Al centro di Art, una pièce di Yasmina Reza del 1994, un’incomprensione apparentemente superficiale tra tre amici di lunga data, Marc, Yvan e Serge, degenera improvvisamente, come spesso succede nelle opere della scrittrice francese, aprendo uno squarcio nel quale si incuneano antichi risentimenti, rancori e opinioni inconciliabili, che finiscono per fare a pezzi quell’antica amicizia. In questo caso, ad aprire la crepa è il fatto che Serge, il più ambizioso e snob dei tre, ha appena speso una fortuna per comprare un’opera d’arte contemporanea. Si tratta di un quadro: per la precisione «un quadro bianco, a righe bianche».

Probabile che Reza si sia ispirata per questo soggetto ai famosi White Paintings di Robert Rauschenberg, o forse a quel racconto di Henry James che fin dal titolo indicava il proprio potere profetico: The Madonna of the Future. Sta di fatto che l’idea di una tela interamente bianca, che non preveda quindi alcun intervento “inventivo” da parte dell’artista, e al limite un suo intervento manuale minimo, non è per nulla peregrina in un mondo dell’arte che ci ha abituati alle più varie stranezze, per non dire a provocazioni sospette. L’incredulità di Marc e Yvan, cui fa specchio la convinzione di Serge nell’esibire il proprio “affare” («Un Antrios anni Settanta»), è un sentimento che conosciamo bene e che accompagna qualsiasi visita a una collezione di arte contemporanea. Perché l’arte contemporanea appare ai profani come una disciplina incomprensibile, accessibile solo a chi la fa e a chi la mette in mostra, ma in qualche modo estranea a chi la va a vedere, che pure ne subisce il fascino. Come ha scritto Mauro Covacich in un brillante e utile libretto di qualche anno fa intitolato L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, «L’arte contemporanea si avviluppa in una contraddizione ogni giorno più inestricabile: da un canto sembra essere sulla bocca di tutti, dall’altro non parla quasi a nessuno». Colpa forse di un orizzonte di attesa – quello di quanti visitano musei e gallerie – che non si è ancora sintonizzato con un “paradigma” nuovo e che però domina ormai da più di mezzo secolo; un orizzonte di attesa che ancora associa l’esperienza artistica a concetti che hanno a che fare con il bello, con l’estetica. Si direbbe, quasi, che nel nostro tempo convivano “generi” dell’arte differenti tra loro, e che questa convivenza provoca momenti di incomprensione come quello che fa da innesco alla piècedi Yasmina Reza.

Proprio questa idea di una convivenza tra “modi” diversi dell’arte è al centro del Paradigma dell’arte contemporanea. Strutture di una rivoluzione artistica, lungo saggio di Nathalie Heinich, uscito in Francia nel 2014 e finalmente tradotto in Italia da Ximena Rodríguez Bradford per Johan & Levi. Heinich è una sociologa molto nota in Francia, la cui fama è anche controversa. Allieva rinnegata di Pierre Bourdieu – nella Prefazione scritta per l’edizione italiana (che sostituisce un Prologo in cui veniva ricostruita in presa diretta una riunione del comitato di selezione del Prix Duchamp) è la stessa Heinich a dichiarare di essere stata da lui tacciata di «populismo scientifico» –, da diversi anni fa parlare di sé per le sue prese di posizioni reazionarie, e per un’interpretazione della disciplina sociologica che, dietro la necessità di attenersi a una dovuta “imparzialità” della ricerca, nasconde un posizionamento ideologico implicito e per questo più ambiguo (può essere utile a questo proposito leggere un pamphlet scritto qualche anno fa sui “danni”  che a suo dire farebbe la militanza nel campo della ricerca:). Ciò detto, da più di trent’anni Heinich si dedica all’arte e da almeno venti a quella contemporanea, declinando le proprie ricerche secondo l’idea di una sociologia che considera «l’arte come società» (N. Heinich, La sociologia dell’arte, 2001), ovvero come rete di relazioni che, pur soggette a determinazioni esteriori, rispondono a regole proprie del campo artistico. L’autrice ha così esplorato nel tempo i paradigmi artistici delle diverse epoche: dal regime artigianale dell’artista “a bottega” proprio dell’epoca medievale a quello professionale dell’artista-accademico, per arrivare, in età moderna, al regime di singolarità, che premia l’innovazione rispetto all’imitazione, l’originalità rispetto alla fedeltà alla tradizione e la capacità dell’artista di distinguersi tra i suoi pari. Un regime che nasce con il “mito” di Van Gogh e che in età contemporanea subisce una vera e propria radicalizzazione.

