I futuri storiografi della poesia italiana non potrebbero partire che da qui: da una ricognizione tematica, stilistica e di poetica dei quattordici Quaderni Italiani di Poesia pubblicati finora (per 98 autori). Questo perché i Quaderni rimangono quanto più di vicino abbiamo – per il prestigio dell’iniziativa, la sua centralità culturale e la durata nel tempo – alla formazione quantomeno potenziale di un canone. Canone internamente composito (come si specificherà a breve) ma saenz’altro con un suo perno nella neolirica contemporanea in cui, come ha scritto Policastro a proposito del XIII Quaderno, «l’io è sempre molto centrato e il suo autoriflettersi nei versi determina una declinazione degli eventi in termini di accadimenti soprattutto interiori, quasi nel vuoto di fatti (le guerre, i migranti, un orizzonte anche solo vagamente politico)».

A partire da questo centro, per una radiografia meno parziale, occorrerà poi spingersi verso centri meno in vista, in formazione o addirittura periferie di irregolari, per dare conto di stili e modalità magari sotto-rappresentati (per esempio il comico e il satirico, almeno a giudicare dagli ultimi Quaderni). Penso almeno al setaccio trentennale del Premio Montano (Anterem), a cataloghi editoriali caratterizzati in senso sperimentale come quelli di Prufrock Spa (Luca Rizzatello) o di Diaforia (Daniele Poletti), o all’opposto alla collana di Elliot edizioni diretta da Giorgio Manacorda per una linea più polemicamente neoclassica, o ancora quella a vocazione “pop” e democratica di Interno Poesia (Andrea Cati). Ma questa impresa titanica non può riguardarmi al momento, e la offro invece a chi vorrà e potrà farsene carico.

Quello che tento invece di fare nello spazio ragionevolmente breve di questa introduzione è mettere la lente sulle costanti e continuità, nonché sulle inevitabili divergenze, dei sette autori antologizzati: in ordine alfabetico e di apparizione sul Quaderno, Pietro Cardelli, Andrea Donaera, Carmen Gallo, Raimondo Iemma, Maddalena Lotter, Paolo Steffan e Giovanna Cristina Vivinetto. Chiaramente, nell’ottica di un dialogo costruttivo, non rinuncerò a esprimere giudizi di valore motivati, demandando ai critici che si occuperanno dei singoli autori nelle prossime settimane (nonché agli autori interpellati) di correggere il tiro o addirittura di rovesciarlo.

Anzitutto, l’impressione iniziale è certamente quella di una discontinuità formale e tonale nel passaggio da un autore al successivo, per cui consiglierei di non leggere due autori di seguito nello stesso giorno, pena la difficoltà di lasciarli sedimentare come meriterebbero. Impressione che con me e molti altri avrà condiviso Tommaso Di Dio, quando nella sua introduzione ai due Quaderni precedenti su questo sito ha parlato di “eclettismo” e “orizzontalità”, pur constatando al tempo stesso che «il realismo lombardo è diventato uno stile nazionale» (va aggiunto che questo orientamento non può essere estraneo all’influenza del direttore Franco Buffoni, il cui debito con l’area lombarda è apertamente dichiarato, per esempio in questa intervista). Nella stessa intervista, Buffoni offre anche un’agile mappatura per aree della poesia sin dall’inizio dell’avventura dei Quaderni. La ripercorro al fine di riscontrare poi quali di queste aree sono rimaste attive se non dominanti nel XIV Quaderno (tra parentesi alcuni dei rappresentanti).

  1. Gruppo “Neo-orfico” e/o “Neo-ermetico” (De Angelis, Conte)
  2. Gruppo della “Post-neoavanguardia” (Voce, Cepollaro, Frasca; anche se Buffoni si mostra oggi scettico sull’etichetta, che ho ripreso per comodità euristica)
  3. Eredi di Linea lombarda e Meridionalismo (Raboni, Cucchi, Buffoni stesso da un lato; Bodini, Cattafi, Calogero dall’altro)
  4. Poeti dialettali (da Baldini a Santi e Zuccato)
  5. Poesia civile (da Pasolini a D’Elia, fino a Nota e a molte cose di Buffoni stesso – ma, aggiungerei Pusterla, che Buffoni giustamente include come erede della Linea Lombarda)
  6. Manierismi: metrica chiusa (Valduga, ma anche Frasca, già menzionato nella seconda categoria; oggi almeno Petrosino, Zhara e Martini); e in modi diversi, i poeti che si sono variamente ispirati a Lamarque e Magrelli

