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Durastanti, Missiroli, Tarabbia, Santoni: una stagione di romanzi

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Quella che si concluderà a settembre con l’assegnazione del Premio Campiello – e cha ha già vissuto il proprio acme con l’assegnazione del Premio Strega – è stata, dal modesto punto di vista di chi scrive, una stagione particolarmente interessante e ricca per la narrativa italiana. A tutti i livelli: ci sono stati esordi intriganti (tra quelli segnalati dal Premio POP, per esempio, Hamburg di Marco Lupo o Lux di Eleonora Marangoni; ma anche il Davide Coltri di Dov’è casa mia), ci sono state nuove primizie di autori di più o meno lungo corso, che hanno confermato le proprie parabole di estrema grazia (come Filippo Tuena, con Le galanti) o di sconsolata disillusione (il Francesco Pecoraro dello Stradone e per altri versi il Walter Siti di Bontà), ci sono state opere importanti di autori ormai consacrati (e finalmente anche “premiati”, come nel caso di Antonio Scurati e del suo M. Il figlio del secolo). Ma soprattutto, alcuni scrittori di cui si attendeva il libro della consacrazione o della definitiva maturazione hanno finalmente trovato il coraggio di affrontare il responso di critica e pubblico: qualcuno che doveva coronare un percorso, chiudendo i conti con i propri mostri, ha trovato la strada per farlo, in maniera più o meno originale. Penso a La straniera di Claudia Durastanti, I fratelli Michelangelo di Vanni Santoni, Fedeltà di Marco Missiroli e Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia.

È su questi ultimi che vorrei soffermarmi in questo pezzo, spinto da quell’intuitiva ma efficace molla critica che prevede un ragionamento in termini generazionali (si va dal 1978 di Tarabbia e Santoni al 1984 di Durastanti, passando per il 1981 di Missiroli), che in questo caso coincide – grosso modo – anche con la posizione dei quattro autori prima dell’uscita dei loro ultimi libri: tutti erano attesi a una prova in qualche modo definitiva. Santoni e Missiroli per loro stessa ammissione hanno affidato alla loro ultima fatica il compito di definirli come autori, di sancirne il posizionamento nel campo letterario o in quello editorial-commerciale (non è casuale il passaggio del secondo a Einaudi e la conferma del primo con Mondadori, ma per un romanzo non di genere). E anche Durastanti ha affidato a un editore di diverso rango la propria opera che, fin dal titolo (ben diverso rispetto ai precedenti A Chloe, per le ragioni sbagliate o Cleopatra va in prigione), dichiara la volontà di definire qualcosa in maniera assoluta, o quasi. Infine Tarabbia ha espressamente voluto chiudere il proprio ciclo che potremmo chiamare “del Male e della Russia” con un’opera che sublimasse in qualche modo – esportandole ad altre latitudini – istanze e soprattutto tensioni animate con i due precedenti romanzi, Il demone a Beslan e Il giardino delle mosche.

Gli esiti non sono stati per tutti soddisfacenti; senz’altro però ognuna di queste prove dice qualcosa su cosa significhi oggi costruire un proprio profilo autoriale nel passaggio da giovane ad adulto (se così possiamo chiamare il cambio di paradigma che attende questi autori, anche in termini di premi e di trattamento editoriale).

Ma andiamo con ordine (di uscita).

 

