Nel lungo percorso di narratore di Ermanno Cavazzoni La madre assassina (La nave di Teseo 2020) più che un passo in avanti somiglia a un salto mortale sul posto o a una capriola laterale. Non è detto però che i libri di un autore debbano starsene in riga, come scolari monelli allineati per la foto di classe, in ossequio alla cronologia (la maestra?) o, peggio ancora, alle tendenze teleologiche della critica. Se non si considera la recente riedizione del Poema dei lunatici, La  madre assassina rappresenta la terza fatica pubblicata dall’autore emiliano con l’editore milanese: questo breve romanzo fa seguito alla ‘fanta-nescienza’ cavalleresca di La galassia dei dementi (2018) e alla raccolta di corsivi ibridi Storie vere e verissime (2019).

L’affiliazione di questo breve romanzo al genere della detective story è proclamata fin dalla presentazione editoriale, che si può leggere nell’aletta anteriore: «È un poliziesco? Sì, di genere nuovo. C’è il morto, ed è il morto che conduce le indagini per scoprire chi lo ha assassinato». Tuttavia, anche questa volta come già per La galassia dei dementi, non è tanto Cavazzoni ad andare incontro ai generi letterari, sono i generi letterari ad entrare nella fantasia di Cavazzoni. Potrebbero restare quindi tradite, anche piacevolmente, le attese del divoratore di gialli più classici, del frequentatore dei lupanari hard-boiled, come quelle del degustatore di quei testacoda postmoderni in cui l’investigatore che tenta di afferrare il colpevole si sente a sua volta strattonare per il trench.

Ma andiamo con ordine: il romanzo è preceduto da un’avvertenza che propone riadattato il topos del manoscritto ritrovato, in questo caso un incartamento perduto: La madre assassina altro non sarebbe che la fortunosa trascrizione del resoconto rilasciato dal ventiduenne Andrea Pacini, la cui copia ufficiale, depositata in tribunale, è andata distrutta in un allagamento, forse doloso, verificatosi negli archivi. Oltre a due stratagemmi tipici del patto narrativo di Cavazzoni,  la rivendicazione della verità poetica della materia narrata e la de-sublimazione dell’oggetto libro (La valle dei ladri sarebbe stato addirittura rinvenuto in mezzo al binario ventuno della stazione centrale di Milano), l’avvertenza fornisce un’anticipazione importante dal punto di vista stilistico su ciò che aspetta il lettore: «Qui riportiamo il resoconto scritto dal protagonista in terza persona, come se lui fosse un testimone di ciò che lui stesso ha fatto, ha detto e pensato» (p. 7).

Andrea Pacini si sveglia una mattina senza più riconoscersi e subito convincendosi di due verità conseguenti: di essere stato trasformato nottetempo in un essere artificiale, un «meccanismo dotato di movimento e pensante» (p. 9), dunque che il suo ‘lui-di-prima’ è stato probabilmente ucciso e occultato da sua madre in combutta con l’amante, il ragioniere Olivi. Andrea si ritrova sosia di se stesso, consapevole ultracorpo e protagonista perfetto per innescare uno straniamento percettivo e propriocettivo che agisce anche sul lettore. Tale straniamento ha le sue radici nel comico meccanico dei diavoli a molla descritti da Bergson, ampiamente sfruttato anche nella Galassia dei dementi, e sulla banale constatazione che ognuno di noi certi giorni stenta a riconoscersi, si sente artificiale e farraginoso, non combaciante con il mondo. Spesso il comico e la riflessione umoristica che può seguirne prendono il là dalla concrezione fisica di un difetto esistenziale: in fondo anche Uno, nessuno e centomila di Pirandello si apre con la «scoperta improvvisa e inattesa» di un difetto corporale.

Per chiarirci le idee sul tipo di poliziesco che abbiamo di fronte, si può osservare come la percezione sfalsata di Andrea si proietti anche sugli altri personaggi, la madre, il ragioniere Olivi e gli strambi abitanti del condominio in cui è ambientato il romanzo, visti a loro volta come sosia, cangianti body snatchers uniti nel complotto contro Andrea, nel quale riconosciamo l’ennesima reincarnazione del narratore paranoide così caro all’autore. L’investigazione di questo personaggio è tenuta insieme da associazioni arbitrarie, incoraggiate dal dottor Animini, unico alleato nella battaglia contro i cospiratori insieme alla fidanzata di Andrea, Alessia, che rimane però esclusa dalle architetture teoriche del ragazzo e tenuta a distanza a scopo protettivo.