Si è già detto di alcune intersezioni di queste aree, con Frasca appartenente a 2 e 6 (così lo inquadra, per esempio, Andrea Afribo nell’antologia Poesia contemporanea dal 1980 a oggi) e Pusterla come poeta tanto civile quanto continuatore della linea lombarda. Queste intersezioni sono inevitabili, non soltanto perché la pratica poetica è sempre più agile e flessibile delle categorie critiche post-hoc, ma anche perché le categorie stesse si fondano su elementi trasversali che possono convivere e intersecarsi: lingua e stile da un lato (4 e 6), e poetica dall’altro, cioè postura autoriale di fronte al mondo e al soggetto (1, 2, 3, 5). A queste categorie trovo utile aggiungere quella del “mare di soggettività” o “espressivismo” in cui Maria Borio nel suo Poetiche e individui (2018) include autori come Bellezza, Zeichen, Cavalli.

Dopo questa panoramica, eccoci ai sette autori antologizzati. La linea deangelisiana appare ridimensionata, quantomeno nei suoi tratti più caratterizzanti (analogie, scorci metropolitani, salti logici) quali potevano magari emergere, nel Quadernoprecedente, in Crocco e Pini (qui una mia recensione al suo precedente Anatomia della fame, 2012). Ne troviamo appena frammenti in Cardelli, negli occasionali lacerti in discorso diretto senza locutore esplicito, come la chiusa della poesia senza titolo a pp. 30-31, «non perdere tempo a cercare una scusa», magari da associare a «non aggrapparti, accetta | accetta di perdere qualcosa» di De Angelis (Viene la prima) in virtù tanto della posizione finale quanto dell’imperativo esortativo; oppure stemperata in una lirica esistenziale-filosofica assai meno agonistica, di lirismo neoclassico (da Dickinson ad Anedda) nelle poesie dove Maddalena Lotter continua la direzione intrapresa in Verticale (qui una mia nota di lettura/dialogo in proposito). E poco altro, forse. Si potrebbe ipotizzare che il diffuso epigonismo deangelisiano degli ultimi anni abbia allertato il comitato di lettura, dirigendolo verso scelte meno omologanti.

Non gode di maggiore fortuna l’area sperimentale o post-neoavanguardista in senso stretto: non troviamo virtuosismi metrici, pastiche linguistici, dissonanza esibita: tutti i poeti del Quaderno lavorano piuttosto per aggiustamenti o “scarti minimi” (per riprendere la lezione di Dal Bianco) rispetto alla tradizione, incorporandone certi aspetti quando funzionali al discorso che si intende fare. In altre parole, l’adesione a uno stile o un modello non diventa marca identitaria permanente, ma scelta strategica e puntuale. Alcuni esempi: Pietro Cardelli, il primo antologizzato, può talora richiamare Jacopo Ramonda e Simone Burratti (via fino al modo di Broggi e degli altri autori di Prosa in Prosa) per la denotatività da referto, la passività e indeterminazione di un soggetto poetico quasi anestetizzato al dolore, la mancanza di prospettive e di mitografia del singolo («Questa normalità disarmante ti piace: non opponi resistenza», si legge nella sequenza di micro-prose di La consolazione, p. 25); ma altrove, passando dalla prosa al verso (e la soluzione del prosimetro caratterizza anche Donaera e, in modo più sfumato, Gallo e Lotter), troviamo in un giro di versi l’epifania di una poetica della resistenza: «finalmente | eravamo in due, eravamo gentili» che non può non trovare consonante il prefatore Fabio Pusterla, il quale individua fra gli altri il magistero di Fortini e legge il libro presentato (La giusta posizione) secondo una dialettica di accettazione e ribellione. Non mancano situazioni zanzottiane e sereniane (per esempio la situazione di Le curve dell’appennino, pp. 58-60, col poeta che guida e osserva il paesaggio, rimanda a Ancora sulla strada di Zenna, ma anche al biografismo aneddotico dell’ultimo Dal Bianco, che recensii qui). Linea lombarda e poesia civile, ma con tutto il carico di disillusione e lo smarrimento dell’ultimo decennio, dunque, e al tempo stesso aspirazione poematica e raziocinante nella costruzione del discorso (“autocontrollo” è parola-chiave in Cardelli). Compresenza di tensioni e modelli forse non sempre del tutto risolti nei vari cambi di registro e prospettiva, ma senz’altro indicativi di una pluralità potenzialmente feconda per le prove future dell’autore.