Con La straniera (La Nave di Teseo) Claudia Durastanti decide di prendere la strada del romanzo autobiografico; un romanzo che, per la giovane età dell’autrice, non può che assumere la forma di un racconto di formazione. E come avviene la formazione a cavallo tra vecchio e nuovo secolo? In maniera disordinata, incoerente, eccentrica: al punto che, per ricostruirla a posteriori, ha più senso procedere per nodi piuttosto che per tappe cronologiche. Di qui – come ha osservato Damiano Sinfonico – una struttura «organizzata secondo le voci di un oroscopo: Famiglia, Viaggi, Salute, Lavoro & Denaro, Amore, Di che segno sei». Ma, naturalmente, una simile struttura non può che prendere le mosse dalle origini, da quei genitori che hanno di fatto definito condizione, parabola e carattere di chi narra: una madre e un padre non udenti eppure refrattari a rinchiudersi nel recinto di autocommiserazione e risentimento tipico di chi è diversamente abile («sono un re e una regina taumaturghi che invece di guarire i malati o fare miracoli convincono qualsiasi creatura in loro presenza a disarticolarsi e a lasciarsi andare alla propria possibile follia»). Al contrario, l’élan vitale di queste due figure finisce per far impazzire la traiettoria della vita di Claudia e del fratello maggiore che, complice anche la diaspora famigliare, si trovano a vivere sballottati tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, tra una Brooklyn dove convivono ipermodernità e tradizione e una Basilicata che sembra invece ancorata a ritmi ancestrali. L’esito è la forgiatura di uno spirito indipendente, in certo senso randagio, ma capace con il tempo di valorizzare anche la natura spuria del proprio percorso, incarnando quello che possiamo riconoscere come uno dei nuovi “tipi intellettuali”: idiosincratico, empatico, enciclopedico, estremamente colto.

Alla formazione irregolare della protagonista del romanzo corrisponde la composizione di una pagina in cui i saperi si incontrano e collaborano, rendendo più opaca la dimensione narrativa del testo, senz’altro più sfuggente l’elemento romanzesco (come ha recentemente scritto Gianluigi Simonetti), ma al tempo stesso ampliando enormemente la varietà di “cifre” che compongono la trama identitaria di chi racconta. L’impressione è che qui Durastanti faccia leva sull’eclettismo e sulla discorsività pop maturati in anni di lavoro culturale, su siti e riviste, ma anche come traduttrice e studiosa “indipendente”. Sembra quasi che i modi di certo giornalismo narrativo d’origine anglosassone prendano il sopravvento per farsi palinsesto di un’intera narrazione autobiografica, che trova la propria stampella in un’inventività figurale che consente di tenere insieme referenti apparentemente distanti, rendendo visibile qualcosa della propria esperienza che altrimenti non sarebbe affiorato. È così, ad esempio, che la scoperta fatta dall’ecologista Suzanne Simard circa la capacità di cooperare di fronte a una minaccia esterna sviluppata dagli alberi di una foresta può aiutare a spiegare come i propri genitori, pur isolati nella solitudine delle rispettive adolescenze, siano riusciti a incontrarsi seguendo le linee di «una mappa biologica che si rivela mentre ci si innamora l’uno dell’altro».

Chi racconta spiega come crescere non significhi seguire una rotta tracciata da altri, bensì imparare a fidarsi delle proprie intuizioni, a fare tesoro di episodi improbabili ma rivelatori. È così che può anche togliersi lo sfizio di parlare, di tanto in tanto, con un’ambiziosa prima persona plurale; che pure, però, non ha mai nulla di sentenzioso, ma anzi conserva un carattere dubitoso e instabile, frutto dell’origine “sperimentale” della propria conoscenza.

Anni fa parlavamo di noi in terza persona su Facebook e ci pareva legittimo, narrativo, diventavamo personaggi senza che questo offendesse nessuno, poi siamo tornati all’io, al pubblicare in prima persona, ma l’idea di farci importanti in un’autobiografia pare sporca e torniamo a nutrire sospetto verso il genere, anche se contribuiamo a rafforzarlo e a renderlo collettivo ogni giorno.

Così facendo Durastanti riesce anche a smarcarsi dai luoghi comuni generazionali (le marche, i topoi massmediatici), dagli stereotipi nostalgici – e la nostalgia, quando affiora, è circoscritta, limitando qualsiasi slancio di compartecipazione emotiva. Pur non rinunciando a inserire la propria storia in un orizzonte collettivo – fatto di carenze, di difficoltà, di incertezze –, chi narra non manca mai di singolarizzare il proprio racconto, rendendolo unico e in qualche modo anche incomparabile. Si compone così, tassello dopo tassello, la narrazione matura di chi ha imparato a rifiutare le etichette che il pensiero comune elaborava sulla pelle della propria famiglia e della propria vita, ribaltando i pregiudizi e trasformandoli in spunti per un’epopea continuamente sospesa tra il picaresco e il malinconico.

