Tra l’11 e il 19 marzo si è svolta a Bergamo la 41esima edizione del Bergamo Film Meeting, storico appuntamento per gli appassionati della settima arte e, quest’anno, parte del palinsesto culturale Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023. Tre sezioni in concorso – “Mostra Concorso” per lungometraggi di finzione, “Visti da Vicino” per documentari, “Europe, Now!” dedicata al cinema europeo contemporaneo –, due personali complete (della regista franco-svizzera Ursula Meier e del regista belga Jaco Van Dormael), una retrospettiva completa dell’opera della regista di animazione Michaela Pavlátová, un omaggio alla cineasta Kira Muratova, un Kino club dedicato ai più piccoli, e Prospettiva Olmi, dedicata a omaggiare il grande regista, di casa a Bergamo (e molto altro, per un totale di 150 film).

Immagini ufficiali del Bergamo Film Meeting 2023

Noi ci siamo stati, e ve la raccontiamo attraverso chiacchiere e curiosità con due protagonisti: Gentian Koçi, regista e sceneggiatore di A Cup of Coffee and New Shoes On – vincitore del Premio per la Miglior regia – e Davide Palella, regista e sceneggiatore del corto Sonnenstube, proposto in programmazione come parte della selezione della quarta edizione del Premio Ermanno Olmi, assegnato a fine 2022.

Il trailer internazionale di A Cup of Coffee and New Shoes On

Prodotto e girato tra Albania, Portogallo, Grecia e Kosovo (ma ambientato nella Tirana contemporanea), A Cup of Coffee and New Shoes On è ispirato a una storia vera e racconta un momento cruciale nelle vite di due gemelli sordomuti, Agim e Gëzim, interpretati dai gemelli monozigoti Edgar e Rafael Morais. I due hanno un legame fortissimo, sono indipendenti nella quotidianità, e creano un’unità al limite del simbiotico con la fidanzata di Gëzim, Ana (Drita Kabashi). Il loro mondo è lento, ovattato, eppure gioioso, come testimonia il loro rituale preferito: il caffè del mattino, servito con un’abbondante colazione al tavolo assolato della cucina, di fianco a una finestra che si fa punto di scambio e passaggio tra l’esterno di certe regole, e l’interno di altre. Un rapporto che i gemelli hanno sempre bilanciato con grande maestria, ricavandosi spazi in ogni angolo della società. Ma una strana miopia di Agim fa cambiare le cose per sempre. A seguito di un repentino peggioramento del difetto visivo, infatti, i due si recano da un ottico, e la sentenza non tarda ad arrivare: i fratelli sono portatori di una combinazione genetica rarissima, che li porterà, nel giro di non molto tempo, a diventare completamente ciechi.

Gentian Koçi descrive così il processo di genesi del film: «la storia di Agim e Gëzim è nata grazie all’aiuto di mia moglie Blerina Hankollari, tra l’altro tra i produttori del film, che svolge attività di ricerca nel campo della Filosofia. Era il 2016, ed era a una conferenza scientifica in Belgio. Lì incontrò un medico che le raccontò la storia di questa coppia di gemelli che aveva seguito, sordomuti e affetti dalla rara mutazione genetica che presentano Agim e Gëzim. Appena mi ha riferito tutto, ho capito che l’avrei voluta trasformare in un film».

Una sfida lunga cinque anni (i primi lavori su storia e soggetto risalgono al 2018), che ha portato Koçi a confrontarsi con un modo inedito del fare cinema. Perché la settima arte è sensoriale non solo per lo spettatore, ma anche per regista, crew e attori. Un processo che assomma immagini al suono, alle voci, alla gestualità, al movimento, Babilonia per i sensi. La storia dei gemelli, al contrario, richiedeva una realizzazione per sottrazione. Un’essenzializzazione del linguaggio, che riuscisse a trasportare interpreti e pubblico in questa dimensione inedita, complessa, tragica. Per il “condizionamento” operato sull’esperienza estetica di chi guarda, A Cup of Coffee and New Shoes On ricorda Bestie di scena di Emma Dante: pièce in cui il palco è calcato da attori completamente nudi, che si svestono gradualmente nei primissimi minuti di scena. Una transizione così morbida che non fa scandalo, perché siamo già in un mondo in cui le persone girano carne all’aria. Per raggiungere questa stessa naturalezza istintiva, Koçi ha lavorato con finezza artigianale fin dalle prime mosse di produzione.

