A distanza di cinque anni dalla pubblicazione di Theory of the Lyric di Jonathan Culler (Harvard UP, 2015), mi sembra di aver ravvisato nella ricezione collettiva di questa importante opera teorica un aspetto che più di altri si tende a tralasciare o relegare allo status di riflessione secondaria: la questione rituale.  Il fatto potrebbe destare più di qualche sospetto, se si considera che sin dal primo capitolo – quello di impianto più marcatamente metodologico – fra un’ode saffica e This Room di John Ashbery, lo studioso incomincia a disquisire intorno alla trasformazione dello spazio narrativo (si sta parlando di una canzone di Goethe) nel «ritualistic space of lyrical discourse» (p. 37), traslazione che segnerebbe un’ulteriore divaricazione fra quanto si considera ‘poesia’ e tutto il resto (Il dibattito in merito è lungo e complesso, e non può essere approfondito in questa occasione).

            Culler sostiene, in breve, che la specifica configurazione testuale della poesia sarebbe in grado di generare nel lettore l’impressione di un evento in atto nel presente del discorso, vale a dire in quel tempo immaginario nel quale si presuppone che il poeta stia prendendo la parola. Al presente è tautologicamente connessa la presenza, e dunque il testo poetico genererebbe quelli che definiamo effetti di presenza. La dimensione rituale viene esplicitata come un qualcosa di più o meno comune a tutta la poesia e si riconnette a un processo di delimitazione e appropriazione di un luogo definito. Entro i confini di tale luogo si assiste alla reiterata ripetizione dell’identico, al riverbero della parola che non cessa di dirsi e di darsi, e di conseguenza di farsi tangibile nella materialità del ritmo e dei segni.

            A ben vedere, non stupisce che l’idea di rito abbia una portata semantica e storica tale da divenire quasi automaticamente fonte di terrore. Non è forse necessario scomodare una bibliografia pressoché infinita che va da Mircea Eliade a Furio Jesi, da Ernesto De Martino a Hans Blumenberg, per affiancare alle pratiche rituali una forma di irrazionalismo radicale che tende ad assoggettare le libertà, i desideri e le spinte rivoluzionarie a quella gabbia ipostatizzata che è la coazione a ripetere, l’asservimento incondizionato a un insieme di regole date che si percepiscono come immutabili. D’altra parte, se procediamo a ritroso, era stato Émile Durkheim a sottolineare il ruolo fondante del rito nella costruzione e nel mantenimento di una comunità, proprio in forza di quella prassi reiterata che è alla base della maggior parte dei legami sociali. Essere parte di una comunità è compartecipare a un insieme di pratiche e coabitare quegli spazi deputati allo svolgimento di queste, permettendo l’incontro del singolo con l’altro, la collisione e lo scambio necessari alla crescita, lo sviluppo di una rete di connessioni sempre espandibili e rinnovabili.

            In anni recenti la letteratura sembra aver espresso in termini sempre più chiari l’esigenza di ridefinire uno «spazio comune del futuro» (Gilles Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, 2005) a partire dalla coscienza di un progressivo (e preoccupante) dissolvimento dei legami di quello che veniva definito “tessuto sociale”: penso alle riflessioni di Laura Pugno nella rubrica Poesia, terzo paesaggio? su Le parole e le cose, all’articolo di Andrea Inglese intitolato Un genere legittimato dal suo futuro. Idee, pratiche e comunità d’ascolto di poesia apparso su Alfabeta 2, o ancora ai romanzi di Matteo Meschiari, che coniugano riflessione geografica e antropologica nella ricerca di uno spazio di senso trans-categoriale e interspecifico.

            Date queste premesse, vorrei condividere alcune riflessioni su tre raccolte poetiche recenti o recentissime che, secondo modalità differenti e talvolta antitetiche, presentano a mio avviso un’idea di ridefinizione o riscrittura della dimensione rituale propria della poesia, sia mettendone alla prova le istanze formali costitutive, sia tematizzando una concezione aperta, dialettica, del rito stesso: Querencia di Lorenzo Mari, Favole dal secondo diluvio di Giorgiomaria Cornelio, Lo stigma di Carlo Ragliani. I tre autori in questione hanno proposto un ricco dibattito (Cornelio) o risposto allo stesso (Ragliani, Mari) nel dossier La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia apparso su Nazione Indiana.