Per la riuscita di questo tipo di narrazione un setting asfittico, claustrofobico, vagamente labirintico è fondamentale: un ambiente chiuso favorisce quell’ eccessivo avvicinamento alle cose che ne impedisce una corretta messa a fuoco, ingigantendole alla fantasia di Andrea, che resta ingabbiata nelle pareti del condominio, anch’esso additato come «soggetto criminale o colludente col crimine» (p. 142), e impedita nello sganciarsi dalle sue stesse fissazioni. Nei suoi libri più strettamente narrativi, Cavazzoni oscilla spesso tra ambientazioni en plein air – su tutte la pianura de Il poema dei lunatici e La galassia dei dementi – e anaerobici spazi da incubo, come la biblioteca in cui si svolge Le tentazioni di Girolamo o appunto il condominio di La madre assassina.

Ciò che conta nella detective story paranoide è che le connessioni di fatti irrelati sembrino per l’investigatore «correlazioni lampanti» (p. 90), come accade in Cosmo di Gombrowicz, in cui le ossessioni si allacciano spontaneamente fra loro e conducono verso una certa, inesorabile azione. La bravura di Cavazzoni sta nel rimanere con equilibrio circense sul filo di una trama percorsa in bilico fra due opposte letture dei fatti: quella di Andrea e quella di tutti gli altri, ad ogni passo ugualmente legittime. Il grande maestro dietro questo libro mi sembra più di altri il primo Malerba, autore di libri come Il serpente (1966) e Salto mortale (1968) e instancabile orditore di paranoie tramate di giallo. La tendenza a creare una logica parallela a quella comune è quella di chi tenta di dominare una realtà percepita come incomprensibile, per non essere a sua volta dominato: scomoderei in questo senso un riferimento a prima vista meno vicino all’universo di Cavazzoni, ma perfettamente acclimatato in quest’aria di famiglia, anche linguisticamente, ossia il Volponi di La macchina mondiale (1965), il cui strambo narratore, il contadino-filosofo Anteo Crocioni, cova nella sua solitudine teorie sulla meccanizzazione dell’universo. Ai riferimenti in giallo di Cavazzoni va aggiunta una ‘spolverata’ di nero, viste le numerose strizzate d’occhio presenti nel libro di un famoso gatto nero che, diciamo così, non potrebbe strizzarli entrambi…

Credo che la detective story per l’autore abbia rappresentato una tentazione, se non latente, quantomeno implicita nella sua poetica: non era lo stesso Savini, protagonista del Poema dei lunatici, un cosiddetto ispettore perso a correr dietro ai ‘casi’ della pianura? E come Savini, anche Andrea ha bisogno del suo prefetto Gonnella, ossia di qualcuno, nel suo caso il dottor Animini, che condivida la sua lettura del mondo e ricarichi la molla che lo spinge a proseguire nella sua solitaria quest, alla ricerca della «trama sottostante» la superficie (p. 147), al di fuori dei «comuni parametri» (p. 93) e oltre i confini della degradazione psicologica. Anche nella Madre assassina i nemici sono riuniti in una fantomatica consorteria, o meglio, per usare una keyword cara all’autore, in una banda; la tendenza al ragionamento complottista segna da sempre per i personaggi di Cavazzoni la sanguinosa divaricazione tra la supposta realtà e la percezione fantastica che ne ha l’individuo. Non anticipo nulla sul finale del libro, al contempo ambiguo e liberatorio, se non l’osservazione che anch’esso richiama la chiusura del Poema: tutto sommato, i libri di Cavazzoni sembrano proprio non voler rigar dritto sulla linea del tempo.

Ho forse liquidato troppo in fretta quest’opera come un ‘salto mortale’ sul posto, che riprende e modula alcune opzioni già percorse dall’autore o implicite nelle premesse della sua poetica. Una novità in effetti c’è, e anche vistosa, forse più una questione di disegno che di esiti: per la prima volta Cavazzoni abbandona la coazione digressiva che ha animato tanti (tutti?) i suoi libri di narrativa in favore di una più trama agganciante e lineare, almeno nello svolgimento, per quanto sempre comica, strampalata e in linea con il suo ormai consolidato e riconoscibile immaginario. Prosegue dunque l’esperimento di semplificazione linguistica e posturale della narrativa di Cavazzoni, in corso già da alcuni anni e accentuatosi con il sodalizio con il suo recente main publisher. La madre assassina è, per usare una formula critica assemblata da Gianni Celati per perimetrare gli esperimenti postmoderni di Calvino, Manganelli e Sanguineti, un ‘racconto di superficie’, ossia un «racconto di ciò che avviene su una superficie e rifiuto dell’antica profondità di discorso». Ma oltre la scorza di plastica degli automi monodimensionali di Cavazzoni, burattini diventati robottini, sotto una lingua in apparenza sempre più giocosa e amichevole, è all’opera qualcosa di oscuro: avvicinando l’orecchio all’innocuo balocco, si sente un inquietante ticchettio.


Ermanno Cavazzoni, La madre assassina, Milano, La nave di Teseo, 2020, pp. 176, € 18,00.

L’immagine di copertina dell’articolo è un particolare di un’opera dello scultore e pittore Paolo Beneforti, che ringraziamo per aver concesso i diritti di riproduzione.