Di fronte all’ultimo lavoro di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021), è difficile allontanare lo spettro dei suoi settant’anni – e, per estensione, quello del monumento poetico che ormai sovrasta ogni possibile lettura critica dall’altezza di una canonizzazione imminente quando non già avvenuta. Ma è ancora più difficile liberarsi di alcune voci che dal passato chiedono insistentemente di esservi accostate come possibili antefatti. 

La voce in questione è quella di Giovanni Raboni – che nel 1971 si trovava a dissentire con la maggior parte della critica montaliana negando a Satura il titolo di «quarto tempo» poetico. Cedendo alle ragioni di un altro sé stesso (il suo personaggio pubblico di elzevirista del Corriere della sera) e procedendo quindi a liquidare il poeta che era stato, Montale non avrebbe così solo reso fede a quanto già La bufera (1956) lasciava avvertire nella frizione tra lirico-tragico e basso-comico, tra l’ipotesi ancora «metafisica» dei correlativi oggettuali e il loro rivelarsi «escrementi» o «deiezioni»; ma, compiendo un doloroso miracolo, avrebbe inventato dai resti di sé stesso un nuovo poeta

A un primo sguardo, queste parole non sembrerebbero valere per il «nono tempo» di De Angelis. Linea intera, linea spezzata, in effetti, procede a portare alle sue coerenti conseguenze l’intrico di innesti formali e stilistici avvistati come barlumi nelle raccolte successive a Somiglianze (1976) Millimetri (1983). Un elenco, forzatamente parziale, includerebbe:

1. la progressiva aggiunta di «contrappesi terrestri» a bilanciare la ricerca dell’assolutezza lirica spesso oracolare delle prime due raccolte (Terra del viso, 1985); 2. l’invasione di campo del verso lungo e del fantasma della «prosa» (Distante un padre, 1989); 3. la reintegrazione di Milano in un «davanti» della pronuncia, e in definitiva la scissione di poeta e città in due entità distinte (Biografia sommaria, 1999); 4. la sempre più integrale sussunzione nel tema funebre del momento erotico, atletico, voyeuristico, e in generale di ognuno degli attimi esemplari sottratti al divenire e consegnati, su un livello più profondo, a una «storia» rabonianamente intesa come «comunione dei vivi e dei morti» (Tema dell’addio, 2005); 5. la progressiva centralità dell’incontro e dell’interrogazione di queste care ombre (Quell’andarsene nel buio dei cortili, 2010); 6. e un’effettiva presa di parola, da parte loro come anche del convitato di pietra dei testi: la morte, sotto la cui scure ogni voce ritrova la precisa persona verbale che la esprima (Incontri e agguati, 2015).

A questa tavolozza, ora si aggiunge una decisa ‘aria da romanzo’, avvertibile sia nel succedersi delle quattro sezioni che compongono il libro, sia all’interno di ciascuna di esse; e una sempre più incontestabile inclusività del reale.

Qui tutto diventa veloce, troppo veloce
la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia
che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura.
Senti i tuoi passi in migrazione, 
vuoi rallentare, hai paura
e allora entri in questa sala di via Cadamosto,
saluti gli ultimi giocatori di biliardo,
pronunci lentamente un commento preciso sulle sponde
o sull’angolo di entrata, fai una piccola scommessa
e sorridi e ti acquieta il panno verde
come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi
di legno che ora contengono il tuo evento
e la forza centripeta che conduce l’universo
in un solo punto illuminato.

Sala Venezia (p. 10) è un ottimo saggio della sedimentazione e delle nuove direzioni impartite ai diversi elementi compositivi di cui sopra. Il tema ha un precedente nel quarto momento di Linn, l’avvicinamento (Distante un padre, ora in Tutte le poesie, 2018, p. 235):

Basta un’edicola aperta e ogni passo
diventa veloce, davvero veloce: se lo fermo, 
la strada si avvicina, sparge essenza astratta, una cinepresa 
che moltiplica porte e scale mobili, mi incalza, mi lascia. 
[…] Oppure è il salone
di Via Padova, gli ultimi giocatori di biliardo, come una
sfera nel percorso ci tiene il respiro: scambiare
un commento esatto, non oltrepassare la sostanza di legno, il panno
di tutti noi, questo bene che mi accerchia.

