In una puntata della seconda stagione di Black Mirror, Be right back, la protagonista prova a colmare il vuoto lasciato dalla morte del suo compagno affidandosi a un nuovo servizio digitale, che offre la possibilità di dialogare virtualmente con i defunti: a partire dall’archivio di parole e immagini che ciascuno ha riversato sulla rete, e in particolare sui social network, infatti, possono essere costruite conversazioni autentiche, dialoghi consapevoli e apparentemente empatici. La massima che sottostà a questa futuribile invenzione – che mostra presto le sue distopiche degenerazioni – è che l’archivio sopravvivrà alla macchina biologica che noi siamo.

Sembra muovere da uno spunto simile il nuovo lavoro narrativo (non lo chiameremo romanzo, per ora) di Davide Orecchio, Il regno dei fossili. L’orizzonte dell’intera narrazione, che affiora in maniera prima vaga e incerta, poi progressivamente più netta, fino a stagliarsi imperioso nelle fantascientifiche pagine finali, è proprio quello di un “programma” che consente di sopravvivere alla morte attraverso lo stoccaggio delle coscienze individuali e del loro materiale memoriale e cognitivo all’interno di un archivio. A queste “coscienze archiviate” è consentito continuare ad abitare gli spazi familiari, convivere insieme ai propri cari che hanno aderito al programma oppure vivere esperienze nuove, proiettandosi in scenari estranei o esotici. Tutto, però, senza la possibilità di avere accesso alla sfera sensoriale, unico interdetto di questo nuovo mondo che apre il campo all’eternità.

non ha la corteccia degli anni, non ha rughe, non ha la forma dell’uomo, è liofilizzato, disabbigliato, versato nelle sue parole, è virtuale ed è vivo, è riproducibile e risuona nell’audio diffuso (221).

A tale sorte sono chiamati entrambi i protagonisti di questa narrazione che, nei modi del poema in prosa, si agglutina intorno a momenti discreti delle due parabole esistenziali. Da un lato c’è quella di Albina, personaggio d’invenzione; dall’altra quella di Giulio Andreotti, figura storica, nume tutelare della Prima Repubblica, oltre che dell’esistenza di Albina. Fin da bambina, infatti – da quando ha scoperto di condividere con il politico democristiano la postura ingobbita (un brutto incidente la costringe per lungo tempo a camminare curva su se stessa, per non sforzare la cicatrice che le attraversa la pancia) – sente un legame profondo e latente con Andreotti, che pure non ha mai conosciuto se non per televisione. Il profilo curvo e fragile aleggia sulla sua infanzia di bambina spezzata e “orfana putativa” (così come Andreotti per tutto il racconto viene definito «l’orfano»), ma anche sulla sua vita adulta, di donna divisa tra l’amore tenero, ma in fondo inappagante per Simone – studente fuori corso che vorrebbe laurearsi con una tesi su Andreotti – e quello con «il padre», l’amante, docente di storia contemporanea, al quale la lega un rapporto morboso di attrazione e ripugnanza.

Alle vicende di questo triangolo amoroso è dedicato il dittico centrale di quest’opera – Sushi love e Sushi hate – incorniciato dalle pagine del diario di Andreotti (Dalla vita di A.), che forniscono un quadro storico-politico, ma soprattutto epistemologico alla vicenda di Albina. È in questi capitoli, costruiti intorno a due precisi momenti della storia repubblicana – il primo governo democristiano, dopo le elezioni del 1948, che segnano l’esclusione dei comunisti dal governo e lo schieramento dell’Italia all’interno dell’alleanza atlantica («Noi ora abbiamo il governo, ricostruiamo, non siamo comunisti né capitalisti, non siamo fascisti, siamo i nemici della lotta di classe, ma non siamo il mercato, pensiamo al presente, lasciamo agli americani il futuro», 65); il 1978 e la morte di Aldo Moro, con tutto il corredo di scambi e tormenti che toccano i dirigenti DC, meno Andreotti, all’epoca primo ministro –, è in questi capitoli, si diceva, che si delineano i contorni del Progetto Clarke, che il Pentagono sta portando avanti mettendolo a disposizione di chi dimostri fedeltà all’amministrazione americana nella spartizione dello spazio europeo all’indomani della Seconda Guerra. I comunisti non dovranno saperne niente, mentre tutti i democristiani sono chiamati a manifestare il loro interesse a partecipare al programma. Che prevede – in una specie di pendant biopolitico del Piano Marshall – la crioconservazione dei corpi allo scopo di interromperne il decadimento post mortem, in attesa che le scoperte scientifiche consentano di trovare un modo per tenere in vita i tessuti, ma soprattutto le coscienze individuali. Pur nel timore che il piano contraddica l’ordine di Dio («Abbiamo sconfitto i comunisti con Dio al nostro fianco, ma se in futuro solo i comunisti avranno la morte, saranno loro ad avere Dio e noi l’avremo tradito, l’avremo perso», 65) Andreotti vi aderisce e iscrive d’ufficio anche il compagno Moro, nella convinzione di ricompensarlo per non aver accondisceso alle sue richieste nei giorni del rapimento. L’esito di questo processo, quale si delinea nelle pagine finali del libro, dominate da una «torre di ruggine» che funge da archivio universale delle coscienze, è qualcosa di molto diverso dal pionieristico programma novecentesco; ma ne conserva ancora qualche tratto.