«Innanzitutto, era fondamentale trovare attori professionisti e gemelli, per questo abbiamo aperto un casting internazionale. Edgar e Rafael Morais sono portoghesi, e ovviamente non sapevano né l’albanese, né la lingua dei segni, che peraltro varia da paese a paese. Così, una volta terminate le selezioni, hanno dovuto studiare lingua dei segni albanese per sei mesi. Naturalmente, non ce l’avremmo fatta senza l’aiuto di numerosi esperti e associazioni come la ANAD (Albanian National Association of People Who Can’t Hear), o l’Istituto dei Ciechi di Tirana. E poi, sul set, avevamo sempre gli insegnanti dell’ANAD, per assicurarci che ogni scena in lingua dei segni fosse eseguita correttamente. Il risultato è, per me, davvero molto emozionante. E sono felice di aver trovato Drita Kabashi per la parte di Ana, che nel suo personaggio unisce forza e dolcezza. È stato il suo debutto sul grande schermo, e sono orgoglioso di averla aiutata a fare questo primo passo. È stata bravissima».

Dunque finezza e attenzione per il dettaglio, amore per la storia, rispetto per i propri personaggi: tutte scelte registiche che ritornano nella materia del film.

«Per me, la domanda-guida di questo film è stata: che cosa accadrebbe se un essere umano fosse completamente immerso nell’oscurità, senza possibilità di comunicare con gli altri? Che cosa succede ricombinando drasticamente il quadro delle nostre potenzialità percettive? Questa è stata una sfida soprattutto dal punto di vista della forma ed estetica del film, lato del lavoro che sento molto affine. Quindi mi sono ritrovato in un percorso di purificazione, se così possiamo dire. Purificazione del mio linguaggio dalle convenzioni che, nel tempo, il cinema ha ammucchiato su di sé. A un certo punto ho capito che volevo alzare il patto con il mio spettatore, dirgli: dimenticati del regista, segui la storia con i tuoi occhi. Ecco perché molte inquadrature sono a livello dello sguardo, spesso in camera statica. No speech! No sound! No image!»

Rispetto narrativo che Koçi conduce allo stremo, lasciandoci con un finale aperto ed enigmatico sul futuro di Agim e Gëzim: seduti di nuovo a un tavolo, con scarpe nuove e vestiti buoni, caffè appena fatto, e una decisione importante da prendere.

Ma la dimensione sensoriale del fare cinema, così come la sfida gentile e silenziosa alle sue regole e convenzioni, viene anche da Sonnenstube di Davide Palella, cortometraggio realizzato durante un workshop promosso dal Locarno Film Festival e sotto il mentoring di Michelangelo Frammartino. In tedesco, “Sonnenstube” è “la stanza del sole”, calda, accogliente, e dall’odore di casa. Il motivo: il rapporto di intimità famigliare che il soggetto del corto, a tutti gli effetti documentario in forma sperimentale, aveva con la Specola Solare Ticinese, osservatorio solare nei pressi di Locarno. Parliamo di Sergio Cortesi, ingegnere e studioso di fisica solare scomparso nel 2021, tra i fondatori della Società astronomica ticinese e dedito osservatore dall’interno della Specola, in cui si recava ogni mattina con precisione monacale. Obiettivo: tracciare disegni delle macchie solari per monitorare l’attività della nostra stella, e, come Agim e Gëzim, comunicare con essa senza usare parole.