            La raccolta di Lorenzo Mari, pubblicata per la collana Croma K di Oèdipus nel 2019, si apre con una citazione da Michel Leiris, De la littérature considérée comme une tauromachie, che introduce il Leitmotiv intorno al quale si costituisce lo spazio del testo. “Querencia” è il lessema con il quale viene indicata, durante la corrida, la porzione di arena entro cui il toro si sente maggiormente al sicuro; il suo significato traslato si riferisce a una particolare declinazione di affetto, di cura, che si può provare verso un’altra forma di vita in quanto bíos e zoé a un tempo, esistenza individuata ma anche gratuita, libera e radicata nei cicli naturali. Il primo testo si apre con un enunciato all’infinito, come monito, invito, o più semplicemente desiderio: «togliere la lalìa all’eco: per sentirla | farla ancora sentire e farlo davvero», e subito dopo specifica che «esiste una pietà anche al toro | anche al torero nascosta» ed è da qui che è necessario ripartire, dalle strutture fondanti dell’οἶκος, per «ascoltare, infine come si muove, in sé e per | quel che sarebbe potuto correttamente essere | credimi». La crudeltà atavica di cui la tradizione della corrida legittima il perpetrarsi si traduce nella fissità di un «pubblico silente» che, accondiscendendo ad assistere alla carneficina, neutralizza il potenziale critico della parola in un flusso indistinto di stereotipi comunicativi («Predica a lungo. Predica niente. Predica vuoto. Non predica toro. Pubblico silente, se soltanto ah se soltanto ci fosse di nuovo un moto, ma: pubblico silente»). Sul piano formale, la prosa breve sembra mimare il parossismo degli automatismi comportamentali nel proliferare delle strutture di ripetizione, che agiscono sia sul piano dell’intero enunciato ripetuto, sia su quello della variazione minima a partire da un medesimo nucleo di senso («Predica un soggetto altrui, precedentemente schivato.» | «Soggetto altrui oppure niente: è così che non ha parlato», fenomeno che a sua volta genera l’iterazione fonica a distanza).

            In concomitanza con il dispiegarsi del discorso critico sulle pratiche rituali storicamente cristallizzatesi emerge un altro discorso, questa volta metapoetico e dichiaratamente autocosciente («Predica segno. Senza segno, predica lirica – poi confessa: peccato. Poteva essere un’altra forma, se soltanto ah se soltanto fosse stato un altro stile, un altro significato»): lo spazio percepito come «immobile, immutabile», resistente al «nuovo», è anche quello della scrittura stessa, ed è qui che dal testo promana la precisa presa d’atto di una responsabilità. Scrivere è assumere su di sé delle scelte, determinate e orientate (o, all’inverso: diffidare della neutralità di chi scrive come si diffida della neutralità del pubblico). L’analogia fra corrida e scrittura viene esplicitata a più riprese, può assumere le sembianze di un cortocircuito percettivo che unisce lo scatto immortalato del torero al conato a scrivere, in virtù di un medesimo desiderio di vita («e poi parte alla riscossa contro la vita, […] sta per morire, dimenticato il suo spazio che era spazio, se non di vita, almeno di piccola, minutissima scritta»), o quelle di una riflessione teorica sulla fenomenologia dei linguaggi e degli spazi inquinati dai dispositivi di potere, eppure è proprio acquisendo consapevolezza della «mattanza»  (Querencia, 13) comune nella quale tutti siamo coinvolti che affiorano, di contro, delle possibilità lucide di mutazione. Quello proposto da Querencia non è né un facile entusiasmo legato a paradigmi utopistici, che hanno rivelato storicamente i propri limiti, né tantomeno un ritorno a posizioni di tipo mistico-religioso: l’unica certezza possibile è che, nonostante tutto, «resta il non | fatto | resta il non | detto». L’ammissione di inconoscibilità della totalità del reale nel suo dispiegarsi naturale e tecnico (quel «non so dire» che è un residuo irriducibile) non impedisce il corroborarsi di un impegno collettivo che permetta, almeno in parte, di «uscire dallo schema implacabile», ripensarsi come vivente plurale: «noi per esempio, che di noi diciamo: santifica la traccia, pur abbandonandoci, perché allora si potrà perdonare, restare uniti in qualche forma: noi stiamo attenti al corno e tu a quel punto, come sempre, ma ancor di più in quel punto pur abbandonandoci non abbandonarci».

