Fuori dagli schemi, il mestiere di scrivere raccontato da chi lo fa è una serie di interviste a scrittrici e scrittori pensata per esplorare alcuni aspetti del lavoro sul testo letterario che normalmente vengono lasciati da parte, taciuti o tenuti gelosamente nascosti. Fuori da schemi interpretativi per addetti ai lavori, le interviste si concentrano su schemi concreti, che di volta in volta possono essere scalette, appunti, brogliacci, alberi genealogici, schede dei personaggi, disegni, tabelloni da detective e crazy wall…
Oltre a porre alcune domande dirette su questo o quel problema tecnico, abbiamo chiesto agli intervistati di metterci a disposizione parte dei propri scartafacci e di discuterli insieme a noi. Ma l’obiettivo più importante di questi dialoghi è invitare gli appassionati di letteratura a esplorare il backstage del testo insieme a chi lo ha concepito e realizzato, sia per conoscere aspetti nascosti di testi letti e apprezzati, sia per scoprire opere, autrici e autori che ancora non si è avuta l’occasione di incontrare.
Le precedenti interviste sono state fatte a Giorgio Fontana, Claudia Durastanti e Filippo Tuena.
[questa rubrica è nata da un’idea di Claudio Lagomarsini]


Melania G. Mazzucco

Uno degli assi portanti della produzione narrativa di Melania G. Mazzucco è il dialogo tra racconto e storia dell’arte. A partire dal suo secondo romanzo, La camera di Baltus (1998), fino all’ultimo pubblicato, L’architettrice (2019), passando per La lunga attesa dell’angelo (2008), Mazzucco ha infatti spesso messo al centro del proprio racconto la figura dell’artista (da Tintoretto e sua figlia a Plautilla Bricci), per fare luce su aspetti della vita e dell’opera che possano estendere i propri riflessi fino all’epoca contemporanea. Le complesse architetture narrative in cui si articolano questi romanzi storico-artistici stanno a dimostrare la necessità di mettere in dialogo sguardi, voci e anche tempi diversi per far affiorare un significato che l’autrice cerca di recuperare attraverso puntuali indagini archivistiche. Mazzucco si è poi dedicata alla storia dell’arte anche in veste di saggista e studiosa, con la ricca biografia Jacomo Tintoretto & i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana (2009) e con Il museo del mondo (2014), raccolta di cinquantadue storie legate ad altrettanti capolavori. C’è poi un’altra linea all’interno della narrativa dell’autrice, che, facendo sempre ricorso alle modalità dell’indagine storica e al confronto tra scrittura d’invenzione e realtà documentata, si orienta a ricostruire vicende di donne in conflitto per la propria emancipazione, nelle diverse epoche della storia: ne sono testimonianza, ad esempio, Il bacio della Medusa (1996), suo romanzo d’esordio, Io sono con te. Storia di Brigitte (2016) e soprattutto Vita (2003), con cui ha vinto il Premio Strega.

Pur essendo un romanzo dall’ampia campata narrativa, L’architettrice non mostra una struttura complessa. La vita della pittrice e architettrice Plautilla Bricci fa da palinsesto a una trama che si costruisce per agglutinazione di singoli motivi, che riguardano di volta in volta le vicende particolari della protagonista e dei personaggi a lei prossimi, oppure le trame della Roma secentesca, tra intrighi di corte (la corte papale) e conflitti artistici. Come ha lavorato alla costruzione dell’intreccio? Quest’impressione corrisponde all’effettiva composizione della struttura narrativa?

