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Fuori dagli schemi 12 – Francesco Pecoraro

Fuori dagli schemi, il mestiere di scrivere raccontato da chi lo fa è una serie di interviste a scrittrici e scrittori pensata per esplorare alcuni aspetti del lavoro sul testo letterario che normalmente vengono lasciati da parte, taciuti o tenuti gelosamente nascosti. Fuori da schemi interpretativi per addetti ai lavori, le interviste si concentrano su schemi concreti, che di volta in volta possono essere scalette, appunti, brogliacci, alberi genealogici, schede dei personaggi, disegni, tabelloni da detective e crazy wall…
Oltre a porre alcune domande dirette su questo o quel problema tecnico, abbiamo chiesto agli intervistati di metterci a disposizione parte dei propri scartafacci e di discuterli insieme a noi. Ma l’obiettivo più importante di questi dialoghi è invitare gli appassionati di letteratura a esplorare il backstage del testo insieme a chi lo ha concepito e realizzato, sia per conoscere aspetti nascosti di testi letti e apprezzati, sia per scoprire opere, autrici e autori che ancora non si è avuta l’occasione di incontrare.
Le precedenti interviste sono state fatte a Giorgio FontanaClaudia DurastantiFilippo TuenaMelania G. MazzuccoAlessandro Piperno, Domenico StarnoneGiorgio FalcoHelena JaneczekNicola LagioiaValeria Parrella e Massimo Carlotto.
[questa rubrica è nata da un’idea di Claudio Lagomarsini]


Francesco Pecoraro

Francesco Pecoraro, classe 1945, per buona parte della sua vita ha esercitato la professione di architetto in un ente pubblico. Il suo primo libro, la raccolta di racconti Dove credi di andare (2007, vincitore del Premio Napoli), esce nel 2007. Fin dall’inizio degli anni Zero Pecoraro è molto attivo in rete, in particolare con il blog tashtego, dove pubblica brevi prose: un campione significativo di questo zibaldone viene raccolto nel volume Questa e altre preistorie (2008). Del 2013 è il suo primo romanzo, La vita in tempo di pace (finalista al Premio Strega), che ripercorre attraverso una vicenda pseuo-autobiografica la storia d’Italia degli ultimi sessant’anni. Condivide molti dei temi affrontati e anche l’ambientazione romana del primo romanzo, Lo stradone (2019, finalista al Premio Campiello). La narrativa di Pecoraro riesce a coniugare una precisa osservazione sociologica e uno scandaglio emotivo capace di arrivare alle più alte temperature. Pecoraro ha pubblicato anche poesie, Primordio vertebrale (2012) e, recentissimamente, Nodulo (2021).

Come autore lei arriva tardi alla letteratura. Al tempo stesso è stato tra i primi a esplorare l’universo della scrittura “webbica” – per usare un aggettivo di suo conio – con il blog Tashtego, ma anche con la partecipazione attiva a blog collettivi e a varie reti sociali. Questi due universi di scrittura sono oggi irrimediabilmente connessi e producono influenze e interferenze. In un’intervista di qualche anno fa ha dichiarato: «Sono tra coloro che rischiano l’annientamento: se sei uno scrittore e finisci per scrivere soltanto cose estemporanee su Facebook, stai varcando la soglia di un territorio sconosciuto, dal quale potresti non più tornare»; al contempo però ha affermato che «molti temi che ho intenzione di sviluppare sono già sulla mia bacheca Fb», a dire di come la scrittura in rete possa anche fare da pungolo e fornire un primo ambiente di test per quella letteraria. Nel corso della sua esperienza di scrittore il bilancio di questo rapporto da che parte pende? È più quello che la distrazione sul web le ha fatto perdere o più quello che le ha permesso di sperimentare? Ha notato variazioni significative nel corso di questi anni di frequentazione della rete?