A partire da pochi discrimini, il significato complessivo muta di segno l’intera citazione. È come se la «cinepresa» non fosse stata espunta dal componimento più recente, bensì ne fosse divenuta lo sguardo; implicando cioè non solo una maggiore selezione, ma anche un’apparente perdita del controllo soggettivo sul dettato. Con più di un sospetto che questo tu semovente simboleggi in realtà l’acquisizione di una maggiore, sovraordinata soggettività.

Ogni «essenza astratta» è rinviata ai margini della rappresentazione; e su ogni ipotesi si impone adesso una sequenza narrativa oggettivante e inarrestabile. Ne consegue la «paura», alla quale contribuisce uno stile ossessivamente paratattico – le “e” copulative, gli “allora” sospesi tra avverbio e congiunzione, le virgole che sgranano le coordinate come inquadrature minime. 

Eppure, per un movimento quasi contrario, tra i dettagli reali intenzionati si stagliano ora deittici assoluti (in questo caso il «qui» e il «tutto» che subentrano all’«edicola aperta»); e l’autocommento di questi nuovi versi ai precedenti spesso si risolve nell’esplicitazione di una poetica che si vuole intonsa: quella che Paolo Zublena ha chiamato «ontologia del quotidiano in senso blanchotiano», «diario delle cose che offre i nudi dati restituendoli a un primario stupore» (Parola plurale, 2005, p. 176). 

Tutto questo consente inoltre di misurare tutta la prossimità e la distanza tra la seconda persona verbale di questi ultimi componimenti e lo spettro dell’io, che nel corso delle prime due sezioni di Linea intera… produce interferenze su lunghezze d’onda non rilevabili. In effetti, questo ‘romanzo’ non mette semplicemente in scena l’io nei modi del tu, ma racconta innanzitutto la storia dell’incontro (per appostamenti e avvistamenti progressivi) tra questo personaggio, la voce dalla quale è pronunciato e gli interlocutori a cui rivolgersi: tre macro-entità inizialmente confuse nel medesimo tu sovraindividuale.

Illusoriamente conseguita sul finire della prima eponima sezione – quando, cioè, tra Intra (pp. 27-28) e Piazza Cavalleggeri 2 (pp. 29-30), si esplicitano (e subito dileguano) i tu amorosi e amicali e le forme verbali dell’io –, la prima persona si dilegua nuovamente. La seconda sezione del libro, ‘Nove tappe del viaggio notturno’, riproduce quindi quasi specularmente e in termini più dichiaratamente onirici quanto prima si era giocato nel mondo di una veglia.

Ne scaturisce una serie ordinata e numerata di testi, fatta di conseguenze a scelte ripercorse ex post in un cammino che corteggia tanto più pericolosamente spazialità onirico-ermetiche quanto più mostra il rovescio di una insindacabile precisione referenziale.

La schiera di animali-simbolo qui convocati si specchia nelle «risaie della Barona», nelle «acque che circondano Milano» (p. 38); lo straniamento di ogni azione minima («hai guardato i quattro punti cardinali», p. 33; «sei entrato in un’immensa maratona», p. 36) mostra il filo tenace di una memoria che, sotto l’imperativo di «ricordare tutto» ed «esattamente», ripercorre il cammino «dall’inizio più remoto a questo pianoforte» (p. 37) per giungere infine, nell’Ultima tappa (p. 42), di fronte al precipizio della morte:

Ma tu sei vissuta veramente, Giada, ala sinistra
del diavolo, tu che ogni domenica
sulla panchina di legno ridevi in piena luce
con la maglietta rossonera? E voi, compagni
di una scuola vicina all’ultima stazione, quando
siete scesi, quando siete 
scesi nel bianco precipizio?

