Nella terza puntata dell’inchiesta “Ecosistemi poetici – abitare creativamente l’antropocene”, Bianca Battilocchi conversa con Serenella Iovino e Marzia D’Amico.


Serenella Iovino

Nei suoi interventi ha parlato di porosità dei materiali, del concetto di transcorporeità proposto da Stacy Alaimo, di membrane che permettono l’interazione tra corpo e mondo. Non crede che la poesia funzioni nello stesso modo, coi suoi spazi vuoti da esplorare, i suoi abissi interrogare? 

Il concetto di transcorporeità è complesso e importante. La porosità dei corpi, infatti, non è solo segno della nostra permeabilità a sostanze, spesso tossiche, o virali come in questo periodo.

I corpi sono permeabili anche ai discorsi, alle rappresentazioni sociali, alle identità che vengono costruite e proiettate su di essi, alle politiche in cui sono inquadrati. I corpi delle donne, esposti a pregiudizi e tossicità, sono un esempio.

Ma in questo periodo più che mai mi viene da pensare ai corpi dei malati, specialmente gli anziani fuori e dentro le RSA. Tutti questi corpi sono storie — le nostre storie, direi; perché se la caratteristica dei corpi è quella di essere porosi, finché avremo un corpo, non c’è verso di chiamarci fuori da questo intreccio collettivo.

La poesia può essere un veicolo per entrare in questi interstizi, per chiamare alla luce i legami, per dare parola a ciò che da solo non emergerebbe. La solitudine, l’apparente silenzio di esseri senza voce umana, il dolore e la bellezza che, appunto, percorrono i corpi.

Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che poesia è anche poiesis, ossia un creare. E allora vale la pena ricordarci, con Bachelard ma prima ancora con gli antichi pensatori greci, che la materia è creativa, ha un’immaginazione che produce forme, che ha memoria.

La phantasia è proprio nel divenire visibile e materiale di questa potenza creatrice che viene alla luce (phos) nella natura (physis). Quindi, sì: la nostra ecologia è questa casa in cui il corpo incontra la parola, e la natura è una forma di poesia memore di sé.

Se i territori sono dei testi da leggere, allora possiamo affidarci al poeta, al romanziere e all’ecocritico come guide?

Direi di sì — o se non come guide, sicuramente come compagni di viaggio. Ma spesso in quei territori sono scritte anche le storie delle persone e degli esseri non umani che ci vivono, storie di terra e ambiente; e queste storie s’intrecciano con quelle raccontate dalla poesia e da altre forme di scrittura.

Personalmente, a me interessa proprio quest’intreccio materiale-creativo: vedere come l’immaginazione della scrittura si combina con le dinamiche ecologiche dei territori, come i terremoti ci possano parlare del passato geologico o delle crisi politiche, come l’attivismo e la salute delle cellule e dei territori si possano esprimere insieme attraverso forme artistiche e narrative. 

Qual è la sua opinione su poesia e attivismo, militanza poetica, partecipazione dei poeti rispetto al collasso culturale e ambientale in cui ci troviamo? Crede che sia importante che i poeti passino dalla pagina ai fatti, e dal necessario ‘esilio poetico’ lavorino, parallelamente, sulla costruzione di ‘comunità’ aperte al confronto tollerante, alla condivisione… in opposizione all’individualismo di massa che ci rendere vulnerabili e soggetti alle decisioni altrui? 

Non credo che la poesia sia un esilio. O almeno, che debba esserlo. La solitudine non è mancanza di mondo, e spesso il silenzio necessario a scrivere serve proprio all’ascolto del mondo.

Da lettrice di Pasolini e Bertold Brecht, ma anche di Dante, sono convinta che la poesia debba essere militante, anche se non necessariamente ideologica; e possibilmente non autocompiaciuta, ma aperta all’ironia del tempo, al sorriso delle cose, come quella di Wislawa Szymborska.

I poeti hanno sempre avuto un senso privilegiato per le crisi della storia. Il “collasso culturale e ambientale” è una di queste crisi, e mi pare che oggi più che mai sia visibile una risposta poetica.

Solo per limitarmi all’Italia, penso per esempio alle voci di Fabio Pusterla, Franco Arminio, Tiziano Fratus, Antonella Anedda, Gabriele Belletti, Laura Pugno, Paola Loreto, Milo De Angelis, Ivano Ferrari, Daria Menicanti, Massimo D’Arcangelo… ma è impossibile fare un elenco.