Neanche l’epica del riscatto viene accolta per dare forma alla storia di chi ha saputo affermarsi dopo un’infanzia difficile e senz’altro inconsueta: «A cosa serviva la storia della mia famiglia se non potevo ricattare tutti con la sua tragicità?». Al contrario quella che affiora è un’epica dell’incompletezza, che si nutre delle naturali carenze del corpo dei genitori, come dell’instabilità consustanziale alla condizione – economica, lavorativa, sentimentale – di chi oggi ha tra i trenta e i quarant’anni. E tutto questo senza compiacimento e senza ammicchi. Anche perché, dal panorama di disagio, estraneità e macerie che fa da sfondo alla vicenda di Durastanti, alcuni points de répère affiorano: la famiglia, come trama di affetti non pronunciati, di eredità indesiderate, di legami indissolubili; l’amicizia, sentimento duraturo e moltiplicato, libero dalle sofferenze a cui condanna l’amore, sempre sincero e affidabile; e infine il desiderio, unica costante dell’esperienza, sentimento che entusiasma o deprime, ma che agisce costantemente per “smarginare” la forma consueta della vita, per spingerla avanti, garantendo che l’unico modo per accettare la propria vita è assicurarsi di averla vissuta.

 

Se Durastanti scommette su un romanzo senza forma per restituire il flusso del ricordo e il procedimento analogico con cui una vita viene trasformata in racconto, Marco Missiroli costruisce il suo Fedeltà (Einaudi) con precisione geometrica. Come ha ben sottolineato (ancora) Damiano Sinfonico, lo schema è semplice: quattro personaggi, due uomini e due donne, una coppia sposata, due piani temporali, quello del “prima” – quando le pulsioni trovano sfogo, a discapito delle convenzioni sociali e della morale comune – e quello del “dopo” – quando quegli sfoghi vengono ricomposti in una nuova simmetria, forse un po’ ammaccata, ma solida. La quadratura del cerchio è d’altra parte caratteristica tipica del romanzo borghese, campo sul quale Missiroli decide di cimentarsi dopo la storia “di formazione” di Atti osceni in luogo privato. Manifestazione emblematica, del demone della corrispondenza che anima questo romanzo è la scena iniziale: un lungo piano sequenza (40 pagine) che cuce in una sola carrellata tutti e quattro i personaggi principali, predisponendone fin da subito le dinamiche sentimentali, e preparando anche il campo agli sviluppi narrativi dei reciproci rapporti. Il procedimento verrà poi mantenuto lungo tutto il romanzo, con minime e sporadiche infrazioni: quel che dev’essere chiaro al lettore è che il gomitolo della storia si sta svolgendo in maniera lineare, senza lasciare zone d’ombra. E alla linearità della forma corrisponde la linearità dei temi. Nelle prime quaranta pagine ci sono già anche tutti gli elementi che condiranno la pietanza sentimentale del romanzo: il sesso desiderato, il sesso praticato, la passione per i libri che scandisce la quotidianità di ognuno.

È un mondo semplificato, addirittura binario quello dei romanzi di Missiroli – che conferma così il medesimo universo antropologico di Atti osceni. Da una parte il polo nobile della cultura libraria, dall’altro quello basso ma necessario del desiderio sessuale. I libri forniscono ai personaggi la grammatica per riconoscere e definire la loro condizione; lo slancio erotico ha invece la funzione di allargare gli universi possibili del desiderio, fino a renderli ineluttabili, se non addirittura necessari. L’uno è strettamente legato all’altro, quindi; ed entrambi servono a compiacere un lettore che ama riconoscere e valorizzare i propri slanci più alti (l’interpretazione della vita e del mondo a mezzo cultura) e che necessita di giustificazioni valide per legittimare un desiderio eccentrico rispetto alla morale borghese (il tradimento coniugale, il sesso con qualcuno di più giovane o estraneo).

