Storia delle prime volte (Voland, 2023) è la prima opera narrativa di Stiliana Milkova, accademica e studiosa di letteratura italiana. Sarebbe scontato e forse ingiusto soffermarsi, sorpresi, sulla padronanza della lingua italiana scelta dall’autrice – madrelingua bulgara che vive e lavora negli Stati Uniti – eppure è un pregio fondamentale dell’opera, che si propone, tra gli altri, di approfondire proprio il tema della lingua e della traduzione, in senso letterale e metaforico. Temi che richiamano un’altra opera recentemente pubblicata da un’autrice dal profilo (biografico, linguistico e professionale) simile a quello di Milkova, Translating Myself and Others (Princeton University Press, 2022) di Jhumpa Lahiri: una raccolta di saggi, recensioni e lezioni universitarie scritti o tradotti in italiano e inglese. Storia delle prime volte, però,non è un’opera teorica, non raccoglie saggi o scritti accademici, ma racconti. Che si tratti di narrativa o saggistica, insomma, l’urgenza di spiegare e rappresentare la vita di chi vive tra mondi e lingue diverse e che «cerca […] di esprimere l’inconscio, di frantumarsi e in seguito di ricostituirsi» (p. 20), sembra necessitare di una struttura che assecondi la sua frammentarietà. Proprio la frammentarietà dell’identità femminile, soprattutto se scrive e traduce, e i richiami (solo ipotizzabili nel caso finzionale di Milkova) alla soggettività autoriale e alla sua esperienza personale, sono altri elementi condivisi e che permettono un dialogo interessante tra Translating Myself and Others e Storia delle prime volte. Nei racconti di Milkova, infatti, personaggi (e sopratutto personagge) senza nomi (l’uomo allampanato, il filosofo, la madre, la ragazza…), che gravitano negli ambienti accademico, editoriale o culturale e che spesso tornano in racconti diversi, ragionano sul multilinguismo, sul vivere a cavallo di confini e culture diverse e sulla necessità e l’opportunità di tradurre sé stessi. L’acerbezza di quest’opera prima – comunque da promuovere e conoscere – sta forse, però, nella tendenza didascalica dell’autrice, che guida troppo insistentemente chi legge. Quando Milkova, ad esempio, insiste sulla natura maschile e mai universale dello sguardo promiscuo e dello spostarsi – facendone, quindi, una questione di genere – finisce per assumere uno stile didascalico che stride con l’impianto narrativo dell’opera scelto in partenza. La stessa impostazione didascalica rischia di scadere in determinismo tecnologico quando scatta la denuncia del selfie turistico a scapito dello sguardo genuino. Sono momenti in cui la storia si interrompe e gli inserti saggistici prendono il sopravvento anziché integrarsi alla narrazione. Alcuni incisi – «In quel momento, come in un lampo, lui capì l’argomento cruciale del capitolo: la rappresentazione della figura femminile» (p. 59); «a proposito mi torna in mente Tre volte all’alba di Baricco e il ruolo chiave dell’albergo: sito di incrocio e intreccio» (p. 75) – impediscono il concetto gardiniano di lacuna, rendono esplicito il non detto, mancando l’opportunità di «espande[re] il senso, portando la significazione oltre i limiti fisici delle parole scritte» (Gardini 2015, 32). Nonostante questo, l’opera è resa fluida dall’omogeneità dei temi e delle riflessioni, dalla coerenza stilistica e dal ricorrere di luoghi, personaggi ed elementi vari (il tango, i gatti, i mestieri, i libri…).

I concetti di lingua e spostamento/spaesamento sono anticipati in modo esplicito già nel paratesto del libro, costituito da una citazione di Ferrante che paragona le lingue a un veleno segreto contro il quale non esiste antidoto, una di Calvino che descrive l’estraneità come il non possedere un luogo, e una di Raos che afferma che lingua e postura si adattano l’una all’altra. L’epigrafe è dunque già una dichiarazione di poetica, oltre che un omaggio alla letteratura e all’accademia italiane (nell’arco dell’opera si citeranno ancora Calvino, Ferrante, Tabucchi, Baricco).  

Ambientati tra Italia e Stati Uniti, Paesi d’elezione dell’autrice, i personaggi e le loro storie sono plasmati dagli spazi abitati, che assurgono al ruolo di «atlant[i] metropolitan[i] di percorsi e personaggi» (p. 9). I luoghi, descritti minuziosamente, seguono i personaggi nel loro “vagabondare”, diventando fili conduttori delle loro vicende e collegandone i destini altrimenti sconnessi. Questo espediente letterario omaggia (se non riesce propriamente a inserirvisi) tutto un filone della letteratura italiana che va da Carlo Cassola (Ferrovia locale) a Francesco Pecoraro (Lo stradone): Telegraph Avenue, Providence, Torino, Venezia, Roma tentano, rimanendo però in bilico, di emergere come veri e propri personaggi nel testo. Gli abitanti di questi luoghi si incrociano, si incontrano, si sfiorano, per poi dividersi e rincontrarsi, senza che le redini sfuggano mai all’autrice. I personaggi prendono raramente la parola – il discorso diretto è quasi del tutto assente – ed è la voce narrante che invece dà spazio a voci, lingue e punti di vista diversi. Le personagge di Milkova infatti sono viaggiatrici, studiose o traduttrici che vivono in paesi stranieri, condizione di cui non viene mai messa in evidenza la difficoltà o la precarietà, quanto piuttosto la condizione privilegiata di avere uno sguardo «mobile, promiscuo» (p. 28) che permette di esperire il senso di spaesamento, «l’unico modo per sentirsi a casa», e di conoscere la realtà e sé stessi. Solo spostandosi infatti sembra possibile non «rimanere immutabili» o «pietrificarsi» (p. 35), diventare, invece, «spensierat[i] e scatenat[i], liberat[i] dalla coerenza obbligatoria di passato, presente e futuro, affrancat[i] da legami tradizionali e contesti sociali» (p. 90). Lo spostamento (e lo spaesamento) è quindi un’esperienza innanzitutto corporea, come corporea è l’esperienza linguistica. La conoscenza di un luogo o di una lingua viene trasmessa da corpo a corpo – «E la tua città com’è? Mi piacerebbe vederla attraverso i tuoi occhi, conoscerla attraverso il tuo corpo» (p. 84). Conoscere un luogo o una lingua significa conoscere anche chi lo abita e chi la parla. La traduzione, quindi, non può più essere solo mero esercizio intellettuale; è piuttosto parte integrante del processo conoscitivo e corporeo. Tradurre significa dare vita a un testo nuovo e a una nuova identità, partorire e partorirsi, conoscere un luogo fino a possederlo o diventarne parte integrante.


Stiliana Milkova, Storia delle prime volte, Voland, Roma, 2022, 15€, 112 pp.