La città è nella durata e nessuno dice la morte. La morte non è. La morte non è la città. Qui sono tutti, c’è tutto, ma Dio non c’è, sono vuoti gli zaini; e la torre di ruggine alle sue altezze, esteriormente, tra gli architravi e i cornicioni e le cerniere ospita i nidi di taccole e gabbiani reali che non temono ruggine, poi ha le terrazze dove scendono i droni che consegnano involucri di vite originali, ma le copie sono già nel server che è la torre stessa, e dalle terrazze vanni i binari che le entrano come tubi per il drenaggio, ma occorrono invece a portare gli involucri nelle interiora dove si archiviano gusci, nel freddo climatizzato di piani e scaffali (migliaia) che ospitano la longevità nel sistema di welfare (274).

Viene da chiedersi, a questo punto, cosa, delle precedenti opere di Orecchio, sia filtrato in questa narrazione distopica e dall’immaginario postumano. Quali le tracce di una continuità rispetto a Città distrutte o Mio padre la rivoluzione?

Certo, alcuni dei racconti dell’ultimo libro poggiavano le basi su un terreno distopico, dai tratti biomeccanici: si pensi al protagonista Iosif Adolf Vissarionovič dell’eponimo racconto, essere mitologico, che unisce Stalin e Hitler in un ircocervo forgiato con metalli nella «fabbrica dell’uomo nuovo»; oppure al Koba di Bambini raccontano, un «robot positronico» che nelle parole di Lenin aiuterà il popolo russo, ancora, «nella transizione verso l’uomo nuovo». E naturalmente l’elemento ucronico è costante in tutta la produzione di Orecchio, a partire dalle biografie infedeli di Città distrutte, fino ad arrivare, appunto, ai fantomatici e futuribili complotti del Regno dei fossili. Quello che però sembra distinguere quest’ultimo lavoro è il fatto che la Storia, orizzonte di riferimento e campo da gioco principale nei precedenti libri, qui non sembra più la destinazione primaria della consueta riflessione sull’archivio come cardine di un’immaginazione controstorica.

Anche nel Regno dei fossili, come negli altri libri, troviamo il certosino lavoro di ricostruzione e manipolazione dell’archivio bibliografico per delineare una storia dall’apparenza inverosimile ma che affonda le radici nella verità dei testi documentari (testimonianze tratte dalle biografie di Andreotti, le pagine dei suoi diari, ma anche informazioni prese dal sito della Società Italiana per la crionica). Qui però l’archivio si fa anche tema narrativo; ed è forse per questo che la Storia si limita a fare da scenario e a fornire l’innesco all’immaginazione narrativa. L’ucronia non è finalizzata a vedere gli avvenimenti novecenteschi con altri occhi, ma a rendere più evidenti e più urgenti interrogativi bioetici (il diritto alla morte e all’oblio come forma di postumana eutanasia) ed epistemologici (il rapporto tra archivio informatico e archivio biologico). L’archivio si trasforma da strumento attraverso il quale riscrivere la storia in spietata macchina che inchioda l’uomo alle proprie – salvifiche – imperfezioni.

e Albina annuisce e succede che una studiosa di storia, vicende umane germaniche, antiche, dissepolte e semiemerse divenga pure lei antica e dubiti delle proprie memorie: potrebbero essere false, il tempo è passato, il tempo disordina l’autobiografia, allora serve lo sguardo della scienza umana, serve cercare le prove, i rapporti, le cause, gli effetti, il contesto, le fonti di sé, servono i saperi ausiliari al sapere che dice tutti i perché: la storia, il racconto. Ma dire i perché di se stessi, osservarsi microscopicamente non è disumano quando l’intenzione di Albina è separare il vero dal finto per poi decidere quanto dimenticare? Non è disumano, dimenticare? Non è umano, dimenticare? (222)