Come scrittore nasco con il primo computer cui ebbi accesso nell’85, che mi permise di buttare giù testi tecnicamente non impegnativi – ho una pessima calligrafia e scrivo male a macchina –, infinitamente cancellabili, rivedibili e correggibili, un po’ come le (false) partite a scacchi che facevo contro un programma rudimentale che mi batteva molto spesso, ma mi consentiva di ritornare sui miei passi e di cambiare mossa ogni volta che si rivelava sbagliata. Come accadeva con la progettazione architettonica, il computer agiva sia sulla concezione che sulla stesura: la liquidità tecnica della scrittura aveva un effetto retroattivo sui contenuti del textus, del tessuto di parole che consentiva di imbastire. Stesso effetto, ma più potente, si verificò, almeno per me, con la connettività in rete e il suo progressivo – all’epoca interessantissimo, adesso meno – espandersi usando principalmente la parola. Non occorreva pubblicare, si poteva scrivere ed essere subito letti e commentati. L’opera, intesa come oggetto fisico contenente a sua volta un oggetto mentale fatto e finito, sembrava morta, cancellata nel flusso. Era bello immettersi nella corrente, lasciarsi trascinare dalla connettività e allo stesso tempo introdurvi e riceverne dati e contenuti. Alla fine del secolo XX la rete cambiò tutto e mi aprì varchi su una disciplina che fino alla metà degli anni Ottanta non avevo mai praticato, la scrittura. In seguito sopravvenne una certa stanchezza e addirittura ripugnanza. Uscire dai social era possibile, ma staccarsi del tutto dalla rete no. Tuttavia, finora internet non ha mantenuto le promesse degli inizi, quando nelle discussioni di allora intravedevamo addirittura opere aperte e istanti di poesia collettiva. Tuttavia è in rete che mi sono esercitato e formato, è lì che mi sono messo in contatto con i miei simili, scrittori o aspiranti tali ed è lì che ho prodotto i primi lotti di scrittura organizzata.

Ora non è più su Facebook, mentre ha un profilo su Twitter e Instagram: il passaggio a due social network improntanti meno sulla scrittura – se non brevissima, icastica – e più sull’immagine, ha fatto sì che la rete smettesse di essere il suo laboratorio di scrittura? In questo senso, con l’evoluzione delle reti sociali, c’è stata anche una nuova evoluzione nel suo modo di intendere la natura condivisa della scrittura (almeno nelle sue prime forme)?

La prima volta uscii da Fb perché mi sottraeva troppo tempo al lavoro di scrittura: cioè era sempre scrittura, mi ci dedicavo con passione, troppa, e non riuscivo più a tenere la testa su un libro che stavo scrivendo. La seconda volta sono uscito da Fb perché è diventata troppo circoscritta ad amicizie pregresse, stato sociale, professione, interessi, parentele e addirittura al quartiere dove si vive. Con i suoi non so quanti miliardi di utenti stranamente Fb si è progressivamente ristretta tribalizzando sempre più i contatti. Insomma, come si dice, lì ormai comanda del tutto l’algoritmo e si ha la sensazione di essere osservati troppo da vicino. Twitter ti osserva ma più discretamente e ti insegna che, almeno per quanto concerne il contenuto, la scrittura che solitamente usi è largamente ridondante. Sono considerato, probabilmente a ragione, uno scrittore ridondante ed è proprio per questo che quella che definirei l’anti-letterarietà di Twitter non incide più di tanto sull’attenzione al lavoro e non si intreccia con la scrittura-scrittura che serve per fare un libro. Twitter è interessante in sé, non (come invece accadeva per Fb) come sostituto del lavoro letterario, cioè come quella nuova letteratura che non è mai arrivata, oppure che esiste già ma non è ancora stata scoperta. 

Lei è stato uno dei primissimi autori accolti da PAD-Pavia Archivi Digitali: fino a un certo punto della sua produzione, tutti i materiali inerenti alla preparazione e alla stesura dei suoi libri sono stati scaricati e raccolti in un archivio digitale, che è tuttora in fase di organizzazione. La pubblicazione di alcune prime e sommarie ricognizioni (come questa) ha offerto la fotografia di una “scrivania” affollata di file e cartelle, doppie e triple copie, backup e riscritture. Le andrebbe di descriverci come si organizza il suo tavolo di lavoro virtuale mano a mano che procede nella costruzione di un libro?

Il mio modo di lavorare è molto cambiato nel tempo. Il caos che sta dietro i miei primi lavori, non è lo stesso tipo di caos con cui sono riuscito a costruire gli ultimi. Solo i racconti di Dove credi di andare, e nemmeno tutti, nascono da uno schema, un progetto, un’intenzione precisa, un piano di lavoro. Anzi, quando ho fatto un piano di solito non l’ho realizzato. Però, nella stesura di un testo, a un certo punto, cioè molto presto, è necessario un sistema di organizzazione, sia dei materiali di appoggio, testuali e visivi, sia delle varie versioni che vengono ad accumularsi. Da qui cartelle e sottocartelle e sotto-sottocartelle, talvolta raddoppiate da me, per paura di perderle, ma più spesso moltiplicatesi da sole per motivi che ignoro. Anche il conferimento al PAD di Pavia fu un atto auto-conservativo. L’idea che lì ci fosse riposta la mia roba – parte della mia roba – mi dava e tuttora mi dà una certa tranquillità. Comunque, una volta creata e nominata la cartella – per La vita in tempo di pace (VTP) fu inizialmente la cartella Spitfire, titolo provvisorio del libro – relativa alla costruzione di un testo, poi tutto ciò che è attinente finisce lì dentro possibilmente in sotto-cartelle. Dopo di che, revisione dopo revisione, arrivo a un testo, ancora molto difettoso, che mando all’editor. Da quel momento parte un’altra storia.