Non meno eterogeneità interna si riscontra in Andrea Donaera, per il quale la categoria di “espressivismo” ricordata prima non appare fuoriluogo. Nelle notevoli prose di Una terrazza. Un orrore si dipana un monologo interiore (indice quantomai di soggettività!) che si configura come un romanzo familiare scorciato, concentrato nei giorni di vacanza (il sintagma “Dal Ventiquattro all’Uno” ricorre di frequente):

Dal Ventiquattro all’Uno era un da fare sempre, le nostre madri più stanche, i nostri padri ricaricati di tredicesime fumavano, chi non fumava beveva, noi eravamo in qualche modo uniti, dal Ventiquattro all’Uno tutto un da farsi […] (p. 76)

Le ripetizioni di sintagmi a distanza conferiscono un andamento incantatorio e ossessivo al ritmo, probabilmente memore della grande lezione di Amelia Rosselli; e forse giova ricordare che Donaera è musicista (chitarrista elettrico) oltre che poeta. La comunità familiare (comunità che appare più diffratta, da costruire, negli altri poeti antologizzati) si restringe a due nel poemetto Il padre. Un’ustione, forse la prova più alta di Donaera perché il confessionalismo struggente (che ritroviamo anche in Vivinetto) convive con un ritmo energico, di urgenza trascinante: «ho una matita, ho un temperino, e buco | un foglio appeso al petto, | e quanto mi pento, quanto mi pento» (p. 92). A confronto di questi bellissimi testi, le poesie amorose della sezione finale (La falena. Un biancore) mi paiono prescindibili ancorché piacevoli, più debitrici della tradizione, con il nesso donna-paesaggio e il “tu” invocato che rimane tale e che vorrebbe farsi garante della rifondazione del soggetto secondo una religione dell’amare un po’ ingenua e semplificata: «per questo mio vivere non più vano, da quel giorno» (p. 111).

Nel caso di Carmen Gallo appare più chiara la direzione del percorso intrapresa, giusta la selezione dalle due raccolte precedenti Paura degli occhi (L’Arcolaio 2014) e Appartamenti o stanze (Edizioni D’If, 2016), nonché del poemetto finora inedito La corsa, che secondo il prefatore Massimo Gezzi raccoglie la pesante e ambiziosa eredità del poemetto neomodernista (p. 123). I due libri editi appaiono in qualche modo complementari: al dettato uniperiodale, melodico nei molti settenari e novenari, lirico benché “raffreddato” dalle forme grammaticali impersonali («mettersi a contare gli anni | con gli occhi nascosti | nella curva di un braccio») del primo libro fa da contraltare, nel secondo, un ritmo meno effusivo, l’interpunzione a fare da ancella della sintassi («La donna con i capelli neri | ha sceso le scale con le braccia vuote. | La donna bianca l’ha salutata | con gli occhi nelle mani.»). Gallo tematizza, sulla scorta di Beckett, il rapporto fra linguaggio e verità, ed è la sola a farlo in modo così esplicito fra gli autori scelti: «come sapere che tutte le bocche | professeranno il falso», p. 129 (da confrontare con Giuliano Mesa, che ugualmente prese le mosse da Beckett: «di più falso non c’è nulla | che il voler dire il vero»; ma anche, all’opposto e per la comune ricorrenza lessicale, con il Fortini de La gioia avvenire: «E dalle bocche sparite dei santi | Come le siepi del marzo brillano le verità»). Appartamenti o stanze può essere letto come un romanzo giallo in versi estremamente ellittico, con personaggi caratterizzati da epiteti generici (“la donna bianca”, “l’uomo”, un sinistro “noi” non identificato) e quindi a potenziale simbolico-allegorico. Questo libro ha ricevuto molta attenzione critica, pertanto rimando alla puntuale recensione-saggiodi Pietro Cardelli (che con Gallo condivide una certa opacità referenziale nel tratteggiare le scene, una propensione per l’implicito e la reticenza), a quella di Tommaso Di Dio su questo sito, nonché alla puntuale nota del prefatore Massimo Gezzi, che rileva fra l’altro l’incidenza della modalità del sogno e dell’allucinazione (p. 120). Se torniamo alla mappatura proposta da Buffoni, Gallo risulta di non facile collocazione: la sua è sì poesia civile ma di taglio allegorico, non declamatorio, come risulta evidente in questi versi che denunciano implicitamente la condizione di subalternità femminile, o meglio la violenza patriarcale che tale condizione vuole immutata: «Quando tornano nella stanza | le donne tornano grandi e urlano più forte. | Noi le chiudiamo tutte a chiave | e non si sente più nessun rumore» (p. 147; fra parentesi, difficile non pensare a Jane Eyre rinchiusa nella torre del castello). Al tempo stesso, la misura neoclassica della lingua, lessicalmente mediana e distante da ogni tipo di eccesso barocco (tratto che Gallo condivide senz’altro con Maddalena Lotter e Raimondo Iemma) non sono poi forse lontanissime dal “nitore post-montaliano” di Magrelli, secondo l’efficace formula di Buffoni nella succitata intervista. In sostanza, Gallo è forse l’autrice più matura fra gli antologizzati, o perlomeno quella a cui mi riesce più difficile muovere critiche: ci si potrebbe lamentare della natura a tratti “poco ospitale/empatica” di questa scrittura o del suo fondo tragico, ma questi elementi sono usati e rivendicati con molta autoconsapevolezza.

