferia. Stavolta siamo a Spinaceto, sud di Roma, quartiere vittima della battuta più inconsciamente classista del cinema italiano (di cui anche io, per anni, ho riso). Questa seconda scuola sorge in prossimità di un ecomostro degno di nota, la Città del rugby, 30 milioni di euro, campi progettati e costruiti più stretti, mai concluso, mai entrato in funzione. Uno sfacelo spettacolare. Qualche anno dopo la supplenza di Centocelle, ci passerò tutte le mie ore di buco, osservando i movimenti dell’umanità che lo popola, vagamente in ansia di beccarmi una cortellata. Ma il punto non è né Centocelle, né il Quarticciolo – dove in tempi di guerra operava una certa banda del Gobbo che da sola basta a sfatare ogni approssimazione semantica – né tanto meno Spinaceto. L’azione si svolge proprio a Termini, in uno dei viaggi di ritorno a casa, probabilmente un venerdì mattina poco dopo le 11, dato che chi si occupa dell’orario mi ha beneficiato delle due ore iniziali e basta. Per descrivere lo stato in cui verso in quel frangente di vita citerò un taccuino intitolato Appunti per un attentato alla stazione Termini. Quindi un giorno rinfilo il tram a marcia indietro e mi riavvio verso casa. Togliatti, Prenestina 20 fermate, Porta Maggiore, Piazza Vittorio, Termini. Vengo abbordato da un’ombra che mi chiede dei soldi. In realtà non è un’unica persona ma un complesso umano costituito da un lui, parlante, e da una lei, completamente inanimata, che lui tiene appesa alla spalla sinistra. Fluttuano. Impossibile stabilirne età o provenienza geografica. Molto tempo dopo metterò a fuoco l’archetipo di Paolo e Francesca sbalzati nella bufera dell’eroina. Comunque mi sono simpatici, li accompagno alla prima tavola calda e ordino due bistecche. Provano a chiedere altri soldi ma sono gli ultimi venti euro della mesata, si devono accontentare di un pasto caldo alla faccia del pendolare. È il marzo del 2020, di lì a pochi giorni lo spirito di Termini allenterà i suoi lacci sulla mia anima di purgante, e io passerò a vita nuova.      

Il mito familiare, comunque, propende per Fellini. Racconto questa storia di terza mano per cui è inevitabilmente romanzata e arrotondata nei dettagli, ma l’essenza credo sia vera e in ogni caso non m’importa verificare. Metà anni ottanta, una giovane signora entra nella carrozza della metro e un elegante gentiluomo che ne nota il pancione le lascia il posto a sedere. Quel gentiluomo probabilmente sta tornando in centro dopo una giornata trascorsa al teatro 5 di Cinecittà (forse per Ginger e Fred, con Masina e Mastroianni, che in effetti è del ’86?). Maschio o femmina, domanda il gentiluomo, femmina, risponde la signora, bhè, dice ancora lui, allora la chiami Giulietta! (Scopro solo adesso che in quel film Masina interpreta un personaggio che si chiama Amelia Bonetti: è lo stesso cognome di Giulia).