Ritorno sulla questione del web. Un suo libro, Questa e altre preistorie (2008), è composto integralmente di materiali provenienti dal suo blog (appositamente selezionati per la pubblicazione). Negli altri suoi libri, l’influenza della scrittura in rete è indiretta, meno visibile, ma comunque presente; lei stesso ha dichiarato che alcuni brani poi confluiti in La vita in tempo di pace (2014) o Lo stradone (2019) erano già stati elaborati in forma di post su blog o social network. Più in generale, però, mi sembra che questa influenza si manifesti in maniera più profonda nella struttura “modulare” dei suoi libri. Tanto La vita in tempo di pace quanto Lo stradone prevedono lo sviluppo alternato di due linee narrative. Queste però nell’ultimo romanzo si fanno meno nettamente definite: i titoli dei capitoli, ad esempio, non riflettono una scansione regolare, ma presentano la somma di tante tessere distinte, suddivise a loro volta in “lasse” più o meno lunghe, non dissimili da quelle che componevano Questa e altre preistorie. L’impressione è che, pur in libri corposi e densi come i suoi, rimanga qualcosa della frammentarietà con cui oggi si concepiscono e fruiscono i testi attraverso i media digitali (frammentarietà che, peraltro, le consente di tenere insieme sequenze narrative, saggistiche, autobiografiche…). Esiste un metodo ricorrente con cui lei assembla i suoi romanzi? Quale criterio ha orientato la composizione dello Stradone, al di là dello sviluppo cronologico che ordina le sequenze?

Lo stradone e VTP si sono costruiti in modo diverso. Per VTP andavo avanti a brani più o meno scomposti – la mia idea all’epoca era di «vuotare il sacco», cioè dire cose e poi altre cose e altre ancora – ma a un certo punto ho sentito il bisogno di dare un ordine narrativo al lavoro che stavo facendo. Da qui ho costruito una specie di disegno, cioè un progetto di struttura di cui da qualche parte devo avere lo schema, che rimanda a un’architettura classica. Era qualcosa del genere.

Mi ispiravo al tempio dorico di cui sono un appassionato ammiratore: i capitoli sarebbero state le colonne, mentre l’aria che c’è tra le colonne, scritta in rosso, sarebbe stata l’attesa all’aeroporto di Sharm. Lo stilobate era il prologo. Il timpano superiore, l’epilogo. Il difetto, come subito mi accorsi, era che le colonne erano dispari, mentre nel tempio classico – eccettuata la Basilica di Paestum – sono sempre pari. Però mi dissi che stavo costruendo un testo e non un tempio greco.

Una volta giunto allo schema mi accorsi che mancavano almeno due colonne, cioè due capitoli, che scrissi appositamente, mentre altre colonne, a seconda del caso, andavano assottigliate o irrobustite. Ma avevo una struttura e tanto mi bastava. Francamente oggi non so dire perché la narrazione è a ritroso, ma mi sembra funzioni abbastanza bene così. Ricordo la mia felicità quando riuscii a scovare quest’idea strutturale, di derivazione architettonica, che oggi mi appare abbastanza stupida, ma che con VTP mi diede una grossa mano.

Lo stradone invece è più una palla di pongo. Il procedimento di scrittura a brani si estremizzò fino al punto che non credevo di poterne fare un libro. Poi con aiuto di amici e parenti riuscii a trovare dei nuclei di aggregazione narrativa, che restano comunque radi. L’idea cui mi arresi fu quella di un continuum con alcune singolarità. Il lavoro di revisione e ripulitura della scrittura fu molto lungo e faticoso. Anche qui disegnai alcuni schemi, due dei quali finirono direttamente nel libro.  

Entrambi i testi contengono temi che probabilmente avevo già messo in rete, forse perché proprî di qualche mia ossessione ricorrente, ma il loro vero sviluppo avvenne sulla pagina. VTP nasce più solido e vissuto e per me molto più coinvolgente di Stradone, cheperò mi appare scritto meglio e più corrispondente alla mia attuale confusione mentale.

