Proseguiamo la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2021. Gli incontri con gli autori si terranno in diretta streaming sui canali Facebook e YouTube del Premio: domani, alle ore 17, è il turno di Sergio La Chiusa.


Nel suo romanzo I Pellicani, menzione speciale Treccani al Premio Calvino 2019 e pubblicato a fine 2020 da Miraggi edizioni, Sergio La Chiusa racconta del ritorno del protagonista Pellicani alla casa paterna dopo vent’anni di assenza. Anzi, più che tornare, Pellicani pare capitare come per caso, nel quartiere periferico, tra costruzioni interrotte e condomini in rovina. Tra questi, la casa natale: un palazzo apparentemente intatto all’esterno, ma a un’occhiata più attenta pericolante e quasi del tutto disabitato, unico esemplare esente dalla “smania di rinnovamento” (p. 6) che ha investito il quartiere. Più che un’abitazione reale, a Pellicani appare subito come “la parodia di un immobile”, “un pezzo di scenografia in disuso” (p. 7). E la sensazione di trovarsi di fronte a una simulazione sarà confermata una volta raggiunto l’ingresso dell’unico appartamento abitato, invaso da un bucato che “sembrava poco realistico e copriva tutto con un sottilissimo velo d’impostura” (p. 15).

Dietro le fila di mutandoni stesi ad asciugare vive l’unico inquilino rimasto nel condominio fatiscente, un anziano paralitico e altrettanto decrepito. È forse suo padre, il vecchio Pellicani, si domanda il protagonista?  Oppure è un altro segnale del fatto che Pellicani è “vittima di un’oscura macchinazione” (p. 19)? Il vecchio paralitico sembra davvero troppo vecchio, il suo naso, seppure somigliante a quello di Pellicani, è forse un po’ troppo grosso. E poi è decisamente troppo malato, tanto da non riconoscere il figlio, perché possa davvero esserne il padre. I dubbi sull’identità del paralitico non fermano però Pellicani, che decide di installarsi temporaneamente in quella che presumiamo essere la sua vecchia stanza di bambino, invasa da decine di pupazzi e peluche, per aiutare il vecchio a guarire (Pellicani dice “emanciparsi”) dalla sua infermità. Il romanzo si svolgerà tutto nelle due stanze di cui si compone l’appartamento, il cui spazio claustrofobico e saturo di oggetti ricorda quello dei racconti kafkiani. Così come profondamente kafkiani sono anche i personaggi minori che si avvicendano di continuo nella stanza da letto dell’infermo: in primis, la coppia di funzionari (i “competenti”) che cercano di strappare in ogni modo al vecchio la vendita dell’appartamento, ottenendo in risposta un sonoro peto.

Più Pellicani insiste in quella che, fin dall’inizio, sembra un’impresa sconclusionata e fallimentare, più il lettore comprende anche quanto non possa fidarsi di niente di ciò che questi dice. Così, se in apertura di romanzo Pellicani faceva sorgere dubbi nel lettore riguardo all’identità del vecchio e alla possibilità che fosse un impostore, chi legge finisce col chiedersi se non sia stato ingannato proprio dal protagonista. Chi è quindi Pellicani? Sicuramente non un manager o un agente di commercio impegnato in viaggi d’affari tra Italia e Cina, come ci vorrebbe fare credere a più riprese. Del resto, il suo completo sdrucito e la sua valigetta-appendice – stracolma di cancelleria, di scatolette Simmenthal e di un paio di mutande pulite – non possono sostenere il peso della finzione per più di qualche pagina. Se Pellicani non è dunque colui che dice di essere, quanto possiamo credere a quello che racconta di sé e di quello che vede? Molto poco, forse per nulla. Ma siamo costretti a seguire il flusso dei suoi ragionamenti, dato che il suo è l’unico punto di vista a cui ci possiamo affidare e da cui partire per comprendere ciò che lo circonda. Ancora prima che convincere i lettori, Pellicani deve innanzitutto convincere sé stesso. Nella chiacchiera paranoica di Pellicani la realtà viene perciò continuamente deformata e messa in discussione, restituendone una versione sempre nuova e mai coerente.

Uno dei problemi centrali tematizzati dalla scrittura di La Chiusa è appunto quello del punto di vista. Ogni avvenimento appare sempre descritto tenendo conto di più prospettive contrastanti, presentate anche a brevissima distanza, come è evidente da queste poche righe: “Da questa prospettiva Pellicani sembrava un vecchio rimbambito. Bisognava ammetterlo. Ma poteva trattarsi di un effetto ottico. Il punto di vista è tutto in questi casi. Dalla sua posizione le cose potevano apparire in maniera radicalmente diversa” (p. 40). Resta insomma difficile per il lettore stabilire quali relazioni si creino tra i vari personaggi (e tra questi e gli oggetti) all’interno del romanzo: c’è sempre una sorta di eterna indecidibilità tra le ipotesi formulate, data dall’intercambiabilità tra gli elementi presenti sulla scena. A livello stilistico, questo aspetto è espresso anche dalla frequente alternanza tra discorso in prima e in terza persona del protagonista-narratore, con Pellicani che prima osserva la scena e, poco dopo, si osserva agire e si racconta dall’esterno.

Protagonista spostato, con una visione allucinata e distorta della realtà che lo circonda, Pellicani appartiene a pieno titolo alla linea dei personaggi schizoidi dei primi libri di Gianni Celati, dei racconti di Luigi Malerba e dei romanzi di Ermanno Cavazzoni. Ma, su tutti, Pellicani ricorda soprattutto lo stralunato protagonista delle Avventure di Guizzardi (Torino, Einaudi, 1973). La presenza di una certa aria di famiglia tra Pellicani e Guizzardi è innegabile per molti motivi: entrambi si muovono in un mondo surreale, senza sapere bene dove si trovino né quale logica seguano le proprie azioni. Oltre ai riferimenti espliciti alla realtà dei manicomi comuni ai due romanzi, va sottolineata la somiglianza tra i personaggi anche nell’aspetto fisico e nell’abbigliamento: vestiti macchiati e sdruciti, completati da un’inseparabile valigetta piena degli oggetti più disparati (che in Celati è omaggio alla comicità di Harpo Marx). Una certa continuità si riscontra infine nell’idea di comico che emerge nella scrittura dei due autori. Per entrambi, non solo le scene comiche sono legate al basso-corporeo, declinato nella descrizione delle funzioni fisiologiche o degli appetiti sessuali, ma spesso sono costruite secondo il meccanismo del gag (come nella ricordata scena del peto).

Le scelte stilistiche separano invece in parte Celati e La Chiusa. Nei Pellicani manca l’associazione del punto di vista straniato del protagonista con un linguaggio che imiti quello degli internati: ma va detto che il rifiuto dell’oltranza linguistica del primo Celati, che rende al lettore di oggi parecchio difficoltosa la scrittura di Comiche o delle Avventure di Guizzardi, è senza dubbio una scelta felice, e lo stile di La Chiusa è decisamente agile e piacevole. Tutti aspetti, quelli ricordati, che, oltre a fare di Pellicani una sorta di “Guizzardi reload”, rendono il romanzo di La Chiusa davvero degno di grande attenzione.

Sergio La Chiusa, I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione, Torino, Miraggi Edizioni, 2020, pp. 192, € 17.