L’architettrice non è esattamente ciò che sembra. Non è infatti la biografia di Plautilla ma la storia di Villa Benedetta – della sua costruzione e della sua distruzione. Il primo livello narrativo racconta perciò come e perché, in quali tempi e circostanze Plautilla Briccia, una donna romana di famiglia modesta, vissuta nel Seicento, pittrice neanche troppo conosciuta, riuscì a progettare ed edificare una villa come i più grandi architetti del suo tempo, e a diventare così la prima architettrice della storia moderna. Il secondo livello racconta la demolizione di quella stessa Villa, cannonata dopo cannonata, nell’estate del 1849, durante l’assedio francese alla Repubblica romana. Le due sequenze non si incastrano e non si corrispondono (per esempio nella lettura la demolizione precede la costruzione), sicché un livello non è il riflesso dell’altro – un po’ come nelle gallerie con gli specchi deformanti che Plautilla, Elpidio e i loro contemporanei amavano collocare nelle loro case (ce n’era una infatti anche a Villa Benedetta). Non ho costruito l’intreccio, che in qualche modo era già scritto – avendo al suo centro un’assenza, la Villa appunto. Ho lavorato intorno a quel vuoto. Quanto alla scelta degli episodi, sono ispirati o tratti dai documenti che via via rinvenivo. Per le scene mi sono concentrata sui passaggi chiave dell’esistenza di Plautilla. La scoperta dell’altrove (la balena, le catacombe), la fine dell’innocenza (la malattia del padre, i tradimenti di Albina, Romanelli, Macconi), la morte onnipresente (ossessione barocca ma anche della vita quotidiana dell’epoca), la formazione artistica e le difficoltà degli inizi, l’amore e l’alleanza con Elpidio Benedetti, e in particolare ho cercato di valorizzare quanto atteneva al destino delle donne in contrapposizione al suo (suor Eufrasia, la madre Chiara, la sorella Albina, la sarta Marta, le nipoti Giustina e Margherita, la figlia mancata Virginia). Per la storia del 1849 ho selezionato, nelle memorie di Leone Paladini e dei suoi compagni, gli scontri, i crolli, i bombardamenti, gli atti eroici o insensati che si verificarono fra le mura della Villa. Ho fatto di Leone Paladini il protagonista di quel segmento narrativo perché la sua figura di autodidatta, pittore mancato, scrittore mancato, mattoide solitario e sognatore ne fa l’ombra (lui sì, il riflesso) dei tre protagonisti del ‘600 (Plautilla, Elpidio, Giovanni Briccio).     

L’architettricenon è il suo primo romanzo di ambientazione storica (basti pensare a Vita con cui ha vinto il Premio Strega nel 2003) e soprattutto non è il suo primo romanzo che ha per protagonista un artista (dall’esordio La camera di Baltus a La lunga attesa dell’angelo dedicato a Tintoretto): esiste ormai un metodo di lavoro collaudato nella ricerca storico-documentaria (a cui spesso si allude all’interno dei romanzi stessi), nell’uso delle fonti, così come una prassi compositiva nella stesura dei racconti e, magari, anche nella necessità di costruire delle simmetrie simboliche (penso al ricorso all’Intermezzo in quest’ultimo romanzo, che rivela il bisogno di riflettere la storia principale da un punto di vista più ravvicinato)? Oppure ogni storia che lei ha intercettato e che l’ha affascinata ha generato un percorso e quindi anche un racconto diverso? E qual è il suo rapporto rispetto alla tradizione delle biografie storico-artistiche (che in Italia vanta, tra gli altri, i nomi di Maria Bellonci e Anna Banti)?

Sì, ogni storia pretende un itinerario diverso – sia nell’approccio documentario sia nella scrittura. Il “metodo Mazzucco”, diciamo così per semplificare, precede la consapevolezza della sua esistenza e la conoscenza delle opere capitali del genere, che lei giustamente cita. Istintivo, corrisponde a un mio modo di essere, di curiosare nel mondo e quindi di scrivere. In un certo senso, già nel Bacio della Medusa – che ho composto nel 1991-92, e pubblicato nel 1996 – gli elementi essenziali erano già presenti: la ricerca archivistico-documentaria (in quel caso, sui manicomi piemontesi di fine XIX secolo-inizio XX), l’indagine sul campo (ricognizioni in Valle Stura e nei villaggi delle Alpi Marittime, prima come volontaria guardia forestale, poi come ricercatrice sulle rotte dell’emigrazione del primo ‘900), la raccolta di testimonianze (incontri con anziani e gente del posto, studiosi di folklore e glottologi), la reinvenzione narrativa che a quelle ricerche/indagini si affianca e che talvolta anticipa e orienta. A differenza di quanto si può pensare, infatti, la ricerca non viene prima della scrittura ma insieme ad essa – tanto che la scrittura influenza la ricerca almeno quanto la ricerca influenza la scrittura. Più o meno tutti i miei libri li ho scritti così – anche i romanzi “contemporanei” (Un giorno perfetto, Limbo, Sei come sei) e il non-fiction Io sono con te. Storia di Brigitte. Però i libri poi sono tutti diversi. In qualche caso (La camera di Baltus, Vita, Sei come sei) il sovvertimento della cronologia e dei tempi della narrazione, la mise en abyme etc, mi sono sembrati indispensabili per valorizzare il passaggio delle epoche o delle generazioni, o il lavoro ondivago di recupero sulla memoria (Io sono con te); in altri (Un giorno perfetto, La lunga attesa dell’angelo) la struttura fungeva da cornice di contenimento e da inquadratura della vicenda. Ma anche in questo caso la struttura non precede la narrazione, si forma insieme a essa. Non è cioè una costruzione intellettuale a posteriori ma lo scheletro della creatura vivente (l’organismo del romanzo in fieri), che cresce attorno al suo embrione e ne è il naturale sviluppo.