Trailer di Sonnenstube

Così Davide Palella: «incontrare la figura di Cortesi è stato inaspettato e magnifico. Personalmente, sto portando avanti da anni un progetto di lungometraggio interamente incentrato attorno alla figura del sole, e Sonnenstube è stato un arricchimento importante all’interno di questo percorso. Anche perché c’è un aneddoto che in pochi conoscono, e che lega il sole alla storia del cinema: proviene dalla vita di Joseph Antoine Ferdinand Plateau, fisico belga che per primo sperimentò il fenomeno della persistenza retinica dell’immagine. Per far ciò, osservava a occhio nudo – e direttamente – la luce del sole per molti secondi. I suoi studi lo hanno fatto diventare progressivamente cieco, ma gli hanno anche permesso di inventare il fenachitoscopio, uno dei primi se non il primo esempio di proto-cinema».

Procedendo per materiali di archivio, molti dei quali recuperati attraverso lo RSI (Radiotelevisione svizzera), il viaggio attraverso l’opera di Cortesi è fulminante, e procede per immersione immediata in quella che Maurice Merleau-Ponty avrebbe indicato come “carne del mondo” (o, in altre parole, l’impressione estetica immediata che il mondo ha su di noi, sui nostri sensi, a partire proprio dalla vista).

«Amo molto il cinema sperimentale, soprattutto il New American Cinema di Stan Brakhage, poi lo Structural Film e Michael Snow, uno dei suoi principali esponenti. Con Sonnenstube ho voluto applicare questo approccio estremamente visivo e sensoriale al documentario. Non perché non pensi che quelli “di parola” non abbiano valore, tutt’altro. Credo però che il loro metodo sia diverso: come dice il nome, che deriva dal latino docere, e dunque “insegnare”, loro vogliono trasmettere informazioni. Alla fine, anche io. Ma lasciando che ognuno trovi la sua strada, piuttosto che indicarla io stesso. Così diventa una ricerca infinita, un vero percorso. Che è poi la vita».

Molto interessante, in questo senso, l’appaiamento mentore-allievo con Frammartino, regista che più di tutti, tra gli italiani contemporanei, si è distinto per l’approccio originale allo sperimentalismo, bilanciandolo continuamente con un impianto narrativo importante (pensiamo a Il buco, o Le quattro volte).

«Lavorare con Michelangelo è stato stupendo. È un autore che stimo e un maestro attento, perché non lascia mai che la sua visione scavalchi la tua. Insieme abbiamo lavorato per ridurre all’osso il linguaggio di Sonnenstube, cercando di renderlo largamente fruibile nonostante la “diversità” del metodo. Soprattutto, volevamo ridare vita, e movimento, a materiali che sono stati fermi negli archivi per tantissimo tempo, quasi dimenticati. Senza mai perdere di vista la dimensione quasi religiosa, o meglio, monacale, con cui Cortesi approcciava il suo lavoro».

La 42esima edizione del Bergamo Film Meeting torna nel 2024, dal 9 al 17 marzo, e vi consigliamo di segnare le date sul calendario fin da subito. E ora, i vincitori di quest’anno: vincitore della Mostra Concorso, Le Prix du Passage/The Channel (Thierry Binisti, Francia/Belgio, 2022); Premio per la Migliore Regia, A Cup of Coffee and New Shoes On (Gentian Koçi), premio per la sezione Visti da Vicino – Premio Miglior Documentario CGIL Bergamo, No Place Like Home (Emilie Beck, Norvegia, 2022) e La visita y un jardín secreto/The Visit and a Secret Garden (Irene M. Borrego, Spagna/Portogallo, 2022); il Premio della Giuria CGIL – La Sortie de l’Usine, Pongo Calling (Tomáš Kratochvíl, Repubblica Ceca/Slovacchia/Regno Unito, 2022).