«La logica stessa del regime di singolarità vuole infatti che il principio trasgressivo finisca inevitabilmente per radicalizzarsi a mano a mano che le sue produzioni vengono diffuse, integrate e accettate dalla società: in questo caso, insomma, è l’effetto (la radicalizzazione della singolarità) a determinare la causa (la sua normalizzazione)».

Siamo abituati a pensare all’artista come a un individuo fuori dal comune, un “genio” che più o meno efficacemente riesce a vivere al di sotto o al di sopra delle aspettative della società, ricavandosi lo spazio necessario a creare le proprie opere. Uno stereotipo romantico che si è incistato al centro del nostro immaginario e che spesso impedisce una comprensione lineare di come funzioni effettivamente la parabola di un artista. La sociologia dell’arte affronta questi luoghi comuni smontandoli, riportando ogni convinzione e ogni condizione alle sue ragioni concrete, ricostruendo relazioni, rapporti di forza, mediazioni, ma anche aspetti pratici che definiscono quelli che H.S. Becker chiamava “i mondi dell’arte”. Un approccio che porta talvolta a ignorare ciò che accade prima dell’ingresso nel campo dell’arte, ovvero prima della soglia di consacrazione da parte del sistema (e se ne dovrà tenere conto per comprendere limiti di questo come di altri saggi), ma che nondimeno consente di ragionare sulle dinamiche che fondano un etere concettuale condiviso tanto dai grandi artisti di fama mondiale, quanto dagli aspiranti che molto spesso non vanno oltre una breve visibilità locale.

Il paradigma contemporaneo riprende e aggiorna le riflessioni contenute in saggi precedenti di Heinich (in particolare Le triple Jeu de l’art contemporain, 1998, che le aveva attirato le critiche di chi le attribuiva un posizionamento implicitamente e ideologicamente contro l’arte contemporanea), dove già aveva avanzato l’ipotesi di «considerare l’arte contemporanea non più come una categoria cronologica (un periodo specifico della storia dell’arte) ma come una categoria di genere (una definizione specifica della pratica artistica)». Ipotesi questa che le consente ora di sostenere la tesi che quello contemporaneo sia un vero e proprio “paradigma” dell’arte, che convive con altri – il moderno e il classico –, e che presenta caratteri, regole e pratiche specifiche che rendono l’esperienza dell’arte oggi totalmente diversa rispetto a un secolo fa.

Strutturato in venti capitoli, il saggio si presta a un’indagine minuta dei tanti aspetti che costituiscono la pratica contemporanea (il sistema delle fiere internazionali, i problemi giuridici relativi al diritto d’autore su opere che talvolta non sono manufatti e nemmeno il prodotto del lavoro di una sola persona oppure i problemi legati alla conservazione di opere pensate per una “obsolescenza programmata”…); il sistematico ricorso all’aneddoto esemplificativo, poi, rende la lettura coinvolgente, convincendoci peraltro che il mondo dell’arte contemporanea sia tutto come Heinich ce lo racconta, benché la mappatura tocchi quasi esclusivamente il mondo della grande arte internazionale, ignorando la dimensione micro, locale o nazionale (e non è un dato da poco).

Dei tanti aspetti esplorati, alcuni sembrano più importanti di altri. Sono quelle proprietà dell’arte contemporanea definite da Heinich “ontologiche” poiché determinano una serie di conseguenze decisive anche per l’immaginario comune sul mondo dell’arte (raramente interrogato eppure così decisivo per la nostra comprensione del mondo). Perché, se è vero che la sociologia “si limita” a fotografare l’esistente e a riconoscerne le dinamiche, è vero anche che spesso questo riconoscimento si traduce in una rivelazione per chi quelle dinamiche le ha incorporate oppure subite in maniera implicita, senza conoscerne le origini né – verrebbe da dire – le vie d’uscita.

Si dovrà partire allora da quello che può apparire un tratto paradossale – e che in effetti lo è – dell’arte contemporanea, ovvero il suo essere statutariamente trasgressiva: rispetto alle attese dello spettatore, a quella che è comunemente l’idea dell’opera d’arte e, più in generale, a tutto ciò che di volta in volta si ritiene acquisito, storicizzato nel campo dell’arte e delle sue interpretazioni. L’arte contemporanea, scrive a più riprese Heinich, si caratterizza come esperienza dei limiti; limiti del buon gusto, dell’etica, e più semplicemente dei caratteri tradizionalmente attribuiti all’opera d’arte. Che si tratti dell’orinatoio di Duchamp o dei monumenti impacchettati di Christo e Jeanne-Claude, dell’Erased de Kooning Drawing di Rauschenberg o della eat art di Daniel Spoerri, l’opera contemporanea perde qualsiasi contatto con i concetti di “oggettualità”, di autenticità, di originalità, di perennità e anche di espressività dell’opera d’arte.