Quanto ai lavori di Banti e Bellonci, li ho incontrati colpevolmente tardi, proprio dopo la pubblicazione del Bacio della Medusa, che mi portò al premio Strega. L’allora segretaria, Annamaria Rimoaldi, mi disse che il mio modo di scrivere e la mia passione per le fonti di prima mano le ricordavano Maria Bellonci, di cui era stata assistente per molti anni, e mi suggerì di leggere I segreti dei Gonzaga. Cosa che feci subito, vergognandomi di essermi laureata in letteratura italiana moderna e contemporanea senza aver mai incontrato un’autrice di tale valore. A quel punto lessi tutto ciò che Bellonci aveva scritto, e in seguito anche i lavori di Anna Banti – sia di argomento artistico che storico (Lavinia fuggita, La camicia bruciata etc). Ritengo Lucrezia Borgia, Rinascimento privato e Artemisia dei caposaldi della nostra narrativa. La letteratura italiana, spesso carente nel romanzo puro, ha opere straordinarie nel genere narrativo biografico (gli anglosassoni dividono il romanzo storico e la biografia, rifiutando il concetto di ibridazione). Penso, oltre che alle scrittrici su nominate, a Savinio e Pontiggia, alla Ginzburg de La famiglia Manzoni, a Vassalli (La notte della cometa), o ai contemporanei Guarnieri (Atlante criminale su Lombroso e Forsennatamente Mr. Foscolo), Mari (Io venia pien d’angoscia a rimirarti), Scurati (su Leone Ginzburg e Mussolini), Tuena (Le variazioni Reinach).

Sempre a proposito di metodo e uso delle fonti: la moda più diffusa, di questi tempi, in materia di romanzo storico (o “ibrido”, come si usa dire), prevede l’esibizione, insieme al racconto, anche della ricerca autoriale che ha permesso di comporlo. Nell’Architettrice, così come in altri suoi romanzi, lei sembra prediligere invece una forma tradizionale di narrazione, che concede tutto il rilievo ai personaggi di cui si ricostruiscono le vicende (affidando, come detto, alle soglie o ai paratesti il compito di testimoniare la ricerca che ha reso possibile la narrazione): dove trova origine questa scelta?