È proprio l’interrogazione di questo «voi» e il corteggiamento del «bianco precipizio» della liminarità – la malattia, la vecchiaia, la prigionia, la morte più o meno autoprocurata – a inquadrare le seconde due sezioni, ‘Dialoghi con le ore contate’ e ‘Aurora con rasoio’. Entrambe condotte nei modi e nelle forme di una riconquistata prima persona, queste ultime si distinguono tuttavia per il movimento, speculare alle prime, di disancoramento della persona poetica dalla persona del poeta

Questo io, recuperato al costo di una dolorosa presa di coscienza – che cioè il tempo esiste veramente, in qualche forma – percorre di nuovo i luoghi di una geografia affettiva in quella che non è più la sosta esemplare di una catabasi o un’anabasi, ma l’aggirarsi senza fine in una città purgatoriale, avvolta nella penombra dell’antico Ade, dove i volti che si incontrano si credono ancora semplicemente smarriti. 

È qui che si giustifica l’incedere semi-automatico e seriale che genera i componimenti («Dopo il check-in, mentre chiudevo la borsa», p. 55; «Al Parco delle cave, tra sterpaglie e laghetti», p. 56; «Davanti alla porta girevole, in un profumo di caffè», p. 59; e l’elenco potrebbe proseguire). Nel suo essere, cioè, non tanto disvelamento progressivo di un senso ma modulazione di una verità già data e che vi si riverbera. 

Questi luoghi ‘generatori’ di situazioni, uniti alla tendenza all’iterazione delle poesie – proiezione, certo, del confondersi di passato e presente, ma anche incanto di uno stile che dissimula l’insistenza sulla funzione “fatica” di un linguaggio che nomina ciò su cui ha sempre meno presa – contribuiscono a un clima ‘morale’ massimamente sereniano.

Il debole ma insistente riverbero del dilemma politico («da che parte stai da che parte stai?», Dialogo con il compagno) non può che rimandare al ringhio accusatore degli Strumenti umani («“Hai tu fatto […] la tua scelta ideologica?”», Un sogno). Ma se in Sereni «la rissa dura ancora», per De Angelis si tratta piuttosto di smarcarsene, con la grazia conferitagli dalla consapevolezza dell’ineluttabile («e io adesso | sto soltanto dalla parte del tuo bel viso | sbranato dalle rughe»). 

Questo dato ci riporta a quello che su Terra del viso ebbe a dire il suo rinnegato maestro Franco Fortini: «questi versi», ora come allora e indifferenti al mutare delle forme, «se ne stanno ostili come scacchi a partita giocata»; e ci suggeriscono una lettura etica di loro stessi, laddove il loro autore tende a forzarne la direzione verso l’estetica. 

Ma la voce di Fortini ci rammenta nuovamente quella di Raboni, e il fantasma della Satura montaliana che aleggia su questi versi:

Nel traffico dei carrelli, vicino alla cassa, appare
– come un superstite tremante, come una figura 
devastata da se stessa – il poeta che fu bello e giovanissimo,
il ragazzo dai versi secchi, brevi e tassativi, il poeta
travolto poi da un gioco di frecce avvelenate
che ora si conficcano nel viso:
cerco invano uno spiraglio adolescente e resto fermo,
perduto nelle linee del suo quaderno,
singhiozzi spezzati che non varcarono l’età.

Con l’ora delle grandi piogge arrivano gli altri
ed è giusto ritrovarli qui, tutti insieme,
nel garage delle voci tarlate
dove si aggirano corpi, orme e pezzi di nulla
ruotano le colonne e l’inchiostro ammuffisce
sul pavimento. Silenzio. Giungono in silenzio,
come una pattuglia di risvegliati, 
con la pece nella mano e le uova di luce scossa.

Un twist accennato da Daniele Limonta.
E poi Guido, il taciturno dei corridoi.
E Stefanella, ancora lei, mi chiama per nome:
“nessuno saprà, amico mio,
di quell’antica corsa, nove netti sugli ottanta,
di’ una parola per noi, non restare
muto anche tu.”

Il cuore ferito del libro sta forse qui, poco dopo la sua metà, in quello che ci appare – trasfigurato dalla terza persona come un arcano maggiore dei tarocchi – un commovente e impietoso autoritratto del poeta da giovane; nonché una polemica mise-en-abyme dell’intera raccolta. E in effetti, le baudelairiane «frecce avvelenate» sono al contempo i traits del viso su cui si conficcano e (con incredibile capacità sintetica) le «linee» «spezzate» del suo quaderno. 

