Per la prima volta La Balena Bianca propone una serie di consigli natalizi di poesia. Per quanto si sforzi, infatti, la prosa (vedi qui) resta incatenata ai suoi fini inesorabilmente utilitaristici. Regalate quindi o regalatevi un titolo di poesia: per costruire, sabotare, inventare. Per godere dei felici imprevisti, degli sbandamenti, dei luccicanti, inutili mirabilia che offrono i “versi”.


Silvia Righi, Demi-monde, NEM (Lorenzo Cardilli)

L’esordio di Silvia Righi, Demi-monde, è un inno al mutamento e alle sue meraviglie, e insieme mostra quanto sia complesso pensarlo ed esperirlo. Le continue metamorfosi che affollano le poesie sono esposte con morboso voyeurismo e insieme con la cruda inesorabilità delle fiabe. Demi-monde mescola originalmente un filone “logico-formale” a un immaginario fiabesco cupo e conturbante. L’esplorazione dell’eros, nei suoi aspetti più espliciti e pruriginosi, sfuma spesso nella riflessione sulla violenza simbolica (si veda ad esempio il riferimento al gioco del silenzio, o alla vecchia ed esiziale filastrocca per bambini Dimmi i nomi di tre ragazze). E al di là delle tematizzazioni più aperte, sono i glitch dei politotti o le violazioni del principio di non contraddizione ad inscenare l’ambiguo potere del linguaggio e dei simboli – con i suoi paradossi e punti ciechi, la sua azione morfogena su corpi, soggetti e oggetti dell’esperienza. Ma gli incantesimi della parola e la fuga dei mondi possibili si rovesciano anche in conquista anarchica, in liberazione dalle identità assegnate dalle aspettative degli altri e dalla cultura. Dalla specola del Demi-monde –  “intercapedine” sospesa in mezzo alla sequela dei possibili – la poesia permette di ripensare l’io, accettandone la strutturale non-integrità («Sto rovistando in cerca di un cuore | dove i cuori dovrebbero annidarsi | tra le mani ho un artefatto | contorto, a spigoli – solo | non è integro»). Sottraendosi così a quello che Cristina Campo chiamava, parlando delle fiabe, «il gioco delle forze».


Luigi Severi, eris, Nino Aragno (Simona Menicocci)

eris, l’ultima opera poetica di Luigi Severi edita per Aragno nel 2020, è attraversata da un pensiero anti-identitario che oscilla tra anabasi e catabasi. Eris è il nome della dea greca della discordia ma anche di un pianeta nano alla periferia del sistema solare scoperto nel 2005, per la precisione il secondo dopo Plutone, completamente ghiacciato. Il titolo agglomera perciò in se stesso le due polarità che attraversano i testi dai versi lunghi e sfilacciati: umano e non umano, furore e orrore della storia umana, freddo distacco e indifferenza delle cose naturali. Intese in senso materialista si intersecano nei loro punti comuni: entrambe fatte di materia, di corpi, quindi passibili di disfacimento e distruzione; in entrambe vige violenza. Polarità, ma anche punti di vista di leopardiana memoria in attrito tra loro: quello centripeto e antropocentrico sulle umane miserie, collettive e personali, iperzoomate con pietas ed ossessione, accanto a quello centrifugo e vertiginoso del sublime nelle sue forme spazio-temporali del cosmo infinito e del tempo profondo della storia della terra, che annichilerebbe, nel suo relativismo schiacciante, l’umano e le sue gesta minime e infraordinarie. È infatti l’attrito che salva dal nichilismo e lo fa scintillare numinosamente: «aggràppati alle cose, | a ogni decoro di ozono: | i calcoli finiscono di notte | frantuma l’atomo con gli occhi e vai oltre, | si tratta dell’oggetto di ghiaccio, in solitudine, | al limite di tutto viaggia Eris, da questo stesso mare di bitume | aggrappati al suo strascico».

Tensioni, campi magnetici concettuali e formali, che si riflettono, ibridando la lezione del montaggio modernista con il gusto classico per la sentenziosità, in una sintassi sincopata, fatti di incisi e intarsi sbalzati, cambiamenti di costrutti, asimmetrie, ellissi, accumuli. Il periodare sapientemente fatto a pezzi e poi poundianamente rilegato va di pari passo con le molteplici storie cucite in questi testi. Severi ha sempre fessurato la sua voce e il suo sguardo con quelli degli altri da sé, con particolare attenzione agli esclusi (l’eretico Tartaglia in Specchio di imperfezione, la mistica Angela da Foligno in Corona, il folle Pontormo in Sinopia), così la sua poesia è sempre stata densamente popolata di personaggi reali, storici o mitologici. Anche in eris troviamo numerose figure femminili tratte dal mito (Circe, Ifigenia, Penelope, Dafne, Filomena, Aracne, Nausicaa), che però vengono scollate dal tempo del destino – il più tragico e reazionario che esista – per essere aperte al possibile, impastate con materiali disparati e fatte risuonare con l’eco, data per schegge, dei drammi della storia presente, tra naufragi, lutti ed estinzioni, in una sorta di allucinazione da iperrealismo.


Ben Lerner, Le figure di Lichtenberg, tlon (Stella Poli)

Un’insegnante impone alla classe di imparare a memoria una poesia, un ragazzo cerca la più corta che trova, che s’intitola, fra l’altro, Poesia:

I, too, dislike it.
Reading it, however, with a perfect
contempt for it, one discovers in
it, after all, a place for the genuine.