In verità ho scritto romanzi ibridi ben prima che essi diventassero una sorta di formula – quale essa mi appare oggi. Cioè una dichiarazione preventiva d’autorialità volta a sottrarre lo scrittore al mainstream mid-cult del romanzo storico nell’odierna accezione commerciale, e quindi a una declassificazione/svalutazione del suo lavoro. Ho messo in scena la mia ricerca e me stessa nel 2000, in Lei così amata, e nel 2003, con Vita. In entrambi i casi, mi era sembrato necessario coinvolgermi come personaggio-non personaggio tra coloro di cui narravo la storia – ma per ragioni diverse. Il primo era un romanzo documentario sulla scrittrice, viaggiatrice e fotografa svizzera Annemarie Schwarzenbach, a quel tempo del tutto dimenticata e praticamente inedita in Italia. Ho raccontato nel libro i tre momenti principali del mio incontro con la protagonista: la visita nella casa di famiglia (divenuta sede di una banca) a Bocken, vicino Zurigo, e il mio ritrovamento dell’inventario dei mobili, che mi avrebbe permesso di immaginare le scene lì ambientate; la “seduta spiritica” alla Zentralbibliothek di Zurigo, quando mi proiettai le migliaia di negativi fotografici scattati dalla madre: gli Schwarzenbach apparvero sullo schermo bianco nella saletta asettica delle consultazioni e fu come una resurrezione; la visione alla moviola del film girato da Annemarie in Afghanistan, disperso e da me ritrovato alla Cinémathèque di Lausanne: in esso, per pochi secondi, Annemarie appare viva, presente, felice, al di là della morte e del suo mito. Furono tutti momenti epifanici, che hanno influenzato il modo in cui avrei composto il romanzo – il quale fu, proprio come indica il titolo rilkiano, un viaggio nell’oltretomba, per riportare alla luce la mia Euridice. Il caso di Vita era diverso. Raccontavo in quel libro la storia della mia famiglia, riscoprivo segreti, bugie, squallori e fallimenti dei miei antenati, parenti, genitori. Mi sembrava doveroso, quasi necessario, mettermi in gioco allo stesso modo, ritraendomi così com’ero allora, prima e durante la composizione del romanzo – fragile, assediata dalla paura di vivere, in lotta coi miei fantasmi. Mi raccontavo quindi più per motivi etici che letterari. Ma in seguito, in Italia dopo il successo di Soldati di Salamina di Cercas, e dei libri di Carrère e di W.G. Sebald, la presenza dell’autore nei testi è diventata prevedibile, quasi un vezzo scontato. Siccome preferisco ideare prototipi ma diffido delle formule e rifuggo dalla serialità, mia e altrui, che mi sembra sempre un preludio al ripiegamento creativo, ho cercato altre strade, e mi sono ritirata dal mio racconto, rifugiandomi, come giustamente nota lei, nel paratesto. L’avventura della ricerca è finita nelle note del mio saggio, Jacomo Tintoretto & i miei figli, 2009, oppure ai bordi del volume ne L’architettrice (nel capitolo “Roma 2002-2019”) traslandosi anche al di fuori di questo, nella nota online sul sito Einaudi. Ai miei romanzi di storia per ora io non mi ritengo necessaria. Non è una scelta definitiva, potrei ricredermi.  

Nella sua bibliografia, oltre ai romanzi, figurano anche un certo numero di opere saggistiche o, comunque, non finzionali. Tra queste una biografia di Tintoretto, Jacomo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana (2009), uscito un anno dopo il romanzo a lui dedicato. Cos’ha significato lavorare sulla stessa materia a partire da due sguardi differenti, quello della narrazione romanzesca e quello della ricostruzione storico-documentaria? Quali sono state le differenze principali di questi due procedimenti? E come mai, nel caso di Plautilla Bricci, ha deciso di optare per il romanzo?

