Ci sono tre modi per leggere l’ultimo libro di Andrea Tarabbia, Il peso del legno, un saggio narrativo dedicato alla crocifissione di Cristo, ai suoi valori simbolici, morali e narrativi.

Il primo è il modo della riflessione teologica, che permetterebbe al lettore di comprendere e valutare, alla luce di un’approfondita conoscenza delle Scritture e della tradizione esegetica, i numerosi richiami “teorici”, le tante fonti mobilitate (da Jürgen Moltmann ad Hans Küng, da Simone Weil al Giovanni Testori più ortodosso), attraverso le quali Tarabbia, oltre a dimostrare un’acuta capacità di “applicazione”, prende una propria personale e motivata posizione nell’interpretazione del fatto biblico. Una simile lettura, tuttavia, richiederebbe capacità che non possiedo; in secondo luogo, poi, non credo che questa prospettiva assecondi del tutto la logica con cui è nata la collana in cui Il peso del legno s’inserisce, ovvero la serie CroceVia con la quale il curatore, Alessandro Zaccuri, ha invitato alcuni scrittori a confrontarsi con termini e concetti provenienti dalla tradizione cristiana a tal punto radicati nella cultura occidentale da essere diventati talvolta – e per alcuni – figure senza referente (la prima uscita è stata Di ferro e di acciaio di Laura Pariani). Un progetto editoriale, quindi, che, lontano da qualsiasi pretesa di una trattazione interna alla dottrina, invita alla riflessione sui significati sottintesi del pensiero quotidiano e chiama a confrontarsi con la cultura cristiana chi in quella cultura ci è nato e cresciuto, ma ne ha lasciato cadere, a un certo punto, le ingiunzioni e i sovrasensi.

Sono cresciuto pensando che esistesse una comunità cristiana che cominciava appena fuori dalla porta di casa, sul pianerottolo, e che annoverava preti, suore, amici di famiglia, vicini, qualche parente, e sentendo, in modo ancorché confuso, che tra i miei doveri sociali, di buona convivenza civile, ci fosse quello di conformarsi ai dettami e alle maniere di questa comunità.

Un simile intento invita allora a mettere in atto un secondo tipo di lettura orientato piuttosto all’apprezzamento dei modi in cui l’autore ha fatto propria la storia della Croce. Tarabbia si muove avanti e indietro lungo i diversi momenti che compongono l’episodio biblico – dal tradimento di Giuda alla condanna da parte di Ponzio Pilato, fino al cammino che conduce Cristo al Golgota e alla morte, a cui segue, tre giorni dopo, la resurrezione –, ma si concentra soprattutto su un’immagine, quella di un uomo, Simone di Cirene, chiamato da alcuni soldati romani ad aiutare Cristo a “portare la croce” fino in cima al monte in cui verrà crocifisso ed esposto alla visione di tutti, secondo quella che al tempo era considerata la più umiliante delle condanne a morte. Simone di Cirene è un uomo comune, con le sue piccole croci quotidiane, al quale, a un certo punto, capita per caso di trovarsi a portare la croce più pesante e dolorosa di tutte, quella su cui si regge il peso del dolore e della salvezza di un intero popolo. Simone è la figura che permette a Tarabbia di calarsi nella lezione biblica, di confrontarcisi personalmente, misurando il significato che questa può avere per lui. Da qui parte, infatti, per ragionare a sua volta delle proprie piccole croci: un primo infarto del padre, che mette a nudo la fragilità di un uomo che fino a quel momento si era percepito forte, e di questa percezione aveva confortato l’intera famiglia; la malattia del nonno, trascinatasi per anni tormentati da un persistente sentimento di sospensione, di dubbio circa il senso che quell’esistenza improvvisamente privata di tutto – o quasi – potesse conservare.

Da questa lettura ogni lettore può arrivare a riflettere sulla propria personale vicenda, a ripercorrerla alla ricerca di quei nodi che ne hanno determinato una svolta, aprendo lo spazio di una nuova consapevolezza, magari inizialmente solo istintiva e poi, a mano mano, sempre più cosciente e dolorosa. Una simile lettura è quella che ci porterà progressivamente a riconoscerci simili all’uomo che scrive, e sempre più lontani da quelle figure – Simone, ma anche Giuda e Pilato – che la parabola evangelica ha deciso di sacrificare in nome di un destino superiore, negando loro quella pietà e quella speranza di redenzione che sono sottintese e rese universali, invece, nel sacrificio di Cristo. La lettura di Tarabbia, infatti, è quella di chi si accorge di non essere all’altezza delle attese implicite nel messaggio biblico.

Se portare la nostra croce significa anche portare quella degli altri, come se tutti vivessimo in un’enorme bolla di compassione e corresponsabilità, temo che per molti, me compreso, la sequela sia un peso troppo grande, perché la conseguenza finale è l’accollamento della responsabilità di tutto il male, di tutto il dolore e di tutta la sofferenza del mondo.