Nella seconda metà della raccolta sono collocati quattro brevi testi, graficamente in versi, che si aprono con un’interiezione seguita dai due punti e si chiudono con gli stessi due elementi invertiti nell’ordine (i lessemi in questione sono «finalmente», «dice», «permesso», «prego»). In questa microsezione potremmo leggere l’esigenza di focalizzare lo sguardo sulla littéralité del testo, sulla pura funzione fatica, per accedere a una progressiva decostruzione dei sistemi verbali e di senso che hanno inscritto il rito nel mito, nella superstizione, nel sangue, e in questo modo sostituirvi l’elementarità della lallazione. Si tratterebbe, quindi, di un inno collettivo apparentemente privo di significato ma in verità pregnante di un senso rinnovato, più libero e più umano proprio in quanto estraneo alle logiche utilitaristiche. Attraverso questo viatico è possibile svuotare «l’arena del toro, del torero e della scena madre», recidendo la catena simbolica e materiale che avvince tanto le vittime quanto i carnefici della storia, e dunque rifondare lo spazio simbolico stesso pronunciando nuovamente una «parola antica» della quale, una volta che questa sia stata sottratta alla legge della coercizione e della paura, resta il legame con una dimensione trans-individuale, non necessariamente spirituale in senso stretto. Una parola che sia il segno di un credere, ancora, in qualcosa (e probabilmente, soltanto: nella vita in sé e per sé). Il torero, divenuto per una paradossale metamorfosi prete e tennista, potrà dichiarare al microfono la propria esigenza più profonda: cambiare il rito. Cambiarlo, non cancellarlo, per ridisegnare quello spazio di condivisione e di senso che pure dalla prassi rituale ha tratto le sue ragioni e i suoi fini e che, restituito a una vita che è cura e desiderio, querencia, può ritornare a essere-abitato. 

            Se la lingua utilizzata da Lorenzo Mari è materica, corporea, oscillante fra l’oggettuale e il letterale, quella di Carlo Ragliani sembra posizionarsi al polo opposto nello spettro della referenzialità: Lo stigma (Italic Pequod, 2019) è un libro ricco di lessemi astratti, concettuali, sostantivi (dal valore generale o categoriale) preceduti dall’articolo determinativo, secondo un amalgama di filosofia, teologia, ma anche di simbolismi di matrice sincretica e operazioni citazionali transculturali di vario tipo. Per farsene un’idea tangibile, ecco alcuni esempi di sintagmi derivati da questo insieme di processi: «le rendite dell’essere| sono flagelli | di vanità» (17); «essere niente | il sasso a strozzare il flusso | della comunione | che non più sfama» (23); «il frapporsi della carne» (29); «il rimpianto d’una riparazione» (46); «il fallimento | d’ogni conato | d’insistenza» (62). Il convergere di una pluralità di tradizioni culturali e religiose sembra peraltro favorito dalla frequente occorrenza della formula [sostantivo + genitivo (di tipologia variabile)] che permette, d’altro canto, di sublimare anche i termini più concreti in direzione di un piano immateriale e, per così dire, ipostatizzato.

Il titolo è di ispirazione evidentemente biblica e allude pertanto, in maniera piuttosto esplicita, a un’idea di stigma (dal latino stigma (-ătis) «marchio, macchia, punto», dal greco στίγμα -ατος, der. di στίζω «pungere, marcare», fonte: Vocabolario Treccani) in quanto marchio indelebile che sancirebbe deterministicamente l’esclusione dell’individuo tanto dalla grazia divina quanto dal consorzio umano che ne riconosce la colpa originaria. A ben vedere, tuttavia, lo stesso lessema può vantare un ampio ventaglio di significati alternativi: in ambito botanico (la parte apicale del pistillo o un organo pigmentato fotosensibile presente in varie alghe) e zoologico (un’apertura del sistema respiratorio di alcuni artropodi) indica, per un curioso paradosso semantico, una componente deputata al contatto con l’ambiente esterno e alla ricezione di stimoli da parte di questo.