Il progetto iniziale dei miei lavori sui Tintoretto prevedeva una biografia di Marietta Tintoretta, la figlia pittrice. Man mano che approfondivo la ricerca, però, mi sono resa conto di due cose. Marietta non poteva essere compresa senza il padre, né raccontata senza di lui. Come donna e come pittrice è stata una creazione di Tintoretto, che l’ha in ogni senso inventata. Ed è stato lui a raccontare la sua vita ai biografi, selezionando ciò che voleva tramandare di lei e ciò che voleva tacere. Tintoretto è stato il suo autore. Il suo romanziere, quindi. Ho deciso a quel punto di scrivere non uno ma due libri: un romanzo e un saggio. Separandoli. Il romanzo era la mia versione della storia, con Tintoretto come voce narrante, in quanto ri-scrittura del romanzo di Marietta da lui originato. Di questo romanzo il saggio (la biografia da lei citata del pittore e della sua famiglia) era la contro-narrazione. Li ho scritti insieme e insieme terminati, e avrei voluto pubblicarli contemporaneamente e nello stesso formato, anche se poi Rizzoli preferì, per comprensibili ragioni editoriali, farli uscire a un anno di distanza l’uno dall’altro. La biografia come contro-narrazione rinvia al contro-romanzo che chiude Il bacio della Medusa (1996): raccoglie i dati, i fatti accertati e le ipotesi interpretative di essi. Chi ha letto entrambi i libri sa che le due narrazioni non sempre coincidono, e che nel romanzo ho lasciato talvolta la ‘versione di Tintoretto’, pur avendo dimostrato nel saggio che si tratta di una leggenda. Del resto avevo fatto lo stesso con Vita – anche lì talvolta ho accettato la variante inventata o mitizzata della storia, a me giunta dai miei testimoni, pur avendone riscontrata la non veridicità (episodi accaduti ad altri personaggi, cronologia e luoghi diversi, rovesciamento del senso delle azioni etc). La separazione delle due narrazioni era indispensabile. Con L’architettrice invece ho scelto il romanzo puro. Almeno in apparenza (nulla vi è di inventato, infatti). A differenza del geniale Tintoretto, creatore infinito di cui l’opera è oggi interamente fruibile, accessibile a tutti, vitale, Plautilla è stata una donna elusiva e segreta e un’artista sommersa e quasi svanita. Inoltre, nel suo caso, i silenzi (anche documentali) parlano più delle evidenze. Ho ritenuto che una biografia non avrebbe potuto rendere la complessità della sua avventura esistenziale e dei mondi che ha attraversato. Ma nelle note pubblicate on-line ho fornito ai lettori tutte le informazioni necessarie per ritrovare le fonti (archivistiche e non) di ogni episodio, personaggio, luogo – in modo che possa comprendere come ho lavorato sui documenti, come li ho interpretati, come ho decostruito letture precedenti, proposto nuove vie etc. Mi è sembrata un’avventura letteraria inedita – per i lettori e per me.

Uno dei punti forti del suo ultimo romanzo risiede nella voce narrante, quella di Plautilla Bricci, che con serena e orgogliosa consapevolezza ricostruisce la sua parabola artistica e umana. Come ha lavorato per scegliere la sua postura discorsiva? A colpire, poi, del suo racconto, è la mimesi di un’oralità secentesca che non prevede sbavature e che, anzi, viene utilizzata in una sorprendente varietà di registri e toni: qual è stata la genesi di questa lingua?

Una delle domande principali che mi pongo quando scrivo una storia è come parlano i personaggi. Perché è evidente che la lingua che usano veicola il loro modo di pensare, tradisce la loro origine, la loro cultura o assenza di cultura etc. Non si tratta di inseguire una mimesi impossibile, di un virtuosismo letterario fine a se stesso o di filologia erudita che non trasmetterebbe alcuna emozione, ma di avvicinarsi ai personaggi, al loro modo di sentire, per renderli più vividi e vicini. Che fossero la Medusa pastora analfabeta del ‘900, i ragazzini meridionali di Vita, il poliziotto di Un giorno perfetto, la sottufficiale degli alpini di Limbo o il veneziano Tintoretto, avevo sempre bisogno di sentire la loro voce per capire i loro pensieri e quindi le loro azioni. Coi contemporanei è questione di orecchio e di sensibilità (al parlato, al gergo, ai luoghi comuni), con le persone vissute in altri secoli bisogna essere inventivi. La letteratura d’epoca non aiuta, e anzi fuorvia. Bisogna cercare i dialoghi nei processi conservati negli archivi, nelle lettere domestiche, nei diari, negli scartafacci del teatro… E così ho fatto con Plautilla. Ho letto le carte dei romani suoi contemporanei – i testamenti, gli strumenti dotali, i codicilli, gli inventari, le testimonianze ai processi per reati minori, le suppliche inviate ai potenti, le preghiere, le novelle, gli almanacchi, gli oroscopi, le cronache dei crimini, le relazioni sui fatti del mondo. Rispetto al Tintoretto, avevo però un vantaggio. Il padre di Plautilla, Giovanni Briccio, era uno scrittore. Ha scritto centinaia di opere – fra cui teatro da strada, barzellette, canzoni, ballate e racconti popolari. Ho avuto quindi la possibilità di conoscere con esattezza la lingua di Plautilla – un romanesco meraviglioso, spesso ironico e materico, grezzo e concreto quando parlava ai suoi simili, affettato e immaginifico quando si rivolgeva alle classi superiori. Ho ritrovato in quelle carte parole e modi di dire di straordinaria espressività e vigore (come sempre nei dialetti), e anche una lingua letteraria sorprendentemente moderna, fresca, vivace, immediata. Posso dire perciò che la voce del Briccio e di tutti i romani di allora risuona in quella che ho prestato a Plautilla.

