Esther Kinsky l’ha rifatto. Dopo Macchia e Sul fiume ci ha portato un nuovo, misterioso romanzo, a metà tra finzione e documentario, poesia e linguaggio scientifico. S’intitola Rombo, come il rullare acido dal fondo della terra che sconvolse le vite di una regione e si impresse a cicatrice nella memoria degli abitanti in un giorno del maggio 1976. Sei del mese, per la precisione, e una scala Richter di 6,5. Il terremoto è quello del Friuli, ma in lingua locale il nome rende meglio: Orcolat, “Orcaccio”. Un primo, fondamentale tentativo di riportare le movenze della natura nell’alveo dell’umano. Di trovare, insomma, una lingua comune tra uomo e natura, per instaurare un dialogo e rendere conto della propria storia congiunta, insieme.

Rombo ha diverse sezioni, e sette voci del ricordo. Un alternarsi sulla pagina che compone moti di memoria, geologica e umana. E, tassello dopo tassello, scava nella verità percepita – o meglio, nelle diverse verità – di un trauma collettivo. Natura, canti, danze, leggende, ricordi: il terremoto è stato tutto questo. E, finché la sua presenza vivrà, sarà per sempre.

Vincitore del Premio Kleist, candidato al Deutscher Buchpreis e al Premio Strega Europeo 2023Rombo è stato presente, con la sua autrice, allo scorso Salone Internazionale del Libro di Torino. Dove li abbiamo intercettati, per indagare a nostra volta e impilare i pezzi, uno sopra l’altro. Anche se, a ben dire, Kinsky è decisamente pratica degli ambienti italiani. Mi accoglie con un sorriso limpido e una sonora stretta di mano. È felice di essere a Torino perché, mi confessa, è il salone del libro più bello, e gentile, in cui le sia capitato di passare. Gran parte del resto dell’anno, però, l’autrice e traduttrice tedesca lo passa nella sua casa in Friuli. Una vecchia casa rustica sulle colline, dal sapore mitteleuropeo (mi dice che è un tiro di schioppo da lì a Vienna, dov’è basata), in una zona nevralgica per gli scambi con il primo Est del Vecchio Continente: i Paesi di area slava.

«Stavo cercando una casa in Italia, e sono arrivata nel Friuli seguendo le orme di uno degli autori che amo di più, Pier Paolo Pasolini. Volevo comprendere quell’ambiente, respirarlo. Naturalmente, quando sono arrivata nella zona sapevo del terremoto del 1976 – quando è accaduto mi pare fossi in Canada, e ogni esercente di radici italiane, persino Oltreoceano, aveva avviato una raccolta fondi per aiutare i connazionali. Quello che non sapevo, e che non potevo immaginare, era il grado di permanenza della tragedia nella mente e nella vita degli abitanti del posto. Era ben oltre la semplice “influenza naturale”, se così possiamo dire. Allo stesso tempo, ero felice di aver trovato una casa in Friuli proprio per la natura ibrida, e di confine, delle sue popolazioni, che riverbera in ogni aspetto della loro cultura: lingua, leggende, tradizioni, musica, danze, … E allora ho capito che ne volevo scrivere».

Kinsky sottolinea molto bene un aspetto, che occupa un posto di tutto rilievo in Rombo: a lei interessano le persone. Le interessa osservarle con la distanza rispettosa, ma partecipe, di un’antropologa. Arrivare a innamorarsi un po’ di loro, in senso lato. Mi cita il suo amato Pasolini, che qui parafraso: “per capire la gente, bisogna amarla”.

«Quando sono arrivata in Friuli, mi sono messa ad ascoltare. Ascoltavo le storie dei singoli, distillavo le loro voci. Intanto, studiavo. Il linguaggio scientifico mi affascina molto, specie quello del tedesco. È del tutto particolare, in quanto i suoi vocaboli non hanno avuto, come invece è avvenuto per l’inglese, influenze latine, ma si sono sviluppati all’interno del tedesco nel corso dell’Ottocento. Questo ha fatto sì che nascessero parole meravigliose, poetiche in un certo senso. Che hanno un corpo e un suono che parla di quella linea sottile tra scienza e poesia che gli Antichi conoscevano tanto bene. Ed è un tentativo di comprensione, forse di traduzione, che mi affascina. È il corpo della dialettica tra esseri umani e natura: condividere gli stessi spazi, ma non essere in grado di capirsi. Così io, per Rombo, imparavo dalle persone e dalla natura. E così ho creato i miei personaggi, sette voci umane accompagnate da un commento sui fatti naturali e geologici».

L’operazione assomiglia a ciò che fece Truman Capote con A sangue freddo: constatare uno stato di cose, indagare l’ambiente che lo sottende. Senza mai passare dalla parte dell’osservato. Forse, questo, è il nocciolo del metodo scientifico.

«Per me, questa distanza è fondamentale», continua Kinsky, «e cioè quella tra l’occhio, poi la voce, che guarda e che scrive, e il soggetto di osservazione. È uno iato misterioso, ed è il regno della lingua. Posso dire che Rombo sia nato proprio a partire da questa metodologia, questo è il mio processo poetico. E cercare di trovare parole per l’inesprimibile o l’incomprensibile al linguaggio, sempre».

