Nelle arti è una regola non scritta: se ci si mette tanto a uscire con un progetto, allora è buono. C’è chi la tira lunga per questioni di marketing, e naturalmente non lo ammetterebbe mai. C’è chi viaggia sul filo del programmatico e costruisce un’identità sulle scansioni temporali, ed è anche per questo che portiamo una voragine nel petto, ora che i Daft Punk sono disuniti. Poi c’è chi macera, attende, e sa che alcuni tipi di vino sono più fini da invecchiati. L’esempio principe di questo occhio esperto, nel cinema italiano, è Michelangelo Frammartino. Il cui ultimo film, Il buco, Premio Speciale della Giuria alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 2021, è arrivato a undici anni di distanza da Le quattro volte e dopo una gestazione lunga e minuziosa, la cui scintilla si rintraccia, così afferma il regista, nel 2016.

La storia che anima Il buco comincia, a dire il vero, nel 1961, in un’Italia in pieno boom economico, dove il Nord imprime un distacco deciso al Sud e il Pirellone esegue le prime svettate su Milano dilungandosi verso l’alto, forse fino al cielo. Con moto ctonio e difforme, alla parte opposta dello Stivale, in provincia di Cosenza e a ridosso del confine tra Calabria e Basilicata, nel Parco Nazionale del Pollino, un gruppo di giovani speleologi si appresta invece a compiere un’impresa storica, e completamente gratuita: la discesa nell’Abisso del Bifurto, anche detto “Fossa del lupo”, 40esima grotta più profonda al mondo e, con i suoi 700 metri circa sotterranei, maggiore voragine del Meridione. Un procedere silenzioso e segreto, presentato da Frammartino con la visione oggettiva e quasi documentaria che ha animato anche i suoi lavori precedenti. «Per quanto non sarebbe corretto definire Il buco un documentario, perché si tratta comunque della messa in finzione di un fatto storico, è vero che Michelangelo [Frammartino, ndr] vi ha lavorato con assoluto rispetto e ascolto dell’ambiente circostante, tanto che il processo di scrittura era soprattutto di co-scrittura, e continuava anche durante le riprese. Il che è stato accompagnato anche dalle inquadrature dettate dalla regia, che mirano sempre a lasciare l’occhio dello spettatore libero di cercare il proprio punto di attenzione, invece che indirizzarlo».

La voce è quella di Simone Paolo Olivero, tecnico del suono delle Quattro volte e del Buco. Già candidato ai David di Donatello del 2011 per il lavoro svolto sul suono de Le quattro volte e vincitore del premio per il Miglior sonoro in presa diretta ai Nastri d’Argento (2011, con lo stesso film), Olivero è stato insignito, insieme ai compagni di squadra Paolo Benvenuti e Matteo Gaetani, del premio per Miglior Sonoro in presa diretta sia dai Nastri d’Argento 2022 che dai Ciak d’oro 2021. In aggiunta, il suono de Il buco ha ricevuto anche l’European Film Award 2022 per Best Sound, staccando una bella, e meritata, prima volta nella categoria per un film italiano. Ho incontrato Olivero, oggi docente della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti e direttore del reparto audio di Moovie Film Service Company (Milano) in occasione di una proiezione speciale de Il bucoorganizzata all’Anteo Palazzo del Cinema di Milano, dove il film è stato proiettato in sala Astra, equipaggiata di Dolby Atmos, per immersione massima e con uscita del suono anche dall’alto. Formato audio in cui il film è stato, peraltro, esplicitamente girato.

Simone Paolo Olivero, tecnico del suono de Il buco

«La scelta è stata quasi naturale, e per un motivo molto semplice: su un set tradizionale, il reparto che, come me, si occupa della gestione del sonoro ha soprattutto una preoccupazione: isolare i suoni principali, quelli narrativamente pertinenti, e pulire via tutti gli altri. Nel caso del Bifurto, abbiamo capito subito che, così facendo, avremmo abbassato la ricchezza dell’opera, perché questo film ha molti protagonisti, e la grotta è sicuramente uno di quelli. Così abbiamo registrato in ottica surround, ovvero non ci siamo concentrati su una sola linea sonora, una sola direzione di provenienza, per così dire. Invece abbiamo lavorato a più microfoni, coprendo le emissioni di tutto l’ambiente. Questo ha reso il suono veramente protagonista. Tanto che le voci degli umani presenti nelle riprese sono inessenziali, e praticamente unscripted. Si sentono, ma non si distinguono. Fanno parte dell’ambiente».

Chi ha visto Il buco, lo sa: la sua fenomenologia è magmatica, e sono i sensi a trainare il pubblico lungo il viaggio verso le viscere della terra. Un percorso che, per gran parte del film, si riesce a vivere come se si stesse strisciando nei cunicoli a fianco degli esploratori. E, nel fare questo, pone la sfida più alta possibile per lo spettatore di cinema: schiaccia ambiziosamente la latenza tra tempo della vita e tempo dell’opera, così cara ad Alfred Hitchcock, il quale, famosamente, la indicò come caratteristica precipua della settima arte. Perché, secondo il regista inglese, “il cinema è la vita senza le parti noiose”. Il tempo-vuoto, nel cinema di impostazione aurea, non esiste. Tanto che, spesso, le distinzioni di canone tra “cinema d’arte” e “d’autore”, da una parte, e “di intrattenimento”, dall’altra, avvengono sulla base della dilatazione del tempo della finzione. Per questo i vostri amici vi dicono che non riescono a guardare quel film perché “è troppo lento”: assomiglia troppo alla noia della vita, che non passa mai. Per questo l’accademia ha codificato una “scuola della lentezza”, che comprende, per esempio, Lav Diaz e Béla Tarr, e in cui anche il cinema di Frammartino si inserirebbe senza frizioni. Ma, non vi preoccupate: Il buco, la scommessa, la sostiene alla grande. E combina soluzioni raffinate, da esperti artigiani del mestiere, per cucire un flusso che fluisce al ritmo del cuore di chi guarda. La connessione è, prima di tutto, di pancia. Si sente di essere fatti della stessa materia del Bifurto, e che quella discesa ci sta parlando, soprattutto, di noi.