La ringrazio per come definisce la voce di Plautilla. Orgogliosa e serena. Sono esattamente gli aggettivi che ho inseguito per lei. Non volevo un personaggio che lasciasse trasparire vanità, recriminazione o vittimismo. Insieme al disincanto romano – che indubbiamente appartiene anche a me – volevo restituirle la saggezza semplice di chi sa di avere vissuto la propria vita fino in fondo, e di avere creato. Quanto basta per lasciare al lettore un sentimento di pienezza – pur nell’assenza della Villa, e nel silenzio della Storia. In un certo senso, il romanzo è anche il negativo della fotografia di Lecchi (Sentinella francese) che avvia il racconto e figura riprodotta nel prologo. La voce di Plautilla riempie quel vuoto desolante al centro dell’immagine e lo colma di rumore, colore, vita.


Vi propongo adesso un esempio di come il mio lavoro di scrittura procede a partire dai documenti d’archivio. I documenti che trascrivo di seguito provengono dal Registro dei morti II (1606-1653) dell’Archivio della Parrocchia di Santa Maria in Traspontina, conservato presso l’Archivio Storico del Vicariato di Roma (ASVR).

1626, Adi primo agosto
13 (Nda: è il numero dei morti a contare dall’anno 1626) Antonia puttina di tre anni figlia di del sigr. Gio. Briccio pittore romano et sua madre Chiara, morì la detta figlia il primo a hore doi (?) di notte, et fu sepolta il di 2 in chiesa nostra à hore 22.

Il documento attesta che nell’estate del 1626 la famiglia Bricci (Plautilla ha 10 anni) abita a Borgo Vecchio, nella parrocchia di santa Maria in Traspontina.
L’informazione è confermata dal documento successivo:

1627, c. 117v
Giuliana puttina di doi anni figlia del sig.r Giovanni Bricij Pittore morì il di 28 agosto in Borgo Vecchio, et fu sepolta il 29 sud.to in chiesa nostra.

(Dagli Status Animarum della parrocchia di santo Spirito – qui non trascritti – si evince che, a partire dal 1629, la famiglia risiede in Borgo Vecchio alle Tre Colonne, sopra l’Osteria omonima).

Il rione – a poca distanza da san Pietro – è popolare, abitato da poche famiglie legate alla Curia, qualche banchiere toscano che lavora ai Banchi oltre fiume, rari artisti (Pomarancio fino al 1626, anno della sua morte; fino al 1627 G.B. Ricci, Agostino Tassi), e prevalentemente dai soldati di Castello, frati carmelitani del convento di Traspontina, stranieri e pellegrini di passaggio, che alloggiano nelle numerose osterie. Ben più che nelle altre parrocchie di Roma, circolano molti poveri (anche donne anziane), malati, adolescenti e bambini (nessuna femmina), figli di nessuno – senza nome e senza patria. Gli uni e gli altri muoiono quasi ogni giorno in strada di stenti, come si evince da svariati necrologi, di cui si trascrive a mo’ di esempio:

1629, 15 agosto
Un putto poveretto di 5 anni alla sprovvista in strada vicino alla catena di Borgo Novo, non si sa il nome né di che luogo, fu sepolto in chiesa nostra per carità.

Nell’inverno del 1629-30, forse per le rigide temperature, il loro numero è particolarmente elevato. 
Il caso più interessante è quello di:

1630, dicembre
Una poverella che uscì dall’hospitale alla sera, et alcune camere locande non la volsero perché non haveva il bollettino della sanità conforme sono gli ordini, morì l’istessa notte sotto un voltone nel vicolo del villano, fu sepolta in chiesa nostra il 26 xbre per carità.