È anche così che in Fedeltà forma e contenuto contribuiscono a delineare un universo piatto, facilissimo da decifrare, nei suoi avvenimenti come nei suoi sviluppi psicologici. Un narratore intrusivo dà accesso al codice interpretativo di ogni personaggio, rendendolo trasparente agli occhi di un lettore che, confortato da una sintassi elementare nella sua paratassi brachilogica e da una meccanica narrativa che assorbe ogni increspatura, vede scivolare davanti ai suoi occhi la parabola di quattro individui soli e in preda ai propri tormenti.

Con terminologia teorica si potrebbe definire Fedeltà un romanzo melodrammatico, tutto simboli, epifanie e catarsi. Le scene madri sono in bella evidenza – ancorché sempre mancate. Non c’è spessore in queste storie di ordinario individualismo, ma solo la sua simulazione; anche la descrizione dell’intimità finisce per assumere contorni stereotipati («certe volte […] dimenticava che era una madre e una moglie e voleva solo essere una puttana»), in universo narrativo in cui nulla è generalizzabile, tutto è singolare, ma senza essere unico. I personaggi si riducono alla somma delle loro emozioni («anche lei era stata quelle lacrime»), mentre intorno resta un vuoto in cui riecheggia il canto ipocrita della borghesia, stanca dei propri stessi riti, ma incapace di confessarselo. Non ci sono traumi in Fedeltà: ogni conflitto è riassorbito dalle logiche della convenienza. Dominano i buoni sentimenti che cauterizzano le ferite, validando il nuovo codice dell’individualismo civile, del buon senso, della morale doppia (la famiglia e il godimento), secondo cui tutto è perdonabile. Tranne i brutti romanzi.

 

Ben altra ispirazione ha guidato Andrea Tarabbia nella stesura del suo terzo romanzo, Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri). Sorprendendo il suo abituale lettore, Tarabbia si rivolge a modelli che conducono per sentieri apparentemente lontani dal territorio ibrido in cui cronaca e finzione si intrecciano in composti originali, capaci di illuminare al tempo stesso la Storia recente e i recessi dell’animo umano. In Madrigale Tarabbia guarda all’universo “di genere”. L’impalcatura del romanzo, infatti, si regge su una serie di espedienti tradizionali della narrativa moderna: un manoscritto ritrovato che dà avvio al racconto, un narratore inattendibile ma estremamente convincente, uno scenario gotico, in cui non mancano castelli, prigioni sotterranee, riti alchemici e segreti inconfessabili.

Madrigale senza suono narra la storia di Carlo Gesualdo principe di Venosa, figura oscura della musica moderna, tessitore di epoche – l’originalità del Rinascimento con la reinvenzione del Barocco –, sperimentatore di melodie inattuali, capaci però di incuriosire un genio contemporaneo come Igor Stravinskij. La figura artistica di Gesualdo, tuttavia, è oscurata dall’uxoricidio che commise nei confronti della bellissima moglie Maria d’Avalos, colpevole di tradimento. Un omicidio necessario per la legge dell’onore invalsa a quel tempo, una vendetta che ristabilisce la dignità del marito e mette a tacere i pettegolezzi; un assassinio che però tormenterà per sempre il suo artefice e che forse – qui sta l’ipotesi di Tarabbia – ha scavato un pozzo nero nella sua anima, da cui a un certo punto sono nate le cose più sopraffine e complesse della sua arte compositiva.

Si capisce allora come quello del romanzo storico e gotico sia in realtà uno stratagemma che consente a Tarabbia di tornare a indagare su quelli che riconosciamo come i “suoi” temi: la colpa, la necessità del male, a cui si aggiunge in questo caso – forse prolungando una linea che era solo accennata nel Giardino delle mosche una riflessione sul rapporto tra orrore e bellezza.

