Non avrei voluto soffermarmi troppo sul fatto che Crossroads dovrebbe essere il primo romanzo di una trilogia. Né dilungarmi sul nome della suddetta trilogia, che a quanto sembra si chiamerà “A Key to All Mythologies” — titolo dell’opus magnum incompiuto del reverendo Casaubon in Middlemarch di Mary Ann Evans (a.k.a. George Eliot). 

Come sottolinea Claire Lowdon, è evidente che Jonathan Franzen intenda giocarsi buona parte della sua eredità letteraria con questo trittico. Avrei voluto lasciare per un attimo da parte tutto ciò che per ora resta soltanto futuribile, per leggere semplicemente Crossroads. Potrebbe infatti trattarsi di un romanzo a sé stante, compiuto. Ma la struttura, il tono, i temi del libro, del tutto conformi al Franzen precedente, impedisce in parte di soddisfare questo proposito. 

Crossroads proviene così direttamente dalle precedenti e altrettanto massicce fatiche dell’autore (in particolare Le correzioni e Libertà) che è davvero difficile parlare di Crossroads senza fare riferimento al passato. Al tempo stesso, l’occasione di azzardare previsioni, senza eccessiva cognizione di causa, sulla natura di questa trilogia a venire è troppo ghiotta per essere sprecata. Previsioni, in particolare, sull’obbiettivo polemico della serie: perché si sa, quello che Franzen fa nei suoi romanzi è una pacata letteratura con il martello, una sapiente riflessione in prosa sui buchi neri del sistema valoriale statunitense, una critica memorabile delle sue mitologie. Tradendo quindi il proposito iniziale della recensione, occorrerà parlare d’altro anche per trattare di Crossroads.

Prima divagazione. Louis Theroux è un commentatore britannico della BBC. Dagli anni ‘90 è il protagonista di una serie di trasmissioni televisive sulle contraddizioni e gli estremismi presenti negli Stati Uniti. Durante il lockdown del 2020, la BBC ha mandato in onda una sorta di best of delle puntate di Theroux. Il tema comune del primo episodio di questa rassegna è stata la religione

Nel corso degli anni, Theroux ha visitato comunità religiose fondamentaliste, come quella della Westboro Baptist Church di Topeka — setta che appare anche in The Topeka School di Ben Lerner. Gli adepti sono quasi tutti membri di una grande famiglia legata al pastore Phelps e organizzano dei sit-in violenti e rumorosi presso, ad esempio, i funerali dei soldati statunitensi morti in guerra, convinti dalla logica ineccepibile che la morte dei militari sia il segno di un disprezzo divino per l’omosessualità tollerata all’interno degli Stati Uniti e del suo esercito. 

Nel corso dei suoi reportage, al tempo stesso profondamente critici e morbosamente affascinati dal proprio oggetto, Theroux non ha lesinato commenti sarcastici e reazioni di disgusto nei confronti della chiesa di Westboro e di altre comunità altrettanto singolari. Stupisce quindi il commento finale di Theroux al primo episodio di questa antologia nel 2020. “Le persone dicono spesso: «non credere nella religione, credi in Dio». Io penso che sia il contrario, credo nella religione ma non in Dio. [La fede] è un carburante per i missili”. È un punto di vista palesemente straniero sugli USA, è una prospettiva molto più europea che nord-americana; forse ciò ha anche a che fare con l’ultimo romanzo di Franzen. 

I protagonisti di Crossroads sono i membri della famiglia Hildebrandt. Vivono in una piccola città del Midwest (la fittizia New Prospect), e la trama del romanzo li fotografa nel periodo che intercorre tra l’Avvento del 1971 e la Pasqua del 1972. Come tutti i personaggi di Franzen, appaiono normali solo per qualche istante. Il padre Russ è il reverendo della locale Chiesa Riformata. Sogna di avere un rapporto carnale con la giovane parrocchiana vedova Frances Cottrell: non solo in quanto di per sé desiderabile, ma anche perché è in latente competizione con la moglie Marion, colpevole di aver sposato Russ dopo aver già perso la verginità.

“Il risentimento” tra i due coniugi “riguardava il fatto che Marion si era goduta il sesso con due persone e lui solamente con lei. Poteva tollerare la sua superiorità sotto ogni altro aspetto, ma non quello” (407). Russ è poi in costante attrito con la sua nemesi, padre Rick Ambrose, amato fino all’idolatria dai ragazzi della pastorale giovanile (che si chiama, appunto, Crossroads).

Rick ha cacciato, o lasciato cacciare Russ, dai giovani membri di Crossroads tre anni prima dell’inizio della storia. I ragazzi (le ragazze, soprattutto) non sopportavano l’aria di perbenismo e bigottismo che circonda Russ, tanto quanto sono abbagliati dall’aura cool e magnetica che pervade la figura di Rick.