Sembra allora che Orecchio dia qui una torsione metariflessiva al proprio racconto, invitando il lettore a una valutazione dei suoi stessi strumenti del mestiere, mettendo in discussione cioè un’univoca considerazione delle virtù contronarrative (e quindi politiche) dell’archivio. Che in questo caso affiora invece come idolo polemico, sintomo di una pretesa oggettività della conoscenza, che tuttavia rimuove quella macchina emotiva, nutrita di amore, di odio e di dolore, che è l’uomo.

Quando Giusto entrò nell’involucro, rimosse la prima moglie. Albina riscosse l’avviso dalla rete delle cose e dei corpi, Tuo marito toglie questo ricordo, ti è proibito per legge menzionargli il ricordo; nella torre di ruggine un filtro ferma le trasgressioni alla legge, nessun involucro riceve allusioni alle memorie vietate. Per il bene dei gusci ogni conversazione è nel wetware. Nella rete delle cose e dei corpi ogni cosa, e ciascuno, dice te e dice se stessa. Ora il marito è incompleto ma soffre meno. Non vede, non pensa, non ha l’incubo della prima moglie che diceva Sei fatuo, non hai intelligenza, non sei un vero uomo.

Il problema non è cosa ho cancellato, ma quello che resta e io ricordo ma che non posso ripetere, rivivere. Il problema è la noia; spiega Giusto alla moglie, e aggiunge Adesso per un poco mi spengo (250-251).

Pur nella singolarità della sua parabola narrativa e tematica, comunque, il libro di Orecchio si costruisce attorno ad alcuni capisaldi dell’immaginario della sua generazione, topoi che condivide, per esempio, con un altro romanzo che aveva provato a far dialogare discorso sui corpi (il bios) e discorso sulla Storia, ovvero Il tempo materiale di Giorgio Vasta. Anche qui troviamo l’ossessione per il torpore democristiano, incarnato da Andreotti, e l’illusione della discontinuità offerta dall’omicidio Moro (gli anni Settanta come svolta possibile e condanna definitiva dell’Italia). Anche qui troviamo una generazione che si rappresenta come orfana e al tempo stesso sterile, incapace di procreare perché sopraffatta dai propri interrogativi, dalle scelte irresolubili (tutti i personaggi del Regno dei fossili sono orfani e al tempo stesso incapaci di riprodurre). Anche qui troviamo il bisogno di tradurre il racconto in un registro dall’elevata intensità metaforica (un capillare sovvertimento del dettato attraverso minime esplosioni figurali). Infine, anche qui troviamo il tentativo di proiettare la singolarità del racconto su un orizzonte più ampio, universale, cosmico (verrebbe da dire sovra – oltre che post – umano). Che legittima l’adozione di uno stile che oscilla continuamente tra la rivelazione epifanica tipica della parola lirica (un passaggio tra i tantissimi: «Le vite parallele, come un pane che si va seccando, hanno la crosta sempre più dura, e la mollica si sfibra e diventa la ghiaia tra Roma e Berlino», 96-97) e l’urgenza epica di proiettare le vicende narrate nella distanza di un destino di secolare fissità (un esempio tra i tantissimi: «Chiamiamo il tempo della morte tempo dell’omicidio, quando i pensieri si volsero in armi e le parole in pallottole, è ieri ed è subito, è l’antico presente, e Ho per la morte un impulso di grande paura, di grande rifiuto – confida l’orfano al suo diario», 186).

È questo forse ciò che s’impone maggiormente del Regno dei fossili (e che lo distingue dalle opere precedenti di Orecchio). Opera ambiziosa e riuscita, che pur nella struttura “a quadri”, manifesta una volontà di narrazione ad ampia campata. E che però rinuncia alle discrete impalcature romanzesche per affidarsi al tempo lungo e al flusso continuo della parola poetica, che taglia il respiro al racconto, che restituisce l’urgenza cieca dell’accadere, che lascia convivere le alternative, che raffigura i destini molteplici e possibili, ma che, soprattutto, non può stabilire la sua fine.


Il-regno-dei-fossiliDavide Orecchio, Il regno dei fossili, il Saggiatore, Milano 2019, 290 pp. 21,00€


In copertina Anselm Kiefer, I sette palazzi celesti.