A questo punto, io non posso che pensare che Rombo sia un’opera di traduzione, o meglio, di doppia traduzione: prima dal linguaggio della natura a quello umano, e poi da queste testimonianza alla lingua della letteratura. Un’operazione resa ancora più intrigante, e perfettamente calibrata nella struttura finale del libro, in quanto i testimoni dell’Orcolat dimostrano, in un certo verso, di aver perso i termini per descrivere l’accaduto. Ripetono: “Non lo so più”, inteso, com’è andata. Non lo so più, perché la memoria vacilla, perde contatto con i sensi che l’hanno formata, con buona pace della Madeleine di Proust che tutto svela. Per di qua, si va nella selva delle verità parziali. La prima lettura può essere, ancora una volta, legata alla poesia dell’opera letteraria. Eppure, a ben pensarci, non sta forse avvenendo la stessa cosa, ma con eventi storici anteriori? Testimoni di guerre mondiali, di eventi rivoluzionari nel bene e nel male. Come ombre stanno svanendo, e una parte di noi con loro. A portare i segni di cosa siamo stati sarà solo la natura.

Le scosse sismiche di maggio divisero la vita e il paesaggio in un prima e un poi. Il prima divenne oggetto di ricordi, racconti, di un incessante stratificare e spazzare via le parole. La gente litigava sulla forma delle rocce, il corso dei torrenti, gli alberi travolti dalle frane. Sulla collocazione degli oggetti, la loro disposizione in casa, la sorte degli animali. Ciascuno di quei litigi era un tentativo di orientarsi, di aprirsi una via tra i calcinacci dei muri, la malta, le travi spezzate e le stoviglie rotte, per poter ricominciare a capire il mondo. Per riprendere ad abitare in un luogo. Con il ricordo.

Rombo, pp.163

Leggendo Rombo, tornano alla mente le pagine leopardiane delle Operette morali, “Dialogo della natura e di un islandese”, ispirate al terremoto per eccellenza dell’età dei lumi: Lisbona, 1755, Richter 8,5-8,7. E l’auto-apologia che la natura performa per ribattere ai quesiti accorati, disperati, del tapino: è inutile che tu cerchi risposta alla mia azione. Per me un terremoto (parafraso) è solo un terremoto. Con le tue parole, le tue categorie morali, non posso dialogare. Allora, la perizia di Leopardi era, anche, instaurare un flusso fluido tra entità remotissime. In altre parole, riuscire nell’impresa di superbia degli umani, imporre la propria voce sul “mutismo” naturale. Il dialogo, nel suo caso, volgeva a sfavore dell’islandese e della sua specie tutta, che si sarebbe dovuta rassegnare a convivere con forze maggiori, a volte distruttive. L’operazione poetica di Kinsky, invece, viaggia all’insegna dell’inabilità comunicativa, spesso, e in primo luogo, con se stessi. Non c’è alcun dialogo tra la natura e le vittime del terremoto, escluse dalla possibilità di colloquio. Così la natura, anche per l’autrice tedesca, vince in partenza. Mi chiedo (e chiedo all’autrice): c’è forse un angolo di lettura ecologista, di una natura che si ribella, in questo impianto?

«È certamente possibile. La mia prospettiva è però, innanzitutto, anticapitalista, e ogni eventuale lettura ecologista deve passare, per me, attraverso quel primo cancello. Per un motivo molto semplice: è anche a causa dell’idea di profitto eterno e illimitato del capitalismo che abbiamo iniziato a sfruttare indiscriminatamente la natura. È a causa delle diseguaglianze provocate dal sistema capitalista che la popolazione ha cominciato a patire come mai prima, e a cercare, a sua volta, stratagemmi per prevaricare e far soffrire gli altri. Questa è una componente fondamentale nella mia motivazione a stare vicino alle persone, ad ascoltare e, come dicevamo prima, ad amarle. Voglio che il mio processo poetico sia democratico».

Un’ultima nota da cui non posso esimermi: l’opera di Kinsky viene infatti, spesso, paragonata a quella di W.G. Sebald. Per il rapporto in cui entrambi posizionano l’umano e il paesaggio, il naturale. Per la passione comune per la passeggiata, e per l’esplorazione. Però, è anche vero che la critica viaggia su binari suoi. Allora lo chiedo direttamente a Kinsky.

«Il paragone diretto tra la mia opera e quella di Sebald mi ha sempre lasciato interdetta, o anche affascinata, in un certo senso. Questo perché mi sembra un paragone molto ozioso, e superficiale. Io non credo affatto che la mia opera sia “simile” a quella di Sebald. Certo, parliamo entrambi di umano e natura, ma chi non lo fa? Inoltre, la mia prospettiva si rivolge appunto sul singolo, mentre Sebald era interessato a esplorare le connessioni tra le culture. C’è anche un fatto linguistico: la mia lingua è molto diversa da quella di Sebald, ma capisco che, se qualcuno dovesse leggere in traduzione, magari questa differenza si perderebbe».

PS di chi scrive: proprio al Salone Internazionale del Libro di Torino, il Premio Strega Europeo è stato assegnato a V13 di Emmanuel Carrère. Che è un po’ la situazione di quando CODA ha trionfato agli Oscar. Ebbene: ci dispiace, noi si tifava per Rombo.


Esther Kinsky, Rombo (trad. Silvia Albesano), Milano, Iperborea, 2023; 288pp., 18,00euro.