Marion, la moglie di Russ, è da tutta la vita in competizione con la defunta sorella Shirley, affascinante e magra, mentre lei sente di risultare neutra e grassa agli occhi degli altri. Ha un passato turbolento, caratterizzato dalla malattia mentale, abusi sessuali e non, una relazione tossica con un uomo sposato ai tempi della guerra. 

Il primogenito Clem dovrebbe frequentare il college con enorme profitto, avendo dimostrato da sempre precoce intelligenza in particolar modo nei confronti delle materie scientifiche. Ma è preda di un’infatuazione feroce per Sharon, una compagna di college che lo inizia ai piaceri della carne e perde di vista gli studi. Clem vive con profonda consapevolezza lo strappo tra amor carnale e amor della conoscenza, oltre che di altri dissidi etici legati al proprio privilegio di uomo bianco e studente. Per dimostrarsi oltremodo coerente di fronte al padre, decide di abbandonare l’impegno accademico per tentare di arruolarsi per il Vietnam.

Becky è la secondogenita degli Hildebrandt: è bella, intelligente, indipendente. Vive un rapporto quasi simbiotico con Clem, ma crescendo se ne allontana sempre di più, in particolar modo dopo essere entrata in Crossroads, dove rimane affascinata dalla personalità di Rick Ambrose. Secondo Clem, Becky è destinata a una vita unica e appagante di studi e viaggi. Una fede rigorosa, l’improvvisa mancanza di denaro dovuta a un risanamento delle condizioni economiche famigliari, oltre che una gravidanza inaspettata e a un successivo matrimonio con l’affascinante musicista Tanner, mettono a rischio la previsione del fratello.

Infine, Perry: è il poltergeist della famiglia, geniale, studioso, cinico, trasformista e tossicodipendente. Dalle sue vicende disordinate dipende in gran parte il destino degli Hildebrandt. Ci sarebbe anche il fratello minore Judson: è secondario in Crossroads, ma avrà certamente più spazio nei prossimi capitoli della trilogia.

In Crossroads tornano le ossessioni tipiche del Franzen romanziere: la competizione, la ricerca malata e autodistruttiva della felicità, l’irraggiungibilità dell’ideale di purezza trasmesso dalla cultura statunitense. Verrebbe voglia di proporre anche delle facili equivalenze tra i personaggi: Marion ha qualcosa di Joey Berglund in Libertà, mentre Perry assomiglia anche troppo a Joey Berglund, nello stesso romanzo.

Riemerge poi il tema della malattia mentale, che mai così evidentemente come in Crossroads era presente nei romanzi precedenti. Crossroads è anche un’antologia del malessere psichico: il disturbo dissociativo di Marion, il complesso d’inferiorità di Russ, la follia di Perry. Accanto a ciò convivono condizioni psichiche forse non propriamente patologiche, ma certamente estreme; come il fondamentalismo etico di Clem, o il viscerale disprezzo di Becky nei confronti dei propri genitori. 

Ciò che contraddistingue Crossroads rispetto ai romanzi precedenti di Franzen è tuttavia l’afflato etico. A partire dal titolo: crossroads significa letteralmente “incroci”, ma “Crossroad” è anche il titolo di un blues del cantante nero Robert Johnson del 1937, rifatto poi dai Cream nel 1968. Frances Cottrell non tarda a farcelo sapere, evidenziandone in particolar modo l’elemento di appropriazione culturale: “Un gruppo di inglesi che fregano una canzone a un autentico maestro nero del blues e fanno finta che sia la loro musica” (15).

Insieme con la cultural appropriation, affiora il tema del privilegio bianco. Non solo in Clem e nella sua scelta di andare a combattere in Vietnam, perché sente che i neri stanno combattendo al posto suo; ma anche nel contrasto tra il quartiere nero dove Russ e Frances portano, carichi di buone intenzioni, aiuti materiali e spirituali, per poi scontrarsi puntualmente con la riottosità e le volontà degli abitanti del posto.

Idem con i nativi americani: Russ è da tempo amico di un capo navajo e con Crossroads e Rick Ambrose organizza dei campi di lavoro nel loro territorio. Alla fine del romanzo, un giovane navajo farà notare al reverendo che la loro presenza e i loro aiuti non sono sempre graditi. “La solidarietà era già di per sé una specie di privilegio, un’altra arma nell’arsenale dei bianchi. Era impossibile sfuggire allo squilibrio di potere” (427), riflette Russ. 