Continua Olivero: «Le riprese sono durate mesi, e ogni giorno la routine di discesa e risalita durava ore. Sono delle condizioni estremamente sfidanti. Innanzitutto, molto banalmente, per una questione fisiologica all’organismo umano, e che riguarda la reazione di sudorazione agli sbalzi di temperatura. Quando abbiamo girato noi, la stagione permetteva tra i 12 e i 14 gradi all’interno della grotta, quindi bisognava stare molto attenti a non accumulare stanchezza e a conoscere a menadito la propria regolazione termica. Un’altra sfida era l’umidità della grotta, che, per i microfoni, è un grosso problema. Lì l’essere un po’ artigiani viene sempre comodo. Abbiamo costruito un sistema di cablaggio apposito, per assicurare la corretta tenuta dei microfoni e della strumentazione e, allo stesso tempo, riuscire a trasmettere suono e immagini in tempo reale in superficie come su qualunque set. Devi imparare a ridurre l’equipaggiamento al minimo e a sfruttarlo al massimo, prendendoti cura non solo degli strumenti, ma anche dell’ambiente che ti circonda». E Olivero, che ha esperienza di agricoltura e ha mosso i primi passi nel mondo del suono da autodidatta, sa bene di che cosa parla. È una sfida che arricchisce, professionalmente e umanamente. «Lavorare a Il buco mi ha aperto lo sguardo su una dimensione del nostro pianeta, e quindi della vita sulla Terra, su cui di solito soprassediamo completamente: il sottosuolo. Che è vivo, ha i suoi ritmi e le sue esigenze tanto quanto la superficie. E che, anzi, si compenetra perfettamente con la superficie, da cui noi vediamo solo le punte degli iceberg del nostro pianeta, per esempio le montagne. Pensiamo ai flussi d’aria: la presenza di grotte e di aperture verso il centro della Terra è fondamentale per le correnti di superficie. Ma anche solo a livello più filosofico diciamo, mettersi a pensare a tutto lo spazio che sta sotto i nostri piedi ti porta a un cambiamento di paradigma. Sono vuoti che viaggiano a velocità diverse dalle nostre. La sfida è contro te stesso prima che con la natura. Devi affrontare paure e incertezze, come il trovarsi sospesi su un nulla di 40 metri con l’attrezzatura per girare, attaccati solo alla corda dell’imbragatura. E poi, capisci che il valore che diamo al tempo è relativo, e spesso sbagliato. Mi spiego: dopo le riprese, ho smesso di incazzarmi se rimango incolonnato in macchina. Penso al presente, a come renderlo pieno e viverlo al meglio. Il futuro, tanto, arriva sempre».

Un approccio virtuoso, e fertile, che ha unito grandi professionisti a una visione registica lucida e attenta. Fondamentale, poi, anche la presenza sul set – e prima, in allenamento – di speleologi esperti, che, sottolinea Olivero, «sono abituati ad allenare anche gli astronauti». Wow. Ma in che senso? «Le grotte e l’Antartide sono due ottimi ambienti per replicare le condizioni di vita all’interno di una navicella spaziale. Quindi ecco, sapere di essere nelle mani di tal genere di professionisti era molto confortante anche in mezzo alle difficoltà. E infatti non abbiamo mai avuto delle situazioni di pericolo. Solo impegno e grande lavoro di squadra». Ma allora qual è stato il momento più difficile di tutto il processo? «C’entra sempre con il suono in presa diretta credo, almeno dal mio punto di vista. Praticamente, il modo in cui stavamo usando i microfoni era precisissimo ma, proprio per questo, incredibilmente suscettibile, nel senso che non poteva mancare un suono. E, per la post-produzione, sarebbe stato un problema, una sporcatura incorreggibile. Finché eravamo in grotta non era un problema, nessuno emetteva rumori accessori. Diverso è stato quando siamo passati alle riprese in esterna. Lì ci abbiamo messo qualche giorno a far capire alla troupe che avevamo bisogno della collaborazione di tutti, che la nostra non era puntigliosità da fonici, diciamo. Per fortuna, anche in quel caso, lo spirito di squadra ha prevalso. Tutto questo film è stato una gigantesca operazione collettiva, ci siamo mossi come un organismo. Il che può suonare paradossale, visto che spesso il percorso all’interno della grotta, soprattutto quando si tratta di percorrere tratti verticali ed in genere su corda, è affrontato in solitaria. È stata un’esperienza ricca, unica, e arricchente».

L’invito è, dunque, di recuperare Il buco, se non l’avete ancora visto. E di stare sintonizzati sulle prossime avventure di Simone Olivero, che sono, per ora, top secret. Però è in partenza per Stromboli, questo si può dire. Da una grotta al vulcano: promette bene. Ah, un’ultima aggiunta, completamente di chi scrive: se conoscete qualcuno che ha votato ai David di Donatello, chiedetegli perché, secondo loro, Il buco non è finito nella cinquina del 2022. Per noi è davvero inspiegabile.