Il titolo di questo componimento (Esselunga, pp. 68-69) non è che un frammento nella costellazione di nomi – propri o comuni, di cosa, luogo o persona – che fa da sfondo silenzioso alla raccolta, e chiede di essere letta come sua parte integrante. Sempre brandite contro un’attualità che banalizza e rimuove i dati storici, quotidianità e ontologia giungono al punto di rottura, riconoscendosi entrambe eredi di coloro che promossero quella rimozione, sostituita con i temi «eterni» dell’origine, del male e dell’esistenza privata.

Che il «viso» travolto sia quello del De Angelis ‘istituzionale’? e, per estensione, di coloro che, erigendone il monumento come alla poesia più pura e assoluta e considerandone sostanzialmente risolta per sempre la questione critica, accettano e insieme censurano i nomi storici dei rivolgimenti entro cui si è data e continua a darsi?

Questo ci ricorda una volta di più (con Raboni) che «si è quei poeti solo nel punto, momentaneo anche per estensione, in cui l’angolo di personale pronunciabilità del reale […] si sovrappone senza scarti alla porzione di realtà che la forza o la vulnerabilità di un esistere porta a soffrire»; e che, conseguentemente, nella più pedissequa fedeltà ai problemi e ai temi di sempre, sembra aggirarsi in Linea intera… lo spettro di un altro De Angelis

«Se qualcosa può continuare all’infinito e passare da una puntata all’altra, allora entriamo nel territorio della chiacchiera». Sono parole di De Angelis stesso, che ora ci appaiono rivelatorie in quanto sembrano davvero sottintendere polemicamente il carattere strutturale di questi componimenti entro un gioco potenzialmente ricorsivo. «“Di’ una parola per noi”» non sembra ora tanto l’invocazione-giustificazione che impone al poeta una materia; ma l’ingiunzione di una «pattuglia» quasi sbirresca a ripetere il proprio personale ritornello. 

È forse per questo che, sulla scorta di un Cesare Pavese avvistato da lontano mentre si aggira in silenzio per il Parco Nord (la poesia Mercoledì), l’ultima sezione, ‘Aurora con rasoio’, si fa parola dei suicidi, più o meno virgolettata. Ne è già stata sottolineata la natura di suite autonoma e insieme auto-conclusiva, dove ripescare ancora e sottotraccia alcune serpeggianti tematiche di sempre, e come sempre semoventi tra l’estrema contingenza storico-generazionale e uno ‘sgomento del senzafondo’ di fronte a questo «male senza origine»: dall’eroina di Brown Sugar (p. 78) C21 H23 NO5 (p. 81) alla severa «religione della morte» convergente nell’Ora più o meno Inestesa (p. 79) Improtetta (p. 80) – che fa sovvenire del Furio Jesi critico, appunto, di Cesare Pavese. 

Oltre la crosta della suite, però, i componimenti sembrano tessere per immagini una forma di intimo legame col resto del libro: ed è ancora legato alla questione della voce poetica. Quale ultima coerente mossa del giocatore tragicamente dedito a evitare lo stallo e la patta, questo io riconquistato integralmente al prezzo della «chiacchiera» e del giro a vuoto viene integralmente devoluto a chi non ha voce o la vita o la salute o la libertà, in un atto di estrema generosità che corrisponde all’apice ‘politico’ del libro.  

Da questo parzialissimo censimento, si direbbe che al movimento generale della poesia di De Angelis si sia davvero aggiunto un tempo – che descrive ancora più compiutamente il transito da una pronuncia totale delle cose verso il clinamen al di là del quale contemplare la singolarità di ogni frammento.

Ma qui al centro della metafora non è tanto l’atomismo lucreziano – che pure il poeta aveva magistralmente affrontato nei frammenti di Sotto la scure silenziosa (2002) – bensì l’i ching, «libro dei mutamenti» taoista-confuciano, che forniva a scopo divinatorio il significato degli accostamenti di linee intere e linee spezzate in trigrammi ed esagrammi generati casualmente. Eppure, quello che riluce ora è quanto di comune vi è tra queste due tradizioni: l’ambizione atomico-alchemica (sempre delusa) di descrivere «la natura delle cose».