Niente di male in questa rinnovata urgenza etica di Franzen; dato il contesto in cui scrive, appare quasi una necessità. L’unico rischio è e sarà quello di scongiurare anacronismi. Le parole e le riflessioni di una famiglia bianca del Midwest negli anni Settanta, per quanto progressista, non possono essere gli stessi di una famiglia liberale di oggi. Molto del valore della trilogia si giocherà sull’accuratezza di questi riferimenti: quanto sarà precisa la ricostruzione di Franzen del pensiero progressista bianco? Quante e quali persistenze razziste sopravviveranno ai decenni, e quali scompariranno? Con quali modalità? Se venisse appiattita sul presente, la potenziale vitalità di “A Key to All Mythologies” verrebbe meno.  

Infine, la religione. O meglio, la spiritualità. È questo il nodo tematico onnipresente, ossessivo di Crossroads:

Crossroads non sembrava religioso – non c’era neanche una Bibbia in vista, e intere serate passavano senza alcun accenno a Gesú – ma anche su questo Tanner aveva ragione: le era bastato cercare di parlare sinceramente, arrendendosi alle emozioni, sostenendo la sincerità e l’emozione altrui, per sperimentare i primi barlumi di spiritualità. (70)

Occorre qui dare spazio a una seconda e ultima, ma soltanto parziale, divagazione. La critica franzeniana dei valori statunitensi passa, nei suoi romanzi, per una critica della mitologia che ci sta dietro. Semplificando un po’, ne Le correzioni l’obbiettivo polemico principale era l’idea di progresso, la fiducia ingenua (e per questo ancora più spropositata) nella perfettibilità illimitata del mondo. In Purity, manco a dirlo, la purezza. In Libertà, l’obbiettivo polemico era forse ancora più ambizioso e inusitato per la letteratura statunitense: la competizione, vero e proprio tabù della cultura nord-americana, valore intoccabile sia da sinistra sia da destra. Un punto sensibile anche per l’amico di Franzen, David Foster Wallace, che nella competizione è sguazzato (fosse a colpi di penna o racchetta) fino ad annegarci dentro.

Potrei sbagliarmi, ma tra gli innumerevoli, intelligentissimi saggi, romanzi e racconti di Wallace non ne ricordo uno che prenda di mira la competizione come ferita scoperta dell’americanesimo. Al massimo, Wallace faceva della competizione il campo di indagine di strazianti e insormontabilmente disperate condizioni individuali. Ma interpretarla come una categoria criticabile di per sé a livello collettivo è forse rimasto al di fuori della portata del suo brillante genio letterario. 

Franzen è certamente più europeo di Wallace: sia per influenze letterarie, sia per esperienze di vita, tra cui la borsa Fulbright che nel 1981 gli ha consentito di studiare in Germania. Solo da uno sguardo almeno in parte straniero sarebbe potuto scaturire un romanzo come Libertà. Ma il Franzen di Libertà non è più quello di Crossroads. Lo conferma Marion, quando allude ironicamente al finale di Libertà — Franzen è un autore che azzecca come pochi altri i finali — oltre che alla passione di Franzen per il bird-watching, quando individua nell’unione con il creato la potenziale risoluzione dei conflitti famigliari: “È successa una cosa tremenda, ma può ancora esserci gioia. Stavo guardando gli uccellini là fuori… non possiamo trovare ancora gioia nella Creazione? Non possiamo trovare gioia l’uno nell’altra?” (479). Crossroads e la trilogia, presumibilmente, non sfoceranno in un ‘facile’ idillio epico

Se si potesse però scommettere su quale sarà l’obbiettivo polemico, il mito americano da scarnificare nella ventura trilogia franzeniana, si potrebbe azzardare: la spiritualità. Non tanto la religione, beninteso; sulle fallacie umane, troppo umane di comunità e istituzioni clericali e para-ecclesiastiche ne sappiamo fin che basta per non stupircene più.

Verrebbe invece da scommettere che il martello di Franzen andrà a sollecitare un altro riflesso condizionato dell’Occidente e della società statunitense in particolare: quel senso specifico di vicinanza al soprannaturale che in Nord-America assume le forme più disparate e che spesso nasconde al proprio interno gerarchie rigidissime, sfruttamento economico, violenza. Quando non è così, il sentimento spirituale invita sempre e comunque chi ne è preda a sentirsi, volente o nolente, eticamente ed epistemologicamente superiore ai propri simili. Ecco, se la forza tranquilla di Franzen si avventasse su questa idea di spiritualità e non soltanto contro l’istituzione religiosa potrebbe forse scalfire un altro, robustissimo mito americano. Solo iddio sa quanto ce ne sarebbe bisogno.


Jonathan Franzen, Crossroads, trad. S. Pareschi, Torino, Einaudi, 2021, 640 pp. 22,00 €