Luoghi, alberi, animali, inquinamenti, morene glaciali e terreni vaghi, la vita minima, vecchi e migranti abitano nei loro versi. La poesia è per definizione attivista nei confronti della realtà, perché la ricrea facendola avanzare verso il dialogo e la visibilità. 

Nella sua esperienza personale, ha testimonianze positive (o meno) da condividere (anche foto, link …)? Se sì, cosa funziona a suo avviso? 

Le esperienze positive che ho avuto sono tutte legate a collaborazioni e conversazioni. Penso al Premio Le Ghiande, che da tanti anni mi vede collaborare con Tiziano Fratus. Questo riconoscimento, conferito dal Festival Cinemambiente di Torino, mi ha permesso di conoscere più da vicino non solo poeti e scrittori, ma anche tante persone per cui l’ambiente, la poesia e il cinema sono realtà necessariamente in dialogo.

E penso agli autori che sono usciti dalle pagine dei loro libri e sono diventati interlocutori fraterni, primo tra tutti il poeta ed etnografo colombiano Juan Carlos Galeano, portavoce di “cosmovisioni” in cui l’immaginario naturalistico amazzonico si esprime attraverso gli esseri che abitano la foresta e vivono lungo il fiume.

Di recente ho conosciuto e ho iniziato a dialogare con Gabriele Belletti, autore di uno straordinario poema, Krill, in cui il destino di Dina, una anziana in casa di riposo, si intreccia con la vita di una balena sullo sfondo del disastro petrolifero della Deepwater Horizon.

Nelle fasi più acute della prima ondata della pandemia, ad aprile 2020, ho ripensato a Krill e scritto su questo libro. Ho anche avuto con Belletti una conversazione che è diventata un’intervista. Credo che la spinta per far “funzionare” questi dialoghi sia di continuare a cercare nella poesia una chiave di lettura per la realtà, in tutte le sue forme.  


Marzia D’Amico

Cosa ti muove nel tuo fare poesia perfomativa? Hai punti di riferimento specifici (poeti, artisti, attivisti…)? Fai tua l’espressione di ‘militanza poetica’? In che modo? Credi che i poeti debbano prendersi più responsabilità nel passare dalla pagina all’azione? 

Devo confessare che performo molto meno di quanto vorrei, anche se proprio in questa recente esperienza di autoreclusione ho avuto modo di prendere parte a un evento online tramite the remote body. Comunque, come tu sai bene e forse meno chi ci legge e quindi vale la pena ribadirlo, la performatività esiste nello stesso testo.

Avendo lavorato lungamente sulla poesia, tra le altre, di Patrizia Vicinelli, quando compongo poesie mie cerco sempre di tenere a mente la lezione della potenzialità del testo (inteso come carattere significante). La sua carica grafica, di posizione, e così ogni altro dettaglio di presenza e assenza sono elementi che appartengono in maniera indissolubile alla poesia materica che immagino.

Una poesia che ha una voce interrogativa, sempre, anche quando pare solo presentare; l’io lirico e solo tale lo trovo asfissiante e asettico, ma credo comunque in un io che, oltre il puro simbolico, si fa moltitudine, si slarga e accoglie, si scompone e ricompone in maniere inaspettate e che quindi, di fondo, presenta un pluriloquio a voce sola.

Non è un caso che stia semicitando involontariamente – o trattasi forse di memoria muscolare della memoria – Coro da l’acqua per voce sola, un libro bellissimo di Tommaso Ottonieri (mio paziente e caro maestro fin da prima di subito), e che leggendo delle mie poesie inedite che hanno una prima persona portante, mi ha fatto notare che l’io in poesia “resta un problema aperto. Né è dato chiuderlo, mai. In te, credo, nemmeno aggirarlo”. Io vorrei proprio attraversarlo questo io, agire sulla sua sostanza da dentro con una violenza fluida.

In parte credo che queste righe rispondano già alle tue domande a seguire: cito Vicinelli, e con lei posso fare altri nomi – soprattutto di non-uomini – che mi hanno segnata, sia che ne segua il tracciato o me ne discosti.