Che per essere accolti all’ospedale occorresse il bollettino viene spiegato espressamente in:

1637
Andrea de’ Quadri da Lugano poverissimo alloggiato nell’hosteria di Moreto in Borgo s. Angelo havendo pa havuto il boletino per andare all’hospitale se ne morì di notte senza esser veduto e fu sepolto nella nostra chiesa di Tr.a adi 12 maggio.

L’elevata presenza di miserrime donne vaganti o alloggiate nei pressi della casa dei Bricci e in particolare nel vicino del Villano confermata fra l’altro da:

1637
Flaminia di cognome incognito poverissima (…) nel vicolo del Villano in casa di mad. Pacifica vicino le case del Catalone fu trovata una mattina morta nel proprio letto…

1637, maggio 
Palladina di Rocco poverissima nel vicolo del Villano morì all’improvviso.

Da altri documenti analoghi (di questa e altre parrocchie) ricavo l’informazione sulla necessità del bollettino della avvenuta comunione per ottenere cristiana sepoltura, la presenza di ‘testimoni’ (vicini, osti, mozzi, stallieri, passanti) disposti ad assicurare che essa è avvenuta, e la generosità dei frati dei conventi della città e degli stessi amministratori, disposti a fingere di credere alle bugie dei ‘testimoni’, necessarie per procedere al seppellimento.

L’episodio ispirato alle vicende di questi morti anonimi (il falso riconoscimento della poverella da parte di Giovanni Briccio e la lezione della miseria impartita a Plautilla) si trova nel capitolo “La figlia di Giano Materassaio”, pp. 84-88.

Ho scelto questa scena perché tipica della vita quotidiana in un rione romano del Seicento e perché il riscontro documentario è di facile comprensione per qualunque lettore (i testi sono di esemplare immediatezza).
Ma è anche rappresentativa del mio modo di comporre, perché ogni scena de L’architettrice è stata ideata in modo analogo.
Le fondamenta (invisibili, interrate) dell’edificio romanzesco sono le ricerche archivistiche.
Esse – come avrete notato – procedono per cerchi concentrici.

Cioè, dal documento relativo a Plautilla o al Briccio allargo via via il campo e la visione ai loro parenti, conoscenti, colleghi, vicini di casa, fino a mappare con la massima esattezza possibile il loro mondo: mentalità, aspettative, comportamenti (norma e scarto dalla norma), etc.

Nei lunghi anni all’inseguimento di Plautilla ho eseguito lo spoglio completo di tutti i registri di tutte le parrocchie nelle quali Plautilla ha vissuto, e di tutte le altre spogli sistematici tematici (p.e. per nome di persona – tutte le Plautille vissute a Roma fra il 1616 e il 1720 –; tutti i padrini di battesimo etc, annotando tutti coloro che avevano rapporti con lei, con la sua famiglia, con Elpidio Benedetti; compari, comari, pittori, etc). Stesso metodo a macchia per gli altri fondi archivistici (notarile, criminale, confraternite, monasteri, etc).

Trascrivevo solo le informazioni che mi parevano rilevanti. Non sempre poi mi è stato semplice collegarle: in parte perché alcune trascrizioni le ho eseguite a mano, con la matita; in parte per la mia conoscenza basica del dispositivo informatico nel quale le avevo immesse, magari dieci anni prima. Inoltre a volte sono dovuta tornare su faldoni e registri già esaminati, perché la mia conoscenza del personaggio e della famiglia si era modificata in seguito a ulteriori scoperte, e ciò mi permetteva di interpretare diversamente alcuni passaggi, etc.

Affinché questi materiali ‘remoti’ nell’archivio dei miei quaderni e del mio pc potessero connettersi fra loro, acquistare significato e rivivere, mi sono stati fondamentali: memoria, intuizione, conoscenza della topografia cittadina, dei nomi dei personaggi, della cronologia privata e pubblica…
In questa operazione di sintesi, interpretazione e illuminazione consiste propriamente il mio lavoro creativo.


La foto di copertina è di Christina Molnar.