Oltre alle parole di Gioacchino, il servitore di Carlo che è autore del resoconto sulla sua vita, la figura del compositore ci viene riflessa anche da alcune pagine del diario dello stesso Stravinskij, che in una libreria antiquaria di Napoli è incappato in questo bizzarro manoscritto e si è deciso a tradurlo. Noi leggiamo quindi la storia di Carlo Gesualdo insieme a lui, che trascrive di tanto in tanto alcune impressioni di lettura, motivando la scelta che lo porterà a reinterpretare i madrigali dell’ombroso musicista per un’occasione storica. La figura di Stravinskij ha così il compito di attualizzare la figura di Gesualdo, di colmare la distanza che separa il lettore contemporaneo da una vicenda ormai assimilata e anche riadattata da secoli di vulgata. Come ha detto una volta Filippo Tuena, Igor Stravinskij siamo noi, è con lui che ci immedesimiamo ed è grazie a lui che la vicenda di Gesualdo arriva a toccarci; perché Stravinskij ci presta l’animo sensibile di chi si lascia insidiare dai sentimenti e dai tormenti altrui, soprattutto quando conducono alla creazione sublime:

Ecco, lui non lo sa ancora, ma adesso che l’ha uccisa sta per entrare nel momento più fulgido della sua vita di musicista. È un paradosso, ed è ancora più paradossale il fatto che io senta più di prima di dover fare qualcosa per lui.

Insieme a Stravinskij, allora, entriamo progressivamente nell’animo di Carlo, abitato da un demone che lo tormenta e lo condanna a una vita di paradossale eremitaggio, che nessun amore e nessuna amicizia riusciranno a consolare: «le minacce non vengono da lontano, da nemici esterni, ma da un demone che abbiamo o che possiede chi ci sta accanto, e che ci frolla l’anima per insediarvisi, e masticarla». È il dolore ciò che definisce l’esistenza di Carlo: quello provato nell’uccidere Maria e il suo amante, quello provocato dalla morte dei suoi figli. Ma il dolore è anche ciò che legittima la sua arte, la musica dissonante che esce dallo zembalo e che perturba tutti coloro che ne avvertono anche solo qualche nota. Tanto è il dolore provato in vita che la musica a cui Carlo affiderà la propria stessa vita dovrà essere unica, definitiva: «Voglio che in me si esaurisca tutta la musica possibile». Carlo ambisce a una musica oltre la quale non potrà esserci che imitazione: solo così potrà sublimare il senso di colpa, eternandolo in un’opera che celebri l’amore e il suo annullamento.

Ci interessa poco, a questo punto, se la missione di Carlo sarà effettivamente raggiunta, se la sua musica rappresenti effettivamente una novità assoluta oppure solo il gioco illusionistico di un manipolatore di note e di coscienze. Quel che conta è che il tormento ha trovato, nella tragica vicenda di Carlo Gesualdo, una soluzione, un esito che, pur non potendosi dire felice, lascia senz’altro intravedere una via di fuga. L’arte come cura del male e sua trasfigurazione su un piano ulteriore, della memoria, della gloria, della storia della civiltà. Se è vero che questo romanzo conclude, in maniera un po’ sbilenca, il percorso aperto dai due romanzi russi, allora possiamo dire che il cerchio è effettivamente chiuso, perché l’ultimo tassello arriva effettivamente a dare una risposta agli interrogativi avanzati lungo tutto il trittico. E però, si può dire, proprio perché questo libro sembra fornirci una risposta definitiva, per questo appare meno convincente.

Colpa forse di quegli espedienti di genere che finiscono per irrigidire la trama, chiudendola in una gabbia fatta di formule tipiche che difficilmente riescono a parlarci, se non con il sorriso sardonico del gioco postmoderno. Colpa forse di quello stesso Stravinskij, che avremmo voluto parlasse di più e che non rendesse solo omaggio alla figura di Gesualdo, ma si facesse carico dei suoi dubbi, lasciandosene tormentare e non trattandoli come piacevole passatempo da portare avanti nelle pause di lavoro. In definitiva, Madrigale senza suono, pur tra toni cupi e scenari macabri, celebra il potere salvifico dell’arte, facendo propria una verità senza tempo e per questo sempre attuale. Una verità che, tuttavia, s’impone sempre quando si preferisce ritrarre Medusa, piuttosto che lasciarsene impietrire.