Raimondo Iemma, di cui molti anni fa lessi Luglio (Lampi di stampa, 2007) appartiene a buon diritto a quella costellazione che ho definito del “realismo empatico” (Ronchi, Ariano, Minardi, Terzago…) in una mia recente relazione allo IULM di Milano, e che nelle prossime settimane verrà pubblicata sempre in questo sito. Per realismo empatico (una costola del realismo della Linea Lombarda) intendo vicinanza fra narratore e suoi personaggi, sospensione del giudizio, contemplazione a tratti voyeristica di ambienti e situazioni spesso cittadine. Non sono rare le terze persone su cui indugia lo sguardo, come in Il lascito del colonnello (p. 186) o Hilton Foyer (p. 185): «e poggiato al bancone come un viaggiatore | come condotto presso una scelta tra bevande | verso un pasto paradossalmente memorabile | disse una frase di rito, ordinò deciso». Confesso che insieme a (certo) Donaera e (certa) Lotter, Iemma è fra gli antologizzati quello che mi ha “dato di più” leggendo: questo non vuole essere un giudizio critico ma una rispondenza del me lettore di adesso. Grazia, crepuscolarismo, misura, “abitabilità” del dettato sono ingredienti chiave in tal senso, còlti benissimo dalla partecipe presentazione di Nadia Agustoni, che parla infatti di un “pudore di chi è alieno ai toni alti” (p. 177). Spesso in nitide terzine e quartine non rimate, Iemma accompagna i suoi indici di realtà con epiteti epici che li trascendono: ecco dunque “Camden lontana” e “Bermonsdey divina”, che mi riportano alla “Larissa accecante” di Sereni (La poesia è una passione?); una poesia in bilico fra realismo e simbolismo, e non a caso nella poesia a p. 195 c’è un riferimento al Il deserto dei Tartaridi Buzzati («un drappello di camici all’orizzonte | è forse una legione di Tartari»). Iemma è quasi al limite anagrafico dei quarant’anni (classe 1981), e già nelle passate edizioni era fra i semifinalisti; l’impressione, rispetto agli altri antologizzati, è di una minore modernità, quasi di un lieve fuoritempo, a tratti di un rischio di estenuato idillio; ma si sa che contemporaneo e attuale sono categorie diverse, e che in poesia conta la prima, non la seconda (su questo punto insiste anche la prefazione di Gian Mario Villalta a Caratteridi Francesco Terzago).