Tuttavia, più ancora che per l’inadeguatezza rispetto alla forza e alla generosità che la lezione del Vangelo richiede a ogni fedele, Tarabbia soffre di non riuscire a venire a patti con l’impossibilità di comprendere il mistero che sta dietro a questa richiesta. C’è qualcosa che fa resistenza allo sforzo di capire, ed è proprio ciò che pone alla base dell’edificio cristiano il pilastro della fede, la necessità di accogliere e accettare un mistero irriducibile a qualsiasi logica. Sono diversi e disseminati lungo tutto il racconto evangelico i passaggi che mettono a disagio l’attitudine cartesiana dell’autore: «che Cristo cerchi suo padre e non lo trovi, e che questo accada proprio nell’istante del compimento della sua parabola terrena, va al di là della mia comprensione». Apparentemente ingenua, la postura dialettica di Tarabbia si rivela in verità molto più accorta e strategica: a sostenere la posizione dell’autore non è infatti una generica ragione, che si contrappone all’oscurità dell’atto di fede a cui ogni credente è chiamato nell’attendere il giorno del giudizio, la resurrezione degli uomini, il compimento del disegno divino. La sua è una specifica ragione, quella degli scrittori, la ragione del testo, che affronta la storia secondo precise regole, che non sempre possono accordarsi con i sovrasensi simbolici e allegorici necessari al racconto biblico.

Tarabbia può così spostare la propria lettura dell’episodio su un piano a lui più congeniale, quello dell’analisi narratologica, dello studio dell’architettura testuale del racconto evangelico e anche della sua connotazione stilistica nelle quattro versioni che gli evangelisti ne hanno dato. Un piano che permette di accedere a un altro piano di comprensione. È qui che si assesta il terzo livello di lettura del Peso del legno, il livello in cui Borges, Dostoevskij e Camus si dimostrano strumenti esegetici ben più affilati e utili per carotare il testo evangelico, portandone alla luce la strategia narrativa. È solo in questa dimensione che è possibile assimilare – o contrapporre – all’atto di fede richiesto dalla dottrina la volontaria suspension of disbelief che ogni autore richiede al proprio lettore.

Ma, per il resto, i sinottici, chiedono un grande sforzo al lettore: quello di accettare che il protagonista della loro storia sia un essere mutevole, divino o umano a seconda delle necessità del racconto, e con il quale non è possibile nessuna identificazione, poiché gli evangelisti, mentre scrivono, non ragionano narrativamente, ma solo a livello simbolico.

E però Marco, Giovanni, Luca e Matteo si sono fatti narratori della parabola terrena di Cristo e (anche) in quanto narratori devono essere giudicati. Per questo lo scandaglio di Tarabbia procede lungo l’episodio evangelico soffermandosi di volta in volta sui termini precisi, sulle strategie stilistiche, sulle virate narrative attraverso cui i quattro evangelisti hanno riportato i singoli passaggi del racconto. Lo scandalo della fede, quel gesto incommensurabile a cui l’uomo è chiamato di fronte al sacrificio di Cristo appare tale – e in quanto tale anche incomprensibile – proprio in virtù delle parole con cui gli evangelisti l’hanno fatto verbo, in una paradossale chiusura del circuito della creazione. Dalle incongruenze narratologiche – la fallacia della promessa di compimento del regno di Dio, che da duemila anni è attesa e non arriva mai, privando il racconto della propria fine e così del proprio significato – nasce nell’autore il bisogno di cimentarsi a propria volta nella scrittura. Come aveva già fatto con i propri personaggi, controfigure di individui storicamente esistiti (dai terroristi di Beslan ad Andrej Čikatilo, il mostro di Rostov), Tarabbia si appropria dell’episodio evangelico, lo rielabora a tratti, sottoponendolo a quella ragione narrativa che risponde a regole diverse rispetto alla dottrina cristiana, ma che non per questo si trova preclusa la strada della trascendenza.

Quella letteraria è però una strada che all’altezza del mistero e all’ascesa mistica preferisce la profondità della scoperta, il baratro di un dubbio a cui però è sempre possibile ipotizzare una risposta. Nasce così la storia di Gesta, il peccatore che l’autore inventa per colmare quei vuoti che il testo non ha saputo riempire: motivare l’ingiusta sorte di Giuda, giustificare il lavacro delle mani di Pilato, dare una spiegazione “umana” alla vicenda di Cristo.

Negli occhi del Messia, l’inquietudine si trasformò in una luce, ma nera: «Da molti giorni ci segui da lontano, Gesta, e so che, a tuo modo, hai vegliato sul mio cammino» disse, ma con il tono di chi è attraversato da altri pensieri.
«Toccami, Maestro, guariscimi» disse Gesta.
«Ogni cosa a suo tempo» rispose il Maestro». «Questa non è ancora l’ora tua».

Troppo facile sarebbe stato squarciare il cielo di carta del racconto della fede per inchiodarlo alla responsabilità di una razionalità tradita. Andrea Tarabbia evita lo scandalo e affida alla ragione un compito ben più arduo: quello di riempire i bianchi del testo evangelico per collocarci nel suo centro, farci protagonisti di una parabola che, anche al di fuori degli steccati religiosi, ci invita comunque a fare i conti con il peso del legno.


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Andrea Tarabbia, Il peso del legno, NN Editore, Milano 2018, 208 pp. 14€