 

Rinuncia invece a qualsiasi chiusura, se non per via di boutade, Vanni Santoni nel suo I fratelli Michelangelo (Mondadori), che è forse la sorpresa più lieta di questa stagione. L’autore ritorna sulle piste di una narrazione lunga e articolata, dopo gli esperimenti ibridi di Muro di casse e La stanza profonda, e anzi si potrebbe dire che con I fratelli Michelangelo tenta la strada del “grande romanzo”, se non fosse che questa formula risulta ormai abusata, non ultimo da Santoni stesso. D’altra parte, tra le difficoltà maggiori che deve affrontare chi intende parlare dei suoi libri c’è senz’altro la necessità di schivare l’intrusiva autoesegesi con cui l’autore accompagna ogni suo lavoro. E dire che ci troviamo di fronte a una delle menti più fervide e prolifiche della sua generazione! Meglio allora ignorare la grancassa autopromozionale e dedicarsi alle pagine del libro.

Qui Santoni prova a giocare su due tavoli distinti. Da un lato c’è una cornice narrativa in cui quattro fratelli – non tutti consapevoli delle reciproche esistenze – sono chiamati a raccolta dall’anziano padre, Antonio Michelangelo: nessuno sa cosa voglia comunicare, forse trasmettere un’eredità, forse impartire le sue ultime volontà. Ciò che tutti sanno, però, è che da quella figura magnetica c’è da aspettarsi sempre qualcosa per cui vale la pena modificare ogni piano e trascorrere tre giorni nell’Appennino Toscano. Dall’altra parte ci sono le quattro storie individuali: ciascuna è un filo che l’autore svolge dall’inizio alla fine, portandolo però a intrecciarsi progressivamente con gli altri, andando a formare un gomitolo narrativo che trova spazio in quel luogo ideale che è la mente del lettore. Ogni storia ha le proprie specificità: c’è Enrico Romanelli, il figlio illegittimo, che medica la precarietà lavorativa tipica del neo-umanista convinto con uno slancio erotico continuo e vincente; c’è Louis, il figlio misconosciuto e abbandonato, che tra Indonesia e India tenta una disperata fortuna commerciale ai margini della legalità; c’è Cristiana, l’artista mancata (o forse riuscita) alle prese con il grande salto dall’underground berlinese alle grandi gallerie di Londra; e c’è Rudra, che seguendo i propri imperscrutabili istinti molla un promettente futuro da karateka e fa rotta verso la Svezia, lontano da tutti e da tutto. Il modulo di base, per ogni capitolo, è quello del Bildungsroman.

Come nella Straniera, anche qua la maturazione dell’autore in quanto tale passa per la formazione dei propri personaggi, come se costruendo le tappe della loro bildung ripercorresse la costruzione della sua stessa autorialità. E dove Durastanti sceglie se stessa come controfigura, Santoni lavora da romanziere puro e si proietta nelle tante vite dei suoi personaggi. Così il modulo del romanzo di formazione si ibrida di volta in volta con quello del romanzo d’artista (forse il più riuscito), con quello picaresco o con quello della precarietà (esistenziale, sentimentale, lavorativa). I fratelli Michelangelo si presenta quindi come un romanzo di romanzi, e la scelta ha le proprie fondamenta nella necessità di aggirare uno degli ostacoli più grossi del romanzesco tradizionale, ovvero la terza persona narrante. Dedicando a ogni personaggio il proprio racconto e affidando la narrazione alla prima o addirittura alla seconda persona singolare, Santoni riesce a individualizzare i punti di vista, portando ancora una volta la sperimentazione sul piano della costruzione della voce. D’altra parte, fin da Muro di casse e La stanza profonda, si era reso evidente come condizione imprescindibile per un racconto attendibile della realtà sia la restituzione fedele dell’elemento parlato: il mondo esiste solo nel momento in cui viene detto, pensato o ascoltato.

