*L’articolo rielabora un intervento da me presentato al Seminario Annuale di Poesia Contemporanea, 1a edizione, 12 aprile 2019, Università IULM di Milano.


Vorrei impostare questa relazione su direttive concrete e spero utili a fini di mappatura-ricognizione di un dato territorio della produzione poetica contemporanea. Si tratta di un territorio abitato da tendenze che sembrano trovare poco spazio nel dibattito critico corrente, in parte perché effettivamente minoritarie, in parte perché viste forse come attardate, e ancora in parte perché difficilmente situabili nella brutale tripartizione fra poesia lirica, sperimentale e performativa (come tutte le categorizzazioni effettuate “dall’alto”, cioè o deduttivamente o a partire da un contesto extra-letterario, anche questa ha limitazioni intrinseche in quanto a validità tassonomica).

Questo territorio sembrerebbe porsi in continuità con la Linea Lombarda storica, con un certo antinovecentismo sabiano, con una poesia dell’esperienza che fa della comunicabilità e della rappresentazione referenziale uno dei propri assunti fondanti. Al tempo stesso, tuttavia, del pop performativo evita le strategie comunicative a presa immediata, la boutade o la trovata spettacolarizzante; mentre all’io lirico quale indiscusso centro locutorio che riflette in frammenti la propria interiorità predilige un narratore esterno, o che cede la parola a personaggi e costruisce narrazioni in versi. Stile semplice e interposta persona dunque, per dirla con Enrico Testa; ma costellazione (non genealogia) da verificare su alcuni autori contemporanei nati fra la fine degli anni ’70 e ’90, e che hanno cominciato a pubblicare quando, forse non a caso, il costruttivismo post-strutturalista aveva perso almeno in parte la sua egemonia, la docu-fiction prosperava sul piano letterario e il New Realism su quello filosofico-culturale.

L’approccio sarà stilistico-comparativo; ma prima di passare all’analisi dei campioni, vorrei brevemente condividere le motivazioni che mi hanno portato a questa ricerca, nonché chiarirne alcuni presupposti teorici. Negli ultimi sette anni ho analizzato il fenomeno per certi versi opposto della difficoltà in poesia (sfociato di recente in una pubblicazione monografica in inglese), concentrandomi su autori canonizzati in ambito angloamericano e misurando questi fenomeni in termini di ricezione. Man mano che procedevo nell’analisi, diventava sempre più ovvio quello che in fondo si sospettava già: la difficoltà deriva da tecniche anti-rappresentative, anti-mimetiche, accompagnate da una “oggettivizzazione” del discorso poetico: dalla impersonalità modernista alle tecniche di collage, mescidamento dei registri, oggettualità, messa in crisi della narrazione lineare, ecc. che impediscono di individuare un locutore centrale e quindi di proiettare un mondo psicologico unitario nei testi.

L’indebolimento o il sabotaggio della rappresentazione avviene spesso per montaggi di immagini irrelate – irrelate, certo, se le norme di riferimento sono quelle del naturalismo, della verificabilità empirica, della contiguità metonimica. Mi interessava allora tornare ad approfondire il “negativo” di queste realtà testuali sfuggenti; e con esse la possibilità di una poesia in grado di creare uno spazio comune senza scadere nel repertorio dei cliché ma al contrario in grado di far riflettere (e perché no, persino commuovere) anche in virtù di uno stile in cui l’innovazione compositiva è aggirata o ridotta al minimo; in cui le marche del poetico non vengono né esibite secondo una logica iperletteraria, né estradate secondo una logica antagonista. Ho cominciato ad analizzare in un saggio queste procedure in Wilfred Owen, Marianne Moore e Philip Larkin (Owen e Larkin sono poeti spesso classificati come realisti), e adesso qui estendo il modello d’analisi sviluppato in quella sede, rendendolo più agile e meno linguistico perché diversi sono gli scopi dei due interventi.

A scanso di equivoci, il termine “realismo” nel titolo va inteso come descrittore generico, benché debitore della grande tradizione romanzesca dell’Ottocento. Non è mia intenzione scivolare in disquisizioni infinite, frustranti e improduttive su cosa sia la realtà: in un’intervista, Karl Popper invita a evitare le definizioni essenzialiste e concentrarsi invece sulla formulazione di problemi specifici, di ipotesi falsificabili. E a “realismo” Northrop Frye (1957) preferisce “modalità mimetico-realistica” (“low-mimetic mode” in inglese, dove non si trova nessun riferimento nominale alla realtà). Come affermano Kress e van Leeuwen nel loro Reading Images (1996), quando parliamo di realismo comunemente intendiamo “naturalismo” e lo giudichiamo in base a standard di accuratezza fotografica (la quale a sua volta subisce l’influsso dello sviluppo tecnologico, risente della nostra assuefazione alle risoluzioni crescenti della fotocamera dei cellulari di nuova generazione).