Sono propensa a discutere in poesia come nella critica l’io declinato al femminile (inclusivo) in diverse forme espressive e materiche, quindi guardo molto ad Amelia Rosselli come a Mirella Bentivoglio, e ancora a Giulia Niccolai, Biancamaria Frabotta, Mariangela Gualtieri, Mariagrazia Calandrone, Rosaria Lo Russo, Sara Ventroni… sono nomi indicativi da cui si espande poi una rete di meraviglia, anche oltre la lingua italiana.

Tra queste ci sono donne che fanno poesia militante come anche donne che fanno poesia e militano, come due azioni distinte almeno in apparenza. Forse il mio sguardo politico accende i fuochi dell’azione anche nella poesia dove non erano previsti: che mi importa? Una volta che viene data al pubblico quella poesia appartiene a chi la riceve.

Ecco la materia di cui parlavo prima, il dire che anche se c’è autorialità e un io alla fine questa poesia prendila, è tua, fanne buon uso a me, in fondo, non serve più. Se si fa poesia così, si fa azione (e mi chiedo se si possa far poesia in altro modo) e quindi la responsabilità di una poesia è pari e spesso sinonima alla responsabilità dell’azione.

Dobbiamo essere, a prescindere dal ruolo poetico, consapevoli dell’importanza delle parole che usiamo, maneggiamo, e offriamo; e sia chiaro, mi fa una gran paura come soggetto umano, politico, privato, poetante parlare di responsabilità, però mi dà sollievo anche.

Una cosa bellissima, secondo me, la dice Ela Tandello nell’introduzione al Meridiano di Amelia Rosselli: «la poesia incarna un atto di comunicazione intenzionale, che persegue e mette in scena la possibilità e la realtà di significare, malgrado le innumerevoli riprove del contrario. L’eticità di questa poesia sta nel suo tramandarci una responsabilità nei confronti della nostra umanità e del nostro dovere di essere nel mondo». Io questa cosa, in sintesi, la credo e la sento tutta.

Quanto è importante creare una ‘comunità’ intorno ai poeti o invitare i poeti e fare comunità? Credi nel bisogno di comunità come alternativa al sistema capitalistico che ci vuole sempre più soli, sempre più vulnerabili e quindi con i portafogli sempre aperti?

Se sì, come agire in quel senso? Hai testimonianze da condividere (anche foto), ad esempio nel tuo vissuto tra Oxford e Londra? Cosa funziona? 

Questa cosa che sto scrivendo, ad esempio (come ogni cosa che scrivo mi pare di poter dire con certezza), uscirà nel mondo solo dopo essere stata letta e discussa con chi la poesia la scrive, la fa, la studia, la ama. La mia poetica è collettiva, o quantomeno aspira a essere tale: la comunità mi nutre e io posso solo dare indietro quel che ho nel migliore dei modi.

Una persona poeta che parla da sola non dice niente, che parla solo a sé stessa e di sé stessa: la poesia ha un bisogno fondativo e fondamentale di comunità, perché ad essa risponde. Il lavoro certosino, limare e setacciare, quello si può fare in solitudine ma tutto quello che è prima e dopo no.

Fare poesia è proprio come fare politica, per farla bene e per starci bene bisogna non farla mai solx. Mi pare chiarissimo, anche dai più recenti avvenimenti, che la comunità ti salva la vita: e questo vale anche per la comunità poetica.

Io ad esempio il coraggio e la voglia di tornare a scrivere li ho ritrovati quando mi son messa a parlare con Livia Franchini. Da lì ho cominciato a seguire sempre più poesia anglofona e soprattutto poesia indipendente di persone che con la poesia fanno resistenza politica, mettono in circolo idee e gentilezza, promuovono lo scambio e il confronto.

È stata Livia a mettermi sul palco del Festival della Letteratura Italiana a Londra, in un progetto bilingue cresciuto nel virtuale (per via della distanza geografica) e poi materializzatosi sotto sua orchestrazione.

In quell’occasione ho conosciuto Chrissy Williams che ha poi selezionato una mia poesia per il primo numero della rivista poetica PERVERSE (che arriva gratuitamente nelle caselle di posta nella forma di newsletter: la poesia che ti visita a casa!).

E ho conosciuto anche Alessandro Burbank, con cui abbiamo discusso tanto di cosa voglia dire fare poesia oggi in un mondo che manca di generosità (che per me è una parola chiave, senza la generosità di chi mi legge, mi critica, mi guida, mi supporta, mi conforta… non sarei nulla).