Si spiega così quella che appare come un’idiosincrasia autoriale che diventa anche una scelta di poetica: l’ossessione di dire e nominare tutto, senza ricorrere a perifrasi o allusioni, bensì assegnando a ogni oggetto del reale – anche il più astratto o complesso – il suo termine specifico. Se ne fa metafora il progetto artistico di Cristiana che, sotto il titolo Feelings you couldn’t name, raccoglie quei termini, appartenenti a lingue diverse, che definiscono sentimenti complessi e intraducibili in altri idiomi. Viene così assecondata, per via linguistica, un’ansia di mappatura, che trova riscontro anche nella sorprendente puntualità con cui ogni contesto, ogni idioletto e ogni tema viene restituito narrativamente. Lo stile di Santoni, fluido, rapido, vorticoso, riesce a rendere perfettamente la frenesia con cui la realtà si manifesta di fronte agli occhi dei personaggi e con cui questi dovranno rielaborarla; tenta di tradurre l’agilità di un pensiero costantemente sovreccitato, chiamato a rispondere a stimoli continui, intermittenti e sempre, apparentemente, necessari. Gli strumenti di questa scommessa sono allora monologhi interiori, indiretti liberi, flussi di coscienza, ma anche insistenze soprasintagmatiche, dettagli prossemici, elaborate soluzioni interpuntive.

Compa’, è già tardi, e se il dottore se n’è andato? Se gli monta la febbre? La febbre… Non una malattia specifica: siamo alle febbri, come nel Medioevo. Ramesh spinge, passiamo a Vashisht, passiamo Manali, passiamo Jagatsukh, la strada che migliora e lui che subito spinge a centodieci, a centoventi, fa fischiare le ruote di quel trabiccolo, sfiora le fiancate dei pochi camion che incrociamo in quel buio, i camion che rispondono con le loro trombe, e alla fine a Kullu ci arriviamo davvero, e a vedere, accanto ad assurde stock image di medici occidentali sorridenti, la scritta 24H sul pannellone del Kullu Valley Hospital devo dire che pure io il fiato lo tiro. Carletto se la cava con sette punti alla gamba, due alla bazza e una bella iniezione di antirabbica. Era solo un morsino, mica si capiva, con tutto quel sangue, provo a dire, ma mi manda subito a fanculo, e fa pure bene.

L’esito è un romanzo complesso, in cui il lavoro sullo stile non va disgiunto da quello sulla trama, che trova il suo principale motore nell’abilità dell’autore di immaginare esistenze complesse, in cui richiami a una cultura condivisa e a un repertorio di esperienze comuni (l’elemento generazionale – seppur dilatato su età diverse – rimane il principale catalizzatore di senso) vengono rivitalizzati dalla costruzione di traiettorie eccentriche, che rendono i personaggi insieme unici e credibili.

Tuttavia la conquista maggiore che Santoni realizza nei Fratelli Michelangelo è probabilmente la maturazione di una propria, riconoscibile voce, portando a compimento un percorso che ha radici nei suoi libri precedenti. Si tratta di una lingua fatta di giovanilismi, di gerghi, di dialetti, ma anche di forestierismi, di formule culte e ricercate (di un forbito però mai aulico – Gadda qui non c’entra nulla, solo i ricordi scolastici). Una lingua impura e anche meticcia, che dichiarando le proprie radici nel pastiche, rivela la capacità di pescare da un repertorio linguistico amplissimo e anche di saper vivificare espressioni desuete e usi scritti. Coniare una propria personale lingua è la scommessa più audace per uno scrittore, e infatti non mancano le sbavature, tirate che denotano una certa ansia performativa, che tradiscono il bisogno di riconoscimento di un autore che si presenta come underdog ma che ambisce, ormai legittimamente, a esser riconosciuto tra gli esponenti di una certa letteratura “istituzionale” (nel progetto artistico di Cristiana esiste una parola per questo: «Ijirashii»). E dovrebbe far riflettere l’assenza di questo romanzo dalle shortlist dei principali premi nostrani.