[Neanche a me piace.
A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre
dopo tutto, uno spazio per l’autentico.]
(Marianne Moore, Le poesie, Adelphi)

Così inizia Odiare la poesia, di Ben Lerner, che, la poesia la insegna, la studia, la scrive, ma sempre, dice, con quel refrain in testa: neanche a me piace. «Non la vivo come una contraddizione perché la poesia e l’odio della poesia per me – e forse per voi – sono inestricabili».

Le figure di Lichtenberg sono dei pattern a forma di lichene, effimeri, che emergono sulla pelle delle persone colpite da un fulmine. I recensori del libro d’esordio di Lerner, Le figure di Lichtenberg appunto, leggono queste infrazioni epidermiche come metafora o correlativo oggettivo dei testi, tutti di quattordici righe – anche se impaginati che quasi non si ci accorge che – misura cercata per avere, dice l’autore in un’intervista, sempre qualcosa «to wrestl with».

Qualcuno evidenzia proprio la componente violenta del verso di Lerner, qualcuno la narratività di questi flash («Frequento lezioni di bocca a bocca, lezioni di corpo a corpo. | Non so più distinguere combattimento e rianimazione. | Potrei rianimare le mie vittime. Ammazzare un uomo»), a me pare possano essere davvero tentativo di ritagliarsi uno spazio genuino nel disprezzo del mezzo, convivendo con quell’odio inestricabile, offrendoci una ferocia che non ha trovato – ma forse perché dovrebbe – modi per sublimarsi:

Lei ha lasciato la città. Poi è piovuto. I corvi mi hanno beccato via le lenti a contatto.
Ho provato di tutto: Prozac, canto fermo. L’ho riconquistata.
Non è servito a niente. Mi sono sparato. Non è servito a niente.   


Alice Oswald, Memorial. Uno scavo dell’Iliade, Archinto (Roberto Batisti)

Fra tante odierne riscritture kitsch dell’Iliade, l’impresa di rovesciare il poema in una forma insieme contemporanea, anti-epica, e rispettosa dell’originale è riuscita forse solo ad Alice Oswald, professor of poetry a Oxford e formazione da classicista. Lo scorso anno, il suo ‘scavo’ iliadico del 2011 è stato finalmente reso disponibile ai lettori italiani dall’editore Archinto, con la traduzione a fronte di Rossella Preto e Marco Sonzogni. Lavorando per sottrazione, Oswald elimina completamente il tessuto narrativo del poema, facendo emergere la duplice ossatura delle similitudini e delle biografie dei caduti. Lasciando gli elementi in apparenza meno epici, compie il miracolo di non solo conservare, ma esaltare come in quintessenza l’atmosfera guerresca e corale dell’epos, grazie all’ipnotica ripetizione delle immagini, al percussivo accumulo dei nomi. Quando per una volta ammette una scheggia di straniante modernità, indovina a sua volta una similitudine icastica degna degli aedi: Ettore che dopo il combattimento corre a casa “to stand in full armour in the doorway | like a man rushing in leaving his motorbike running”. La resa italiana fa, perlopiù, un buon lavoro; il consiglio, però, è di assaporare direttamente la scabra musicalità dell’inglese, magari declamandolo. Ed è forse la prova della voce il vero test di omericità per chi conosce le radici orali della poesia antica.


Stilledammerung, Tecno Zarathustra, howphelia, 2021-2022 (Stella Poli)

«L’instapoesia è negli occhi di chi guarda», dice una grafica fucsia e pixelata un po’. Un’altra, su sfondo glitter, dice che il «lurking è la nuova filologia». In realtà, poi, pare il contrario: nei sondaggi delle stories instagram si possono introdurre varianti nei diacritici o, addirittura, spifferare materiali triviali e ritrovarli poco dopo in una campata di sette righe, con inconfondibili snodi sintattici.

Luca Rizzatello e Angela Grasso, Ophelia Borghesan, cercano da tempo di ibridare estetiche e linguaggi e il loro ultimo progetto, howphelia, è emanazione – forse indiretta – del loro lavoro e della loro ricerca. Howphelia ospita e aggrega una serie di artisti, chiamati a legare insieme, in narrazioni seriali, testo, sonoro e immagine. Questi contenuti possono essere noleggiati, per un periodo, dalla piattaforma.

Stilledammerung si è laureata con una tesi sul rosa e un rosa carne leggerissimo, quasi cipria, è lo sfondo su cui tatuaggi tribali anni ’90 come trasferelli ricoprono cose che ruotano, nei suoi video: la vasca idromassaggio di the sims, un cellulare primordiale, tazzine di porcellana. Stacco, poi gif sbrillucciche sul death metal, mani guantate che rovesciano bottiglie di latte, combattimenti fra cani. In sottofondo, un beat sempre uguale. Sotto, un testo che si lega all’immagine, senza mai esserne didascalia. Le pericopi dei (non) sottotitoli, di schermata in schermata, forse segnano i versi, o forse no:

nel momento stesso in cui
riconosciamo qualcosa in una persona,
questo qualcosa
s’infiamma in lei
[…]
abbiamo inventato la felicità.

I testi sono citazioni da Nietzsche («esitare come la cascata | che esita ancora precipitando»), ma non sempre lo sembrano («e ho odiato persino | il mio stesso odio | che ti sporcava»).
Bonus track: al noleggio si vince un calendario piuttosto tecno per il 2022.