Mi sembra che nell’opera di Ragliani l’evento-azione poetico si configuri secondo un’analoga dialettica dei contrari, percepibile in particolare nella scelta dei verbi, specialmente se di modo infinito: qui convivono infatti lessemi che rimandano a una “chiusura” del discorso nel dramma della vanità e della finitudine («precipitare», «miserere», «nullificare») e lessemi che testimoniano, al contrario, la ricerca di una piena relazione con l’alterità, anche nella sua immanenza («credere», «pregare», ma anche «mietere» e «ripetere»). Ci troviamo nella sezione centrale delle sette in cui è suddivisa la raccolta (sette quante le volte in cui colui che proverà a uccidere Caino, portatore dello stigma, sarà punito dal dio biblico, come avverte Mario Famularo nella prefazione); ciascuna sezione è contrassegnata da una lettera dell’alfabeto ebraico, da un titolo e da una citazione delle scritture: HE – Vagito, AJIN – Radici, TET – Luce nascosta, DALET – Nullificare, GIMEL – Privo, TAV – Caduta, RESH – Uomo. A partire da questa struttura macrotestuale si dirama un percorso di catabasi – e di labile ma pur presente speranza di risalita – che incomincia con l’infrazione della totalità originaria attraverso l’atto del nascere (la condanna al principium individuationis) e ripercorre le tappe simboliche dell’antropogenesi operando un confronto serrato fra quanto è scritto nell’Antico Testamento e quanto si può esperire individualmente nel presente caratterizzato da «spossessamento» radicale e da un’«etica dello spreco». In questo caso si può pertanto affermare che lo spazio rituale si fondi, in prima istanza, sull’allestimento di un itinerario a tappe lungo il quale, coadiuvato dalla notevole coesione tematica e dal coriaceo monolinguismo del testo, chi legge viene posto in una condizione tale da sospendere temporaneamente le proprie credenze e i propri paradigmi epistemologici per intraprendere un’opera di ricostruzione archeologica dell’umano.

I testi che compongono le sezioni sono brevissimi, a loro volta costituiti da versi altrettanto brevi – tutti aperti da un trattino seguito da un’unica parola – che potrebbero ammantare di un’apparenza orfico-ermetica la raccolta nel suo complesso. Eppure, mi sembra che la parola di Lo stigma sia abbastanza lontana dalle aspirazioni di assolutezza che avevano contraddistinto il simbolo ermetico, e che si avvicini piuttosto ai testi di carattere pragmatico-meditativo, nonché autoterapeutico, ampiamente attestati fra gli scritti delle filosofie orientali.  La brevitas costitutiva sembra richiamare a una pronuncia sottratta al silenzio – qui ritorna il tema dell’inceppamento intrinseco al linguaggio, dell’esigenza di rimodulare la propria lingua – per sconfinare, con il susseguirsi delle sezioni, nell’invito al «distacco» e all’«esilio», «risparmiando il più possibile» e attendendo «una possibilità | incorrotta | prima di immergersi | nel silenzio». L’esortazione impersonale a «perdere tutto | nella liturgia | dell’assenza» (lungo l’intero testo non compare mai un soggetto definito, neppure di tipo linguistico-fenomenico), insieme alla frequenza degli enunciati legati al topos del contemptus mundi e alla costante percezione dell’ineluttabilità degli eventi, potrebbero privilegiare un’interpretazione che, limitandosi al piano dei “contenuti”, legga l’opera come un lungo percorso di rifiuto, condanna categorica della realtà materiale in vista di un miglior destino ultraterreno. Quello che mi sembra interessante sottolineare è che, al di là delle possibili interpretazioni più o meno mistiche, la raccolta di Ragliani esprime a un tempo un vuoto e un’esigenza: vuoto simbolico generato dalle propaggini estreme, sul limite dell’«autofagia», di un sistema che ha imposto il crollo degli orizzonti ideologici e valoriali in favore del profitto economico e del più triviale produttivismo/efficientismo; esigenza di fondare nuovi codici e nuovi scenari di possibilità, anche attraverso l’esercizio individuale del distacco e dell’autodisciplina verso quel desiderio autoalimentantesi imposto dalla macchina tardocapitalistica. Questa idea ascetica di individuo che preferisce sacrificare sé stesso può forse essere letta come il sintomo definitivo di un fenomeno storico e sociale che ha ormai scavalcato la miopia specifica del singolo osservatore: il raggiungimento del punto di superfetazione da parte dell’individualismo stesso. (Si pensi a quanto afferma Peter Sloterdijk sul valore che l’esercizio assume nella ridefinizione dell’habitus in Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, pubblicato in Italia dieci anni fa da Raffaello Cortina).