Per fortuna non manca ovunque, anzi i luoghi fisici e virtuali della poesia ne sono ricchi. In quei luoghi sono nate tante amicizie e sodalizi tra i più preziosi che porto nel cuore.

Stare assieme funziona, e il mondo della poesia è lontanissimo da quello della prosa – o almeno quello che ho avuto il piacere di frequentare io, in spazi marcatamente indipendenti e autonomi.

Le prime mie poesie che abbia mai letto con corpo presente risalgono credo al 2012, durante un laboratorio presso l’ESC Atelier di Roma. Poi in UK le occasioni son state diverse. A Oxford, sia durante eventi formali, come nell’auditorium di Pembroke College, che nel Community Centre dell’area di Cowley. OX4 è il codice postale che riconosce questa zona meno gentrificata e meno monopolizzata dall’università, un luogo umano che mi ha dato tantissimo e che mi porto dentro.

Mentre a Londra (oltre a FILL che ho già raccontato) ho letto ad esempio un evento dedicato ad artisti neurodivergenti.

Ho donato il mio piccolo cachet all’organizzazione stessa, per rimettere in circolo quello che avevo ricevuto visto che fortunatamente posso permettermelo. D’altro canto godere di un privilegio fa sì che ancora più severamente si debba pensare a ogni passo, evitando di giudicare le scelte di chi magari ha meno scelta.

Ecco perché credo che il lavoro intellettuale e artistico debba essere sempre retribuito. Soprattutto, permetterebbe di non compromettere la propria poetica e di non asservirla al sistema capitalistico; cosa che toglie poesia alla poesia.

Se la poesia vuole naturalmente rifuggire libera e autonoma da politica ed economia, non credi che comunque fare poesia sia anche un atto politico? Quanto è importante quando scrivi la tua prospettiva queer e femminista? 

Per me fare poesia e fare politica non sono solo cose inseparabili ma son proprio la stessa cosa. Il prestito lo faccio da una donna migliore di me e ben più rappresentativa, e le cui parole sono di continua ispirazione per rivendicazione e riflessione. Si tratta di Audre Lorde che, nel 1985, pubblica un testo intitolato Poetry is not a luxury:

“For women, then, poetry is not a luxury. It is a vital necessity of our existence. It forms the quality of the light within which we predicate our hopes and dreams toward survival and change, first made into language, then into idea, then into more tangible action.”

Le poesie sono piene di parole di rabbia, indignazione, forza; le poesie sono piene di quelle parole e quelle voci che nei canali di comunicazione più asserviti alla società classista, abilista, razzista, patriarcale, ed eteronormativa non hanno spazio.

Bisogna assolutamente demistificare l’uso della poesia come medium elitario, di nicchia. La poesia attraversa il tutto. A parte Angela Davis che cita molto spesso Audre Lorde e i suoi versi, oggi certe poesie le abbiamo sulle magliette e neanche lo sappiamo. Come quel verso della giovanissima Leandra Alvarez, Somos las nietas de las brujas que no pudieron quemar [Siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare], che ora è diventato mondiale e che ringraziamo del prestito e della traduzione (linguistica e di contesto) che quella frase così feroce ha in sé.

Poi c’è il caso della poesia-manifesto scritta per sostenere e celebrare tutte le persone che hanno lungamente fatto campagna “Repeal the 8th” in Irlanda, con tardivi ma felici risultati (It Shouldn’t Be This Hard, di Eva O’Connor); infine l’esempio più clamoroso: le parole poetiche di Warsan Shire divengono iconiche, e arrivano forse ovunque, quando Beyoncé le include nel celebre disco Lemonade.

La poesia non serve soltanto alla protesta, la poesia è essa stessa atto di protesta. Per le donne lo è sempre stata, è un’azione sovversiva. Per le donne queer ancora di più.

Tengo a precisare una cosa: in Italia il termine queer viene spesso adoperato come un passe partout glitterato. L’ha detto bene Nina Ferrante quando l’abbiamo intervistata per il settimo speciale di Ghinea, la newsletter femminista che curo con Gloria Baldoni e Francesca Massarenti.

