Donatella di Pietrantonio è tornata da pochi mesi in libreria con il secondo romanzo dedicato alla storia di una ragazza che i numerosi lettori (più di 170.000 copie vendute nel 2017) hanno imparato a conoscere come L’Arminuta, colei che è ritornata.

A chi avesse ignorato il vincitore dei premi Campiello e Napoli del 2017 bastino pochi accenni alla trama e all’ambiente che Di Pietrantonio ha voluto creare nel suo primo romanzo: siamo nell’Abruzzo degli anni Settanta, una ragazza di tredici anni viene costretta dalla coppia che l’ha cresciuta a fare ritorno all’altra madre, all’altra famiglia, quella naturale. Per l’Arminuta inizia quindi una nuova vita, nella quale deve fare presto i conti con quella parte d’Italia, fra provincia e campagna, che ha partecipato da lontano al boom economico e che è rimasta vittima della scarsa scolarizzazione. Una vita certamente più difficile, con pochi mezzi e poche risorse, brutale ma anche più vera. Un romanzo di formazione, questo, dove iniziazioni, rapporti difficili e assenze opprimenti segnano inevitabilmente la storia della ragazza, che, malgrado tutto, rimane in piedi.

Borgo Sud, questo il titolo del nuovo volume – candidato al Premio Strega 2021 –, porta sulla scena la protagonista ormai adulta, che, dopo essersi lasciata un matrimonio alle spalle, vive a Grenoble, insegna in università e si prende cura di un gatto. Una nuova vita che non aiuta però la donna a sottrarsi al richiamo delle proprie origini: le sue relazioni, sempre faticose e irrisolte, la riportano presto in Abruzzo. Sfuggire a quei legami che la avviluppano è impossibile, tanto più ora che Adriana, la sorella che tanto l’ha accolta e protetta, è in difficoltà. Il rapporto fra le due donne, su cui si chiudeva il primo romanzo, domina il nuovo racconto. L’impressione è che l’autrice abbia soddisfatto le aspettative dei lettori, che avevano manifestato particolare attaccamento a questo rapporto (come si legge anche da questa intervista), e che abbia fornito al pubblico quella storia che in fondo attendeva.  

La vicenda si fonda sui ricordi dell’Arminuta, attraverso i quali riaffiorano avvenimenti che, letti con il senno di poi, avevano tutto il sapore di premonizioni.  Le retrospezioni spiegano al lettore cosa ne sia stato della protagonista dopo la fine del primo volume e hanno al loro centro, spesso, le relazioni con le donne della sua famiglia: Adriana e la madre. Anche nel nuovo volume, infatti, primeggiano le figure femminili, le loro storie, le loro voci e le loro prospettive.

Il legame fra la protagonista e quella donna che l’aveva abbandonata, per poi riaccoglierla come figlia, mostra tutte le difficoltà di una relazione che si è tentato di recuperare: non c’è la complicità, la fiducia e la conoscenza che un dialogo verbale può tentare di instaurare; ma i gesti riescono ad arrivare là dove la parola manca.

Il sabato e la domenica mia madre sembrava indifferente alla mia presenza. Tra bucati e fornelli non parlava quasi mai, ma di solito cucinava quello che mi piaceva, o al momento della partenza mi infilava nella borsa un barattolo di sottaceti. Mia madre è sempre stata imprevedibile. Aveva delle attenzioni inaspettate, poi tornava a chiudersi. Conoscevo quelle premure e la loro intermittenza.

Adriana è invece l’interlocutrice privilegiata, la compagna di una vita difficile e quasi mai agevolata dalle circostanze. Il rapporto fra l’Arminuta e la sorella non è comunque sempre stato semplice: Adriana è un personaggio pieno di vita, abituata a cavarsela, costretta presto a diventare adulta. È una nomade, una «zingara» secondo la madre, indiscreta e impetuosa, ma in grado, con la sua schiettezza, di riportare la sorella alla realtà. L’Arminuta è stata invece preservata, almeno per alcuni anni, dalle brutture della vita, dalla fame e dalla miseria – che la sorte ha lasciato vivere ad Adriana fin dalla nascita –, per cui non ha sviluppato quello spirito di sopravvivenza, innato e spontaneo, che anima la sorella. Ma al di là di queste differenze c’è una radice dolorosa che lega indissolubilmente le due donne.

Con Adriana almeno eravamo pari, abbandonate a noi stesse, sole nel mondo, sorelle. Litigavamo per la radio accesa mentre studiavo, la finestra che lei voleva aperta e io chiusa, i suoi orari di rientro. Per ognuna di noi restava la certezza dell’altra al fondo del dolore che non ci siamo mai confessate.

Il ricovero in ospedale di Adriana obbliga l’Arminuta a ricostruire e ricordare la vita della sorella, che in questi ultimi anni è tornata a essere difficile e tormentata, soprattutto da quando al suo fianco è subentrata la figura di Rafael, un marinaio che vorrebbe «vivere in mare senza altri padroni che il vento», con cui la donna ha avuto un figlio: Vincenzo. Adriana ha vissuto un amore grande e totalizzante, ma incapace di mantenersi in equilibrio e di trovare una stabilità. È un amore morboso, fatto di eccessi, che contrasta con quel rapporto costituito di silenzi e assenze che la protagonista ha vissuto con l’ex marito. Per entrambe le donne, però, si tratta di amori difficili, che costringono a reagire – in un modo o nell’altro.