            L’ultima opera che vorrei menzionare è Favole dal secondo diluvio di Giorgiomaria Cornelio, pubblicata nell’ambito del progetto editoriale indipendente “Edizioni Volanti” in un libro d’artista contenente, accanto ai testi e in un rapporto di simbiosi intermediale con questi, alcune illustrazioni di Giuditta Chiaraluce. In Cornelio ritornano il motivo biblico, sin dal titolo, così come la cornice espressamente rituale, e anzi in questo caso la presenza di una trama di relazioni iconotestuali e la specifica materialità del supporto sembrano sancire la preminenza di uno spazio rituale specifico –uno spazio anche fisico, visivo, aptico – che non soltanto “ospita” i testi, ma ne orienta in modo tangibile le modalità di fruizione. In questo caso potremmo affermare di trovarci di fronte a un libro di “poesia installativa”, intendendo con questa un insieme di pratiche di ibridazione del testo poetico con la fenomenologia estetica più propriamente riconducibile all’installazione artistica tout court, in particolare per quanto concerne la creazione di un ambiente sinestetico di fruizione e il coinvolgimento diretto, pragmatico, del lettore-fruitore nella costruzione dei percorsi di senso dell’opera. Non sarebbe possibile parlare di installazione poetica, intrinsecamente rituale, senza tener conto di una tendenza allo spostamento del focus sulla materialità del linguaggio – la predominanza del significante sul significato – e di una volontà, da parte di chi scrive, di mettere in scena un’ «appropriazione simbolica dello spazio pubblico di esposizione» al fine di dimostrarne la necessaria dipendenza da precise scelte autoriali, orientamenti, forme tramandate (Boris Groys, Politics of Installation, 2009). 

Non è un caso che la frase posta in esergo, tratta dal Libro dello splendore di Zohar, sia «Ecco, ora va’, scendi nel tale luogo, entra nel tale corpo», a testimoniare la necessità di inabissamento in una dimensione che è in parte altra dal quotidiano, in parte plasmata dai risvolti dell’immaginario che nel quotidiano convivono, fra stratificazioni di memorie letterarie, reperti verbali di ascendenza altamente eterogenea, ipotesi di corpi e di mondi che trascendono le categorie di significazione consuete. Si tratta infatti di una raccolta limitata nell’estensione eppure densa di interferenze figurali, composta da brevi sezioni in prosa che si collocano in una zona ibrida, a metà fra la “descrizione” e la “narrazione”, e caratterizzate da un dialogo incessante e travagliato con un gran numero di architesti: dai trattati della mistica occidentale alla prosa in prosa italiana e francese, dai grandi sperimentali “atipici” come Emilio Villa e Corrado Costa alla tradizione secolare dei carmi figurati. Sin dal primo testo chi legge è trasportato all’interno di uno scenario fantastico-onirico prima che biblico, nel quale il diluvio è avvenuto poiché noi umani «Abbiamo disubbidito al compito di scendere»: diversi indicatori testuali farebbero pensare a questo «scendere» come a un fondersi e confondersi appieno nell’ecosistema di cui l’umano è parte, abbandonarsi alla totalità del flusso vitale. Troviamo infatti la giustapposizione di sostantivi ed elementi naturali/culturali secondo un drastico livellamento delle gerarchie: la terra del dopo-diluvio è «radici, e pioli sassosi» ma anche «Midollo, alburno e durame», e del resto questo sprofondarsi nel magma materico si manifesta come l’unica possibilità di rinascita («Conosciamo solo l’altitudine di questo mondo, e non ci basta più»). Il testo successivo, mantenendo la prima persona plurale, descrive questo processo di salvazione che un’umanità postuma a sé stessa si accinge ad attivare, dal momento che persino «l’estinzione non è pensabile sino in fondo». Intrapreso il cammino, la «seconda evidenza delle cose» impone alle parole di recuperare il contatto primordiale con i loro referenti rifondando il «complemento di luogo». Più che a un discorso sull’origine, si allude a una coscienza del proprio essere radicati, incarnati in un luogo, il quale di certo può essere soggetto a mutazioni, ma a patto di agire sempre nel rispetto della complessità, della biodiversità, della conservazione di quei legami (anche qui) rituali che lo rendono unico e inviolabile.