“Quando faccio dei corsi all’università provo a dire per prima cosa “troviamo una parola per dire queer”. Finocchio? Frocio? Ricchione? Io sono napoletana, quindi mi esce ricchione, però mi rendo conto che altrove [si usano altre parole], poi declinare tutto al femminile destabilizza ancora di più.”.

Insomma, queer è più che identità di genere e orientamento sessuale: queer è politica. Se si perde di vista questo, si perde Stonewall, si perde l’inizio brillante di intuizione e rivoluzione. E poi inevitabilmente si perde la fantasia che ci ha mosso e continua a muoverci per una alternativa a quella capitalista, razzista, abilista, classista, patriarcale, ed eteronormativa.

La mia prospettiva queer e femminista quindi sono io. Io sono una donna queer, io sono una femminista. Non è solo il mio sguardo ma la mia persona, il mio corpo, la mia identità, la mia voce intima e pubblica, la mia poesia. La mia poesia è sempre frocia e femminista come (un) atto performativo.

Hai un’opinione sull’ Ecofeminism

Dell’ecofemminismo sto ancora studiando la storia e la traiettoria. Fino ad oggi la mia conoscenza è stata limitata dall’anglocentrismo e dallo spazio concesso nel sistema a specifiche correnti di queste teorie e pratiche.

Dalle letture che ho fatto e sto facendo, la denuncia delle ecofemministe degli anni ’80 nei confronti dello sfruttamento della terra, visto come pari ed equivalente a quello delle donne, ci ha permesso di vedere una connessione che potesse portare a una soluzione bidirezionale.

Di fatto, la dominazione del femminile e quella della natura sono la stessa cosa. Viviamo ancora l’eredità di un dualismo stringente che vede il binomio donna-natura e maschio-cultura.

L’ecofemminismo ha fatto leva su questa dicotomia imposta per rendere potente il femminile attraverso la natura; il problema è che questo ha ridotto l’idea di donna alla pura biologia ed è stata imposta un’universalizzazione dell’esperienza del femminile. 

Sarebbe anche del tutto riduttivo catalogare come essenzialmente univoco il pensiero ecofemminista degli\dagli anni ‘80. Diciamo che questa è la voce che più si è affermata, e più ha creato scetticismo per via del suo spiritualismo e naturalismo. Ma anche qui: scetticismo dovuto a un rifiuto di decentramento della prospettiva Occidentale.

Certamente invece possiamo imparare dall’ecofemminismo che è stato e avanzare per un ecofemminismo queer: inclusivo delle esperienze, celebrativo delle identità.

Nel testo miliare di Griffin (Woman and Nature), l’autrice esplora la femminizzazione dei soggetti animali, della natura, dex bambinx, dex rifugiatx, delle persone non-bianche ecc. come strumento per delineare una presunta inferiorità, volta a costituire una legittimizzazione dello sfruttamento tramite pratiche violente. Questo è un punto di inizio fondamentale ma non esaustivo per una pratica alternativa.

Non ci interessa più rovesciare il sistema; dobbiamo scombinarlo completamente, lavorando costantemente per una degerarchizzazione delle esistenze e muovere verso il superamento anche di un antropocene femminista.

Credo quindi a una teoria e una pratica dichiaratamente di ecofemminismo queer. Gli studi passati ci hanno segnalato la profonda connessione tra sessismo, razzismo, classismo, abilismo, colonialismo, specismo, e l’ambiente. Ora sta a noi mettere a frutto quella lezione per una liberazione effettiva. 

Sto leggendo Queer Ecologies Sex, Nature, Politics, Desire curato da Catriona Mortimer-Sandilands e Bruce Erickson e lo consiglio a chiunque ho a tiro. Poi come succede sempre politica e poesia si mescolano. Infatti, da poco è stata pubblicata una mia poesia su un magazine che ammiro molto, Datableed. È una poesia che parla della natura australiana e dello sfruttamento delle sue  risorse da parte dell’Inghilterra a discapito delle popolazioni indigene.

Per riuscire a smarcarci da un sistema di violenza endemica come quello in cui viviamo oggi dobbiamo necessariamente teorizzare un’alternativa alle relazioni di subordinazione; ma soprattutto praticare resistenza. Ad esempio esercitando il nostro sguardo sul mondo a mantenersi critico del paradigma di esistenza entro il quale veniamo posti e scegliendo consapevolmente come agirvi per contrastarne l’assolutezza deterministica e lasciare spazio alle possibilità inesplorate.