In Kassel non invita alla logica (2014), resoconto narrativo della sua visita alla grande rassegna documenta 13, Enrique Vila-Matas ritorna più volte su un soffio d’aria che sembra inseguirlo per le stanze del Fridericianum di Kassel, cogliendolo sempre alla sprovvista e inquietandolo non poco. Non si tratta di un semplice spiffero, bensì di un’installazione del britannico Ryan Gander, I Need Some Meaning I Can Memorise (The Invisible Pull). Cos’è (diventata) un’opera d’arte? Addirittura qualcosa che può fare a meno di un requisito ineludibile di qualsiasi esperienza artistica, cioè la “visibilità”.

In altri casi è invece l’autorialità a essere messa in crisi: come attribuire alla creatività di un solo individuo opere che sono prodotte secondo procedimenti industriali e con la compartecipazione di tecnici dalle più svariate competenze. L’artista diventa il coordinatore di un’équipe di lavoro, una specie di regista (si legga la bella visita di Sarah Thronton nello studio di Jeff Koons in 33 artisti in 3 atti per farsene un’idea). Si capisce che siamo ormai molto lontani dall’antica idea dell’opera come esito di un intimo confronto tra l’io e i propri demoni. L’opera d’arte si smaterializza, oppure si duplica, oppure ancora cita, recupera, incornicia, estendendo imprevedibilmente i confini dell’artisticità. D’altra parte, come già aveva notato Arthur C. Danto nei suoi saggi dedicati alla Brillo box di Andy Warhol, con la pop art non solo si consuma una separazione definitiva tra l’arte e l’estetica, ma si svela anche il grande segreto dell’arte contemporanea, quello per cui «qualsiasi cosa [può] diventare un’opera d’arte» (e lo può diventare secondo percorsi diversi, come insegna la recente vicenda giudiziaria della banana di Cattelan).

Da un lato questo spiega la capacità dell’arte di inglobare tutto (anche materialmente, uscendo dai musei e colonizzando il paesaggio con la land art o le opere site-specific), di raggiungere e rielaborare ogni elemento del reale – dall’attualità politica ai diritti civili, dalla tradizione culturale ai traumi privati –, secondo un’attitudine onnivora che è l’altra faccia della medaglia del processo di “estetizzazione del mondo” che secondo Gilles Lipovetsky e Jean Serroy caratterizza l’attuale stadio del tardo capitalismo. Dall’altro lato questo porta con sé una centralità sempre maggiore dell’artista nella produzione del significato di un’opera. È vero che la presenza dell’artista appare sempre meno decisiva nel processo di fabbricazione materiale dell’opera: Heinich ricorda l’episodio in cui Rauschenberg, non potendo inviare i suoi White paintings al Moderna Museet di Stoccolma perché si erano persi, mandò al direttore Pontus Hultén le dimensioni e qualche campione di tela e di bianco affinché venissero prodotti ex-novo. Ma è vero anche che l’artista è sempre più l’unico protagonista del sistema mediatico e globale dell’arte contemporanea. È in questo senso che Heinich parla di un radicalizzarsi del regime di singolarità nel sistema contemporaneo. I principi di originalità e innovazione, che già la modernità aveva adottato come proprie bussole creative, ora vengono secondo lei estremizzati, al punto che ogni artista deve distinguersi non solo dalla tradizione precedente, ma anche dalla sua stessa opera, in un processo bulimico che finisce peraltro per mettere in crisi un concetto storico come quello di “avanguardia”. La conseguenza più visibile di questo meccanismo è però il fatto che l’attenzione passa dall’opera all’artista, alla sua capacità di reinventarsi continuamente, e non solo nelle sue creazioni, ma anche – e talvolta soprattutto – nella messa in scena della sua personalità.