Del tutto anti-idillica, gravida di tinte fosche, in un pendolo che come in Cardelli oscilla fra rarissima vicinanza e soverchiante pessimismo è la poesia in dialetto trevisano di Paolo Steffan: «non riesco più / a vederla la mia gente senza più fame», p. 267 (da qui in poi cito dalla traduzione in italiano) può essere interpretato tanto come una perdita di empatia fra il poeta e la sua comunità di riferimento, moralmente perduta, caduta nell’avidità materialistica che oltraggia il paesaggio, tanto quanto una effettiva scomparsa fisica delle persone, uno spopolamento: altrove leggiamo infatti «Tante macchine. Poca gente» in un contesto di stasi irrimedibile dove i volti dei vecchi sono “piagnosi”, e non sembra bastare, a riscattarli, la modesta epifania dei “fiorellini gialli di corniolo”. Anzi, l’esuberanza della natura sembra del tutto fuori luogo, insensata perché disarmonica rispetto alla distruttività dell’uomo (p. 285). La sensibilità anti-ecologista in Steffan è certamente presente, e senz’altro influenzata dal magistero di Zanzotto, che Steffan ha studiato profondamente. E tuttavia, nella prefazione Umberto Fiori si premura di indicare la radice antropologica e non semplicemente l’effetto ambientale del male evocato in queste poesie, che pure (come in Cardelli) offrono qualche raro appiglio alla speranza, a un bene evocato discretamente, come scrive ancora Fiori nella bella prefazione. Il realismo anche estremo e brutale (“scarti di latta”, “urina di vacca”, “sterco d’uccelli” nella poesia a p. 273) ha, se non valore di denuncia in sé, certamente fondamento etico, nella volontà di non purificare, di non cedere all’idillio appunto. Il rischio opposto, talora, è forse che le connotazioni negative si affastellino quasi monoliticamente, in un discorso polarizzato che poco sopporta le sfumature, le gradazioni intermedie. Non conoscendo il dialetto, non posso ovviamente esprimermi sulla qualità estetica dei testi, che tuttavia anche nella traduzione italiana sono esemplari per pulizia e semplicità stilistica. Per esempio, il brevissimo testo a p. 282 coniuga bene imagismo e metaforicità: «Pastiglie disperse tra le zolle fradicie | si distolgono dallo sciogliersi. Sotto | un cielo che non germoglia più».

In Steffan la natura è presenza costante e offre spesso spunti per l’immaginario metaforico del poeta, come prova il passo appena citato o anche altrove la metafora genitiva “zolle di bene” (p. 303). Nella corregionale Maddalena Lotter la natura non è meno presente, campeggiando sin dal titolo (Questioni naturali), e tuttavia assume caratteri assai meno circostanziati, più apertamente metafisico-esistenziali oserei dire. Se in Steffan la nomenclatura botanica è precisa (pioppi, cornioli, salici, eccetera), in Lotter abbiamo invece sfuggenti figure del fondo, minacciose e ctonie, come “alghe” e “grandi cetacei”, malattie con “la coda” come mostri marini, o terribili e imponenti come “il vulcano [che] allaga il mondo”, “forze paurose” o una “realtà migliore | che resta sommersa”, “avvisi della terra” che “rimbalzano sottili da un albero all’altro” (p. 243); o al contrario elementi aerei, dalla spinta ascensionale, dai “piani alti del pensiero” a questa bellissima chiusa dal sapore aneddiano: «il resto che si spalanca sopra la casa | sopra le nostre vite è un caro vento perfetto» (p. 237). La poetica dei margini propugnata nel testo d’apertura («una buona vita è accarezzare i margini fino alla fine», p. 233) si concretizza, nel testo successivo, nelle varie soglie o limini come la finestra da aprire del testo a p. 234, con l’aria che “si infilava carica di forza” (torna alla mente, nella nostra tradizione, l’immagine del vento che entra nella stanza a ridestare l’io: «godi se il vento ch’entra nel pomario | vi rimena l’ondata della vita», Montale; «quasi folata di vento in una stanza chiusa», Sbarbaro; «che s’alzi un qualche vento | di novità a muovermi la penna», Sereni). Natura come forza, ma anche consolazione, accettazione stoica della finitezza e dell’impermanenza umane: «a metà serata io però mi dileguavo | qualche minuto appena | di fronte al mare, il suo eterno suono d’argento | mi rassicurava di fronte all’evento | spaesante delle persone che crescono | fino a svanire» (Stelle di San Lorenzo, p. 251). Lo stile rimane perlopiù quello classico e nitido di Verticale, anche se non mancano occasionali slogamenti sintattici (p. 240) e soprattutto salutari incursioni di “finte prose”, come le chiama il prefatore Villalta. Sono testi, questi, che seguono lo schema del consiglio o del regolamento (“ognuno dovrebbe”, “dovrebbero”, “prendi”, “quando sei stanco dormi”) e che mostrano l’autrice da un’angolatura inedita. Non mancano accenti d’ironia, pur più occasionali che sistemici, come nel sintagma “laghetto dell’io” della poesia Esempio da evitare (p. 248), ironica fin dal titolo antifrastico, da confrontare con la serissima “pozza degli affetti” di un’altra poesia (Come una ripetizione, p. 235). La vocazione esistenziale e filosofica della poesia di Lotter si esplica in non poche frasi sentenziose e dal sapore inappellabile («la nostra presenza sulla terra | è per ascoltare questi segni» o «tutto da sempre si dissolve»), il cui rischio è di chiudere le vie al lettore, di imporre un messaggio diegeticamente anziché suggerirlo mimeticamente.