 

Val la pena a questo punto tentare un ragionamento complessivo, che magari tenga conto anche delle considerazioni espresse recentemente da Paolo Giovannetti in un breve ma pungente intervento sull’atteggiamento più diffuso nella critica militante di questi anni. Un atteggiamento troppo attento alle scritture che denunciano in maniera esplicita il loro carattere sperimentale – e che talvolta si esaurisce proprio in questo enunciato – e troppo poco disposto a cimentarsi con scritture “dal basso”, o meglio che dal basso traggono i loro spunti (dalla scrittura di genere, in particolar modo) per inventare e soprattutto smuovere l’immaginario irrigidito attraverso cui interpretiamo la realtà. E bene forse nelle riflessioni condotte sopra si trova qualcosa di quel richiamo spinazzoliano a non ridurre la critica a un gioco d’élite. Non è banale segnalare che i due romanzi più riusciti di questo quartetto – ma anche di questa intera tornata di uscite narrative – sono proprio due romanzi che dichiarano la propria statutaria fragilità, che non indulgono in metariflessioni e soprattutto che non esibiscono patenti di letterarietà – o lo fanno con disponibilità parodica. Il romanzesco spinto di Santoni così come il carattere autoriflessivo di Durastanti dialogano tra loro attraverso una lingua in cui cultura pop e cultura alta si mescolano, producendo un idioma che tenta di parlare a un pubblico ampio, trasversale, fatto non solo di lettori forti. E lo fanno provando anche a reinventare i moduli narrativi su cui si erigono: o affidandosi a una struttura autobiografica mobile, fluida, continuamente esposta ai rovesci dell’emozione e della riflessione, oppure allargando le maglie del racconto a dismisura, facendoci rientrare ogni cosa, nobile o volgare che sia, pur di restituire un’immagine credibile di un intero universo narrativo.

Universo narrativo che in Missiroli non c’è proprio, se non limitato alle psicologie dei pochi personaggi coinvolti e agli scenari di carta che fanno da sfondo alle loro rapsodie. Partito da modelli alti ed estremamente attuali come Roth (in epigrafe) e Buzzati (sempre citato), Missiroli è finito inconsapevolmente tra le braccia di Moravia (per l’insistenza sui triangoli borghesi e sulle loro ricadute per l’orgoglio individualistico) e Pasolini (per l’estenuante tentativo di carpire il sentimento dei luoghi, ridotti infine a cartoline d’antan), modelli oggi ben più “datati”. Tarabbia, invece, che dei quattro ha posto in maniera più esplicita il proprio romanzo sotto il cappello della letteratura – tra ibridazioni di genere, ribaltamenti della prospettiva narrativa e dichiarazioni metaletterarie – nel momento in cui apre il proprio cantiere a un racconto che riflette su se stesso (le chiose di Stravinskij sul manoscritto gesualdiano), resta a metà del guado, non riuscendo a dare forza critica alla cornice ragionativa e ingigantendo, al contrario, la porzione citazionistico-imitativa, che finisce per esaurire presto le proprie potenzialità. Un passaggio a vuoto, che certo non mette in discussione le doti di scrittore che gli abbiamo riconosciuto fin qui; un’opera interlocutoria, che non raggiungendo le vette dei due precedenti romanzi (per i quali forse non è improprio l’aggettivo “grandi”), denuncia la difficoltà di dare conclusione a un progetto romanzesco ambizioso, che se da un lato ha definito l’identità letteraria del proprio autore, dall’altro rischia di irrigidirla rendendogli difficile intraprendere una nuova direzione di scrittura. Un passaggio a vuoto anche quello di Missiroli (ma senza le premesse del collega) che manca il salto al romanzo “adulto”, il romanzo borghese per eccellenza, che probabilmente non riflette lo spirito del tempo in cui è immersa questa generazione: di qui la necessità di appoggiarsi a stereotipi e temi convenzionali, che annacquano progressivamente la voce dell’autore.

Al contrario vince la scommessa chi si presentava a questa prova con un’identità ibrida, ancora indefinita o addirittura inclassificabile. Vincono Santoni e Durastanti perché hanno scelto di non tradire quell’identità in nome di una forma narrativa figée e di per sé autorevole. Vincono perché hanno deciso di imprimere ai loro romanzi il marchio delle loro inquietudini, del loro bisogno di rispecchiarsi in ciò che scrivono, anche a costo di dar forma a qualcosa di incompleto, di informe o di dichiaratamente parziale.


In copertina: David Hockney, A Bigger Splash, 1967