In un sistema dell’arte che, a partire dagli anni Sessanta, ha smesso di avere un centro solo (prima Parigi, poi New York) ed è diventato globale, l’artista è diventato il punto di convergenza di vari tipi di interessi, non solo artistici. Un tema centrale è infatti quello della finanziarizzazione dell’arte contemporanea e della sua complementare esposizione ai meccanismi della celebrità internazionale (un nodo che Heinich affronta, ma di cui forse sottovaluta la portata complessiva, anche per i circuiti di creazione ed esposizione locali). Circondati da tecnici informatici, artigiani, progettisti e media manager, gli artisti possono ritrovarsi oggi alla testa di vere e proprie imprese e da imprenditori devono saper rivolgersi agli stakeholders, collocando adeguatamente i propri prodotti, che saranno riconoscibili per la presenza di un marchio che coincide con il loro nome. Così facendo, essi espongono se stessi e le proprie opere alle oscillazioni del mercato, che alza o abbassa le quotazioni secondo criteri che nulla hanno a che vedere con il concetto di “riuscita artistica”, e che soprattutto sovrastano totalmente le responsabilità creative degli artisti. Sono questi meccanismi che producono le cifre esorbitanti che puntualmente vengono battute alle grandi aste internazionali (basta abbonarsi alla newsletter di qualsiasi magazine d’arte per rendersi conto di questa “isteria da record”); meccanismi aleatori, con cui certi artisti hanno imparato a fare i conti, muovendosi da trader e comprendendo come le loro opere siano diventate asset finanziari, oggetto di speculazioni che hanno come unico fine quello di creare un valore immateriale.

A contribuire alla “bolla dell’arte contemporanea” è anche la dimensione spettacolare in cui avviene oggi la compravendita delle opere. D’altra parte «l’arte contemporanea va di moda, e non solo in senso lato», dice Heinich. Le opere diventano beni di lusso, al pari di scarpe, borse o degli oggetti di design; l’arte contribuisce a quella «logica di ostentata distinzione» definita da Vleben nella sua “teoria del consumo esibito”. È dai tempi di Warhol che gli artisti sono diventati esponenti dello star system al pari di attrici, modelle o cantanti; e dello star system subiscono anche la bulimia stritolante, che tende ad azzerare i tempi tra la creazione di un’opera e la sua messa in pubblico (a maggior ragione nella dimensione digitale della rete), offrendo tempi di consacrazione rapidissimi, ma imponendo anche una capacità di reinventarsi che non tutti sanno esibire, così che le poche, grandi figure di livello internazionale si issano su una massa smisurata di parabole eclissatesi dopo effimeri exploit.

Basterebbero questi aspetti a decretare come l’arte contemporanea, nell’interpretazione di Heinich, sia diventata un affare per pochi; e per ricchi. Ma si dovrà aggiungere un altro tratto – il più importante per chi scrive – che permette di comprendere, peraltro, come essa risulti elitaria anche quando viene praticata entro circuiti locali e con giri d’affari modesti – come quelli raccontati nell’interessante saggio di Santa Nastro, Come vivono gli artisti? (Castelvecchi 2022). Si è detto sopra che, nell’attuale regime artistico, qualsiasi oggetto e qualsiasi esperienza può diventare arte, a patto che venga “incorniciato” come tale (è curioso come un vecchio simbolo dell’arte moderna, la cornice, ritrovi una centralità metaforica nel paradigma contemporaneo). La cornice è definita dal luogo di esposizione, ma prima ancora dal discorso che “presenta” l’opera, che la inquadra verbalmente. Per questo Heinich sostiene, con un certo gusto per la semplificazione paradossale, che tutta l’arte contemporanea, a prescindere dalla forma espressiva che adotta (installazione, ready made, performance o altro), è sempre arte concettuale. È un’«arte del far parlare», un’arte che rivela i propri significati a partire dal discorso che le si costruisce intorno – in piena sintonia con un processo di narrativizzazione che tocca tutti gli ambiti dell’esperienza. Un’opera parla innanzitutto attraverso il titolo che l’artista le attribuisce, e poi attraverso le interviste, i testi di presentazione nei pannelli espositivi o sui cataloghi, o ancora attraverso recensioni e commenti da parte della critica. Per quanto miri a un contatto empatico con lo spettatore, l’esperienza dell’arte oggi si può innescare solo nel momento in cui comincia un racconto, che spieghi le motivazioni, le intenzioni e gli effetti presunti che l’opera dovrebbe ottenere (ed è forse per questa sua dimensione prettamente “narrativa” che oggi l’arte contemporanea rappresenta un tema molto gettonato tra scrittori e scrittrici che, attraverso quelle macchine di significati che sono le opere, cercano di filtrare una specifica visione del mondo).