Chiudiamo questa lunga rassegna con l’ultima autrice antologizzata, Giovanna Cristina Vivinetto. Molto si è scritto sulla sua raccolta d’esordio Dolore minimo (Interlinea 2018), qui riprodotta in parte, vero e proprio caso letterario (come ricorda Alberto Bertoni nella prefazione): da un lato il libro ha vinto molti premi ed è apparso sulle maggiori testate nazionali; dall’altro occorre prender atto di isolate voci critiche, come quella di Simone Burratti (qui) che al netto dei meriti tematici ne contestava «un lessico tra il desueto e il poetese e un sentimentalismo a tratti esasperante», o di Roberto Batisti che similmente ne evidenzia «i ricorsi al patetismo» (qui). Dolore minimo tematizza la nascita della vocazione poetica legandola a doppio filo alla scoperta della propria sessualità in conflitto con il corpo che si ha avuto in sorte alla nascita. Le due istanze convergono nell’alter-ego mitico dell’autrice, Tiresia, indovino che visse il prodigio del cambio di sesso durante la propria vita. Inevitabilmente questa identificazione porta un processo di mitizzazione del sé, e quindi la predilezione di toni assoluti, fortemente filtrati da un soggetto che, scisso e continuamente attaccato/ostacolato nella realtà empirica da una società che manca di comprensione (si veda la poesia a p. 323, che affronta la cattiveria e il tradizionalismo della gente quale emerge dall’espressione siciliana scansatini) compensa con un risarcimento simbolico sulla scena della pagina da dominare demiurgicamente (a ragione Bertoni parla di teatralità dei testi). Ma il libro, e anche gli inediti che sostanzialmente ne continuano l’impianto, è anche una elaborazione del lutto al rovescio: l’io si affanna a cancellare il fantasma di Giovanni, l’identità precedente, come nel bel testo a p. 328 dove si inscena un funerale simbolico («Non esisti più, Giovanni, | tamburellando le dita sulle guance | mi dico nel pulviscolo della mattina»). Tornando alle aree poetiche citate in precedenza, Vivinetto apparterebbe senza dubbio a quella dell’”espressivismo” ma con implicazioni da “poesia civile”, nell’interrogazione costante dei propri selves, nella convergenza fra testimonianza individuale e rappresentazione di una ben definita collettività (quella dei transgender). Quanto al giudizio estetico, ci sono versi molto belli e potenti (per esempio, «il pomo che inchioda alla colpa», p. 328, riferimento biblico risemantizzato nel contesto di una ibridità sessuale), buon ritmo narrativo, ma probabilmente troppa monoliticità nell’esporsi, la mancanza di lacune testuali, la distanza a tratti troppo breve dal genere diaristico in prosa. Mi si potrebbe obiettare che il tema è inseparabile dall’esposizione cruda ed esplicita; eppure in Girl, un film (scritto e diretto da uomini, questo sì) che ho visto di recente sullo stesso tema (una ragazza transessuale e il doppio calvario del mutare sesso e del diventare una ballerina d’opera) la protagonista cercava di non tematizzare la sua diversità, anzi di nasconderla, e proprio questo tentativo maldestro accentuava la tragedia e l’empatia del pubblico. Che la (una) strada della poesia stia nello svelarsi lentamente, piuttosto che subito? Ai posteri l’ardua…