Impossibile, comunque, non riconoscere nelle due protagoniste i connotati delle antecedenti più illustri: Lila e Lenù. Lo stretto legame fra i romanzi di Di Pietratonio e Ferrante è già stato sottolineato in diverse circostanze, ma l’impressione è che la relazione di sorellanza descritta in Borgo Sud faccia un po’ da eco al difficile rapporto fra le due protagoniste della quadrilogia de L’Amica geniale. Come per le due amiche del rione napoletano, anche il rapporto fra le due sorelle abruzzesi affonda le sue radici nei caratteri e nelle storie agli antipodi delle protagoniste. Come Lenù ha tentato di realizzarsi al di fuori del rione, così l’Arminuta ha cercato di rifarsi una vita all’estero; mentre Lila e Adriana sono rimaste intrappolate nei luoghi opprimenti della loro infanzia.  

Dalla narrazione di Borgo Sud emerge un ritratto ormai quasi cristallizzato del meridione. Leggendo il romanzo sembra di frequentare luoghi già noti e di incontrare personaggi già conosciuti, come se ogni parte del sud Italia fosse uguale a un’altra. Nella zona del porto di Pescara, come nel rione napoletano ferrantiano, la drammaticità dei rapporti fra io e mondo è amplificata – talvolta ridondante – e l’iconografia della gente povera di quartiere sembra voler corrispondere a canoni precisi, già stabiliti. Le parole suscitano immagini forti, violente e sicuramente d’impatto per il lettore, ma, a tratti, stereotipate. Il romanzo ci introduce in un mondo duro, scandaloso e vibrante, eppure, per certi versi, eccessivamente familiare. Tuttavia di questa rappresentazione permane un fascino ammaliante per il lettore borghese e cittadino, che, in fondo, teme a volte di essere rimasto vittima di una vita eccessivamente controllata, non vera. E la paura dell’Arminuta non è forse diversa.

Mi trovavo non così lontano da casa mia, eppure era tutto diverso, un mondo a parte. Di là avevo lasciato un piccolo libro aperto sulle poesie che amavo, un seminario da preparare, un ordine stabilito; qui, dove Adriana mi aveva portato, la vita sembrava più vera, scandalosa e pulsante. Ne ero attratta e spaventata allo stesso tempo.

Nel romanzo l’autrice affronta poi la crisi dell’istituto matrimoniale e la difficoltà di un rapporto equilibrato fra i sessi: fra i personaggi femminili e maschili di Di Pietrantonio sembra esserci sempre un’incomunicabilità di fondo. Il racconto del fallimento del matrimonio fra la protagonista e il marito, Piero, si sovrappone alla storia di Adriana e, nel ripercorrerlo, l’Arminuta non può fare a meno di constatare l’assoluta distanza con cui viveva la relazione con il compagno. L’immagine di quella moglie accomodante e passiva che è stata, che ha preferito il silenzio al dolore della verità, lascia emergere un senso di colpa.

Piero era circondato da una sorta di campo magnetico che negli anni del nostro matrimonio ha respinto la mia rabbia, escluso certe domande, generato equivoci. Dentro la sua separatezza non l’ho mai del tutto raggiunto, mai nella sua verità. Avevo paura di spingermi oltre le apparenze, calme contro l’acqua oltre le dune di Cerrano.

Con Borgo Sud si unisce al romanzo di formazione dell’Arminuta un filone sentimentale, dove la famiglia rimane il luogo elettivo per sperimentare i primi effetti di un rapporto fra l’Io e l’altro. Il raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé dei vari personaggi rimane, anche in questo racconto, intrinsecamente legata a dei passaggi sofferti, talvolta tragici, ma non sempre convincenti. L’impressione è che, talvolta, la ricerca di pathos abbia la meglio sulla plausibilità di alcune tappe dello sviluppo dei personaggi, primo fra tutti Piero. L’impellenza di tenere il lettore attaccato alle pagine del libro, con un ritmo narrativo incalzante, in alcuni passaggi pare imporsi, andando a discapito di un’analisi che avrebbe richiesto, talvolta, una maggiore accuratezza.

Di Pietrantonio si conferma autrice di romanzi intensi, che soddisfano la sete del lettore affezionato ai grandi drammi umani; ma si sente la mancanza, in questo secondo racconto – e diversamente dal primo –, di uno sguardo sinceramente indagatore della realtà: il mondo dell’Arminuta ormai adulta risulta, sotto alcuni aspetti, poco credibile o non ben risolto. Se nel primo volume i diversi sviluppi della trama ben si integravano con la grande questione dell’abbandono e del ritorno in famiglia, in Borgo Sud la sensazione è che vengano affrontate forse troppe dinamiche relazionali e psicologiche, molte delle quali rimangono, alla fine, aperte e slegate fra loro. La figura stessa dell’Arminuta resta sospesa: attaccata alle vite degli altri, ma non del tutto consapevole di se stessa.


Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud, Einaudi, Torino 2020, 168 pp. 18,00€