In un romanzo del 1980 intitolato L’opera – omaggio parodico all’Œuvre di Emile Zola – Emilio Tadini metteva in scena un critico d’arte che, con articoli e descrizioni di opere concettuali solo in alcuni casi effettivamente realizzate, creava da zero un artista, salvo poi decidersi a ucciderlo quando questi pretendeva di godere in prima persona della celebrità e dei vantaggi che il suo successo comportava. Erano gli anni della Transavanguardia, movimento “inventato” da un critico, Achille Bonito Olivo, che esibiva così il potere demiurgico degli addetti ai lavori del mondo dell’arte. Conservatori, commissari, critici e, come nel caso di Bonito Oliva, curatori artistici – cioè figure che mescolano tratti del commissario all’esposizione e del critico – sono i mediatori che, ancor più degli artisti, rendono letteralmente comprensibile l’arte contemporanea, poiché forniscono la chiave d’accesso ai significati di opere che possono risultare altrimenti imperscrutabili (ripensiamo al soffio d’aria di Gander) e definiscono il “codice” che tiene insieme opere diverse in una stessa tendenza, in una stessa narrazione.

E questo codice deve rimanere loro appannaggio, perché gli garantisce quello che Alessandro Dal Lago e Serena Giordano hanno definito il “potere di aurizzazione” (Mercanti d’aura, 2006), ovvero di assegnare l’aura dell’artisticità a un’opera. Nati come figure di servizio, i curatori sono diventati i veri gatekeepers, guardiani della soglia del mondo dell’arte contemporanea, assumendo talora un rilievo autoriale molto maggiore rispetto a tanti artisti (pensiamo all’influenza di personaggi come Germano Celant, Harald Szeeman o Hans Ulrich Obrist; ma forse qualcosa cambia quando si cambia “scala” d’azione). Ma, più ancora, finiscono per determinare il borsino dei valori, influenzano la politica delle grandi manifestazioni e orientano le tendenze del mercato dell’arte.

Naturalmente il loro potere non si esercita solo nei confronti degli artisti, ma anche in direzione del pubblico, convitato di pietra di ogni discorso sul contemporaneo (e anche di quello di Heinich, che sembra poco interessata alla componente anti-democratica di questa dimensione del paradigma contemporaneo). Lo smarrimento di un osservatore di fronte a una tela bianca, per tornare all’esempio da cui siamo partiti, è lo smarrimento di qualcuno che non padroneggia il discorso che fa di quella tela un’“opera”. In un’epoca in cui l’arte ha smesso di essere un sistema di valori condivisi, e in cui tuttavia conserva un capitale simbolico riconosciuto – evidente ad esempio nel modo in cui istituzioni o privati affidano ad artisti il compito di “personalizzare” nuovi progetti o importanti restauri (un caso storico è quello, fallito, di Gibellina Nuova, in Sicilia) –, quello di chi stabilisce le regole del gioco è ancora un potere notevole.

Un potere che non esce dal ristretto circuito degli addetti ai lavori e che, per dirne una, talvolta non raggiunge neanche coloro che sono incaricati di trasmettere la conoscenza del mondo dell’arte alle nuove generazioni, come gli insegnanti. Il discorso dell’arte contemporanea diventa così un sapere iniziatico, che prospera nel senso di soggezione che le cose “complesse” riescono a suscitare in chi non ne possiede la chiave. Come hanno scritto Dal Lago e Giordano, con perfetta similitudine, «come nella favola di Barbablù, [il pubblico]può visitare ogni stanza dell’arte, alla condizione di non aprire mai una certa porta, dietro la quale c’è lo spazio segreto del discorso, alla cui produzione non può assistere, né partecipare» (L’artista e il potere, 2014).

Il paradigma dell’arte contemporanea, appare chiaro alla fine della lettura della ricca indagine di Nathalie Heinich, è profondamente informato dalle logiche elitarie e monopolistiche proprie del sistema capitalistico. Se una rivoluzione si deve attendere, allora – per rifarsi al sottotitolo di questo saggio –, non sarà quella che spingerà ancora più lontano l’orizzonte della creatività, bensì quella che renderà il discorso sull’arte accessibile a un pubblico che possa finalmente rispondere alla richiesta di dialogo che tanti artisti gli rivolgono; e lo potrà fare attribuendo in prima persona un “valore” alle loro opere.


Nathalie Heinich, Il paradigma dell’arte contemporanea. Strutture di una rivoluzione artistica, trad. X. Rodriguez Bradford, Johan & Levi, Monza 2022, 272 pp. 27,00€


In copertina: Robert Rauschenberg, White Painting. Three panels (1951).


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