Ha detto che La vita in tempo di pace si è sviluppato secondo un procedimento accumulativo – il “vuotare il sacco” – che poi ha provato a contenere attraverso uno schema strutturale elaborato a posteriori ma che l’ha indotta anche a scrivere – se comprendo bene – due capitoli ad hoc per equilibrare l’ordine complessivo. è quindi corretto dire che gli interventi di revisione dell’opera hanno interessato solo la struttura (aggiunta o eliminazione di tessere), oppure c’è stato anche un lavoro di sfrondamento/alleggerimenti dei singoli brani che aveva progressivamente accumulato? Potrebbe farci un esempio, dell’uno o dell’altro procedimento (che tipo di capitolo ha aggiunto/eliminato e perché; o in che modo è intervenuto per sfrondare i brani, sacrificando elementi narrativi o sequenze saggistico-speculative)?

Sono passati 11 anni da quando iniziai a lavorare seriamente a Spitfire, divenuto poi La vita in tempo di pace e molti di quei file primordiali sono stati cancellati. Come ho accennato qui sopra, quando ho finalmente raggiunto un’idea d’insieme (con il doppio svolgimento temporale), ho lavorato sugli elementi, smagrendoli irrobustendoli e inventandone di nuovi. Alcuni materiali del romanzo, non moltissimi, erano già stati elaborati in forma diversa già qualche anno prima. L’averli ripresi ha significato un faticosissimo lavoro di riscrittura totale. Ri-elaborare è più faticoso e difficile di elaborare e credo che capiti di farlo a molti scrittori. Il capitolo su cui ho lavorato di più, con risultati non del tutto omogenei col resto del libro (se ne accorse Angelo Guglielmi), è Sofrano, il più puramente “narrativo” di tutti. Ma andare a ripescare i vecchi file per mostrare un procedimento di rielaborazione su cui non ho mai riflettuto è cosa che davvero non mi sento di fare. Mi emoziona, mi rimette in circolo un sacco di dubbi su come VTP poteva essere e non è stato. Gli arnesi di bottega e i pezzi scartati, che poi riletti non sono tanto male (mi chiedo perché li avrò scartati), li lascerei dove sono, al riparo nelle sub-directory delle sub-directory delle sub-directory.   

La Nota conclusiva dello Stradone restituisce le fonti bibliografiche delle vicende narrate nei capitoli relativi al Quadrante delle Argille e alla Sacca. Non si tratta però degli unici materiali extra-letterari confluiti nell’opera. Penso ovviamente alle battute degli avventori del Bar Porcacci, lampi brevissimi di romanità che letteralmente scandiscono il racconto, fornendo un controcanto icastico e spesso spaesante all’incedere ben più posato della narrazione. Ecco allora che io mi immagino l’autore che, durante gli anni di stesura dello Stradone, quotidianamente passa un certo tempo seduto ai tavoli di questo bar e su un taccuino si segna gli scambi più interessanti e in un secondo momento li inserisce, senza rielaborarli, nel corpo del testo che stava scrivendo. Come sono andate realmente le cose? E come si restituisce l’immediatezza del dialetto sulla pagina romanzesca?

L’idea di Stradone nacque quando mi resi conto di aver accumulato molto testo riguardante la città che mi circondava e di avere voglia di scriverne ancora, approfondendone la storia. Fu così che mi ritrovai in biblioteca immerso per più di un anno nelle diatribe marxiste degli anni Zero del ‘900 e nelle vicende della Sacca, dalle quali era spuntato fuori Lenin, che una leggenda locale vuole abbia visitato questi luoghi, maledetti sin dai tempi del Sacco di Roma del 1527 e all’epoca sconvolti dalla produzione massiccia di mattoni. Oggi qui c’è una normale non-città speculativa, che ancora risente di quelle vicende.  

Per i dialoghi del bar Porcacci (che non esiste, è la sintesi di vari luoghi) le cose sono andate esattamente come ipotizzato, i materiali li ho raccolti nel corso del tempo, trascrivendoli nel momento stesso in cui mi capitava di ascoltarli. Ma senza l’intenzione di usarli in un particolare progetto. Prendo spesso appunti, o meglio lo facevo prima che il virus annientasse le aggregazioni a distanza ravvicinata. Nel caso di Stradone mi sono serviti per ricordarmi e ricordare che la realtà sociale e la cultura circostanti mi/ci ignorano, che le persone semplicemente vivono immerse nel presente della strada e della città e del mondo adoperando un costrutto mentale, al fondo solido, che si rivela nella sintesi fulminea del linguaggio.