Questo testo introduce l’indagine proposta a nove poeti e studiosi italiani a proposito delle possibilità di una nuova poetica che risponda alle catastrofi ambientali di cui l’umanità si è fatta responsabile. Nei prossimi 4 giovedì pubblicheremo le interviste agli autori, anch’esse curate da Bianca Battilocchi


Da secoli i poeti si sono occupati di osservare e descrivere il mondo naturale, infiltrarsi in esso per coglierne i segreti; più in generale, la letteratura ha contribuito in gran parte a creare una certa immagine di Natura, tanto da rendere ardua la distinzione tra questa e la visione restituita dal poeta o dal romanziere.

Ma com’è rappresentata la Natura oggi? Il punto di vista di molti scrittori e artisti contemporanei è di fatto ancora antropocentrico e, come ha affermato l’antropologo Amitav Ghosh (The Great Derangement, 2016), esso propone troppo spesso una “visione coloniale del mondo” e un “occultamento della realtà”. 

In un momento storico in cui l’umanità sembra essere più sradicata che mai dalla propria terra, maltrattandola più o meno consapevolmente, a favore di una vita in apparenza più comoda e semplice, può essere fruttuoso soffermarsi su ciò che avvicina la poesia all’ecologia in senso ampio, come scienza delle relazioni vitali tra umanità e ambiente, tanto più che di questi argomenti si inizia a parlare sempre più spesso (EcopoetryEcocriticismEcofeminism…).

Da un lato, infatti, il discorso ecologico ha adottato forme di rappresentazione tipicamente letterarie; dall’altro lato, la letteratura ha trovato nell’ecologia sia argomenti direttamente legati alle questioni ambientali del nostro tempo (il tema dei rifiuti, per esempio); sia elementi per rinnovare temi classici come quello della fine del mondo.[1]

Boschi abbandonati. Nell’odierno panorama poetico italiano si può notare una nuova tendenza a sporgersi oltre agli oramai anacronistici paradigmi che coinvolgono il rapporto uomo-natura, un’investigazione creativa che rifiuta l’omologazione dei luoghi poetici, per opporre resistenza al collasso cognitivo che ha fatto sì che diventassimo sempre più passivi e inermi al corso degli eventi.

Può essere utile considerare la riflessione che le studiose e poete Laura Pugno (ln territorio selvaggio, 2018) e Renata Morresi (Terzo paesaggio, 2019) hanno offerto sul concetto di ‘Terzo Paesaggio’ di Gilles Clément, quel luogo di transizione dall’antropico al non antropico che attrae e ispira i poeti, mettendo in discussione la loro prospettiva.

“Il bosco è il luogo della nuova conoscenza” osserva Pugno, non distante dall’immagine della “foresta ultra naturam, lucus transiliens, foresta combattente” del poeta Emilio Villa (Attributi dell’arte odierna 1947/1967), che rimarca la necessità del rischio di perdersi nelle selve dello sconosciuto, nell’“erramento” del pensare, con i suoi ostacoli, sviamenti e sradicamenti. 

Poeti militanti? Se da un lato gran parte degli autori di poesia rivendica giustamente la separatezza della propria opera da un asservimento politico ed economico – ma anche da uno scopo specifico – per uscire dalla mentalità produttivo-capitalistica, dall’altro si osserva come molti di loro abbiano fatto precise scelte di vita nel tentativo di ristabilire un equilibrio tra umanità e natura o anche di de-antropizzare  la prospettiva da cui scrivere.

Mi riferisco a poete e poeti militanti, attivisti, ecologisti e anche a chi di loro ha optato per un “ritorno al rurale” (poeti-contadini), alla coltivazione intelligente e rispettosa dell’ambiente, per allontanarsi il più possibile dalle inquinanti logiche di mercato. Alcuni dichiarano anche di fare poesia ambientale, poesia sul degrado, partecipano a premi letterari ambientali, organizzano poetry reading pubblici su queste tematiche, inventano Jukebox a base di poesia ed ecologia e tanto altro. 

Ha ragione l’antropologo e poeta Matteo Meschiari (Finisterre, 2020) ad affermare che l’immaginario ci salverà in futuro così come ci ha salvato in passato? Assieme a lui, anche Ghosh sembra sostenere che l’unica speranza per salvare la nostra civiltà è immaginare nuove prospettive per raccontare la vita e il mondo. 

Come coinvolgere allora i poeti nella conversazione sui sensi unici e i cul de sac dell’Antropocene, senza che siano soltanto le solite poche e limitate voci ad essere ascoltate? Mi riferisco agli approcci tradizionali della poesia ma anche dell’attivismo, dell’ecologia che, non mutando con i tempi e mantenendo una prospettiva antropocentrica, non permettono l’accesso a immaginari rinnovati.

Come incoraggiare e valorizzare un ‘racconto del territorio’ che sia consapevole del concetto di realtà che diffonde e responsabile di una prospettiva alternativa a visioni romanticizzate della Natura?

Possiamo aspirare ad un’azione collettiva incitata dai poeti e dagli spiriti più creativi, che investa nella creazione di nuove prospettive, costruendo magari reti di piccole comunità? TINA – Storie della Grande Estinzione (2020), un progetto in prosa a più mani proposto da Antonio Vena e Matteo Meschiari, potrebbe essere uno spunto interessante da tenere in considerazione:

Fiction is action non è uno slogan o una metafora, ma un mindset operativo per cercare delle soluzioni reali ai problemi dell’Antropocene. La questione è semplice: se esercito l’immaginario inventando narrazioni impossibili aprirò la strada a invenzioni in cui l’impossibile diventa non troppo improbabile e dove il non troppo improbabile diventa forse possibile. Si tratta cioè di travasare in letteratura ciò che in altri ambiti della ricerca si dà già per assodato: immaginare è agire. TINA è un gioco reale, non un’antologia di racconti.

Quest’anno di pandemia ha purtroppo reso difficile incontrarsi, ma le numerose iniziative online (e dal vivo nel periodo estivo) mostrano la volontà di un maggior coinvolgimento e visibilità da parte di poeti e poete interessati ad ‘agire’, a cercare di interpretare il presente per edificare il futuro.

Con gli interventi che seguiranno, si cercherà di superare un’idea oleografica del paesaggio e della natura, proponendo contributi che sfidano la centralità dell’umano, vanno oltre le facili contrapposizioni – natura vs cultura – e suggeriscono azioni concrete per quello che è evidentemente un problema che riguarda tutti e non più rimandabile.

a Mauro Martini

Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell’ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l’attesa marina – senza grido – infinita.
Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
– da brughiera –
sulla terra del viale.
Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

(Antonella Anedda, “In una stessa terra”, da Notti di pace occidentale, 1999)


[1] Ecopoetry. Poesia del degrado ambientale, a cura di Niccolò Scaffai«Semicerchio. Rivista di poesia comparata», LVIII-LIX, 1-2, 2018.


In copertina: Ana Mendieta, Imágen de Yágul, 1973/2018.