            Nel terzo testo dei «vecchi teologi» stanno tentando di imporre i propri «decreti» al «cervo volante, maestro di rinascite» (chiaro riferimento, questo, alla collana di poesia sperimentale diretta negli anni Ottanta da Adriano Spatola). Anche la creatura, sollecitata a «separare gli organi utili da quelli superflui» rifiuta il discernimento e sembra preferirvi l’esilio («collimano all’entrata – alla corteccia – le mura dell’espatrio»), opponendo al logos legiferante dei teologi la coincidentia oppositorum alogica, il paradosso in quanto processo vitale («Mattone mozzo e mattone intero: non altrimenti hanno tirato su il libro del mondo. Non altrimenti volevano cancellarlo»).  Il quarto testo, oscillante fra l’imperativo e l’indicativo presente, sembra essere rivolto a un “tu” che è sopravvissuto al diluvio, in parte deprivato di un’esistenza precedente, in parte rinnovato, un essere coappartenente ai regni dell’umano e dell’animale. Il dialogismo esposto rivela anche in questo caso la natura pragmatica, di monito o invito, intrinseca al brano; una voce non identificabile pronuncia queste parole:

 Con l’ebrezza spezzi la sintassi, il pronostico delle foglie di cisto. Rendi l’oro potabile. Soprattutto ripeti che la causa di ogni realtà intellegibile non è nessuna realtà intellegibile. Poi zitto abiuri, slarghi il cerchio, il magistero della guazza, e te ne vai a dormire; ma purché qualcosa cresca anche d’inverno, di sotto: “purché ogni mattina prosegua un poco la lenta fermentazione delle promesse.”

 Anche qui ritroviamo il cortocircuito fra lessemi astratti («ebrezza», «sintassi», «la causa di ogni realtà intellegibile») e lessemi estremamente materici, quasi alchemici («foglie di cisto», «oro», «guazza», «fermentazione»), in un rapporto logico e ontologico decisamente inverso rispetto a quanto avviene in Ragliani: qui l’astratto è ricondotto sistematicamente alla sua matrice corporea, sanguigna, e vi si potrebbe anzi ravvisare l’influsso degli scritti di Rubina Giorgi, studiosa di Jacob Böhme e teorica del simbolo come universo vitale, desiderante, dinamico (La riflessione simbologica, Lerici, 1968; Jakob Böhme: il corpo in Dio e nell’uomo, La finestra, 2017).

Nelle Favole la componente di esercizio o percorso meditativo allude dunque a una concreta promessa di senso, che pur plasmandosi dall’entropia indistinta di enti umani e non umani, reali o immaginari, assume i contorni netti di una volontà pronta a seguire, una tappa dopo l’altra, una prassi auto-liberatoria. Meditazione individuale e recupero di un contatto osmotico con l’alterità si configurano come i due termini imprescindibili per la costruzione di un nuovo orizzonte di prassi artistica e sociale, termini che provano a descrivere i germi di una mutazione in atto – termini non sempre immediatamente percepibili, il più delle volte vibranti fra le pieghe dei testi, lungo una gamma di posizioni divergenti che celano intenti comuni, ovvero nei più ampi movimenti che caratterizzano la storia dei saperi.

            In questa riflessione, inevitabilmente limitata, il mio proposito è stato, semplicemente, quello di osservare attraverso alcuni rilievi la presenza di una trama di connessioni (forse ancora labili) che collocherebbero tre raccolte contemporanee (sensibilmente diverse tra loro) entro una medesima disposizione al rito in quanto elemento fondante, e oggi più che mai problematico, della forma poetica. Al termine di queste letture, non ho potuto fare a meno di pensare al radicante di Nicolas Bourriaud o all’actor-network theory di Bruno Latour; mi è sembrato, insomma, che, partendo da alcune tematiche già diffuse da qualche anno all’interno del dibattito poetico e culturale, si stessero delineando nuove radici, le radici di un nuovo possibile umanesimo aperto alle istanze del non-umano e ai bisogni etici e conoscitivi che il diluvio (pandemia? estinzione?) ci ha posto di fronte. Ripensare lo spazio rituale della letteratura e dei suoi possibili usi in un’ottica coscientemente comunitaria e politica appare, oggi più che mai, una necessità – non l’ennesima divagazione, non l’ennesima resa allo «stato delle cose».