Allargando il campo al non-visivo, si può parlare di realismo empirico, come fa Pam Morris, la quale rivaluta il realismo alla luce del fatto che, cito in traduzione mia, «il realismo si confronta con i fatti materiali che condividiamo in quanto creature incarnate» (2003: 23). L’opposizione che mi interessa, insomma, è del naturalismo contro l’astrattismo, e in misura minore contro l’idealismo. È pacifico ribadire che il realismo così inteso è una modalità imitativa ottenuta mediante tecniche di selezione e approssimazione (certe omissioni, anche). Si potrebbe richiamare l’asse secondo cui nel primo capitolo di Mimesis Auerbach (1953) legge l’intera tradizione letteraria: l’illuminazione uniforme, esternalizzante, dei poemi omerici vis-à-vis l’allusività chiaroscurale dei testi biblici. In vario grado, e senza volerne minimizzare le zone d’ombra e le differenze individuali, gli autori che a breve andrò ad analizzare sembrano prediligere questa illuminazione uniforme o quantomeno diffusa, questa esternalizzazione dove i salti ontologico-discorsivi, l’economia espressiva e il non-detto sono ridotti – infrangendo in tal modo l’assioma lirico della polivalenza eppur restando estranei a ogni neutralizzazione “letteralista” alla Gleize; non avrei enfatizzato il concetto di “empatia” nel titolo, altrimenti.

Gli autori da cui citerò sono Valentino Ronchi (1976-), da l’Epoca d’oro del cineromanzo (2016) e Primo e parziale resoconto di una storia d’amore (2017); Roberto Minardi (1977-), dalla raccolta inedita Concerto per l’inizio del secolo; Luca Ariano (1979-), da Ero altrove (2014); Francesco Terzago (1986-), da Caratteri (2016, ma ripubblicato nel 2018); Noemi De Lisi (1988-), da La stanza vuota (2017); e Demetrio Marra (1995-), da Il primo freddo (2018). Componenti realiste nell’accezione qui proposta – ma da verificare in uno studio più ampio – coinvolgerebbero almeno anche Luca Vaglio (1973-), Alessandro Mistrorigo (1978-), Matteo Marchesini (1979), Francesco Targhetta (1980-), Andrea Italiano (1980-), Jacopo Galimberti (1981-), Raimondo Iemma (1981-) e gli “Interni” di Dario Bertini (1988-).

 

Focus descrittivo

Nell’articolo su Owen, Moore e Larkin sostengo che il focus descrittivo è funzione della specificità semantica dei sostantivi (nonché degli eventuali attributi), della dimensione dei referenti, della presenza di locuzioni avverbiali, della scelta fra articolo determinativo o indeterminativo, singolare verso plurale. Il focus descrittivo è un dispositivo realista perché si oppone alla genericità o vaghezza ermetizzanti. La campionatura che segue illustra il fenomeno (ho evidenziato in nero gli avverbiali e attributi che aggiungono specificità):

 

  1. Si raschia il barile fra sacchi di polietilene (Ariano)
  2. in una cucina anni Sessanta (Ariano)
  3. Una piccola biblioteca civica, un angolo
    di un vecchio edificio giallo vicino alle rotaie
    di un tram quasi sempre liberi quattro tavoli
    da consultazione sotto un pergolato di uva nera
    americana (Ronchi)
  4. un tavolino di legno grezzo pitturato di giallo (Ronchi)
  1. menù del giorno scritto in gesso sulle lavagne (Ronchi)
  1. le fotocopie col timbro del dipartimento (Ronchi)
  1. Io non sono più il bambino
    che giocava nella casa di montagna, sotto
    alle fronde del ciliegio selvatico e vicino
    alla casa giocattolo, di plastica e bianca. (Terzago)
  1. L’avviso di giacenza
    della raccomandata attende sulla mia scrivania,
    sta sotto a un mucchio di altre carte. (Terzago)
  1. Il poster ritraeva un prato verde dentifricio (Terzago)
  1. Ha messo
    le sue insegne gialle, Mc Donald’s, e dei larghi tavoli
    di plastica scivolosa; il linoleum di bianco sporco ha
    sostituito le maioliche smaltate. (Terzago)
  1. una statua di fronte non ha più
    un dito. Il quattro sul campanile è segnato IIII
    in numero romano. (Marra)
  1. In viaggiocon la Citroën
    grigia non colore del sasso per Matera (Marra)
  1. La forchetta d’argento era un vezzo di vecchiaia
    l’unico decoro di luce sulla tovaglia di cotone.
    Due volte al giorno gliela posavo vicino al piatto
    con lo stupore di un fremito d’invidia: “Ecco”.
    Lei si specchiava sui quattro denti lunghi e sottili
    mentre l’ornamento del manico le spariva nel pugno. (De Lisi)
  1. la bambina sarebbe meno bruttina
    se venissero lavate le macchie della pelle
    passa diverse ore al giorno a esplorare l’immondezzaio
    vi ha trovato un poliziotto di gomma senza un braccio (Minardi)
  1. La luce che rischiara un cucciolo bagnato,
    fetore della tana
    dolcezza dei passi incoscienti, scodella
    la pasta scotta con la gelatina. (Minardi)

Le funzioni variano di autore in autore: per esempio in Ariano questi attributi poggiano su quella che Morris chiama «generalizzazione referenziale» (2003: 42) e cioè fanno leva più su un immaginario comune che su una osservazione individuale; quest’ultima si ravvisa più di frequente in Ronchi, giusta la figura del flâneur nei suoi versi, il genere della biografia propria o altrui, vera o fittizia, il tentativo di trattenere quanto più possibile di una scena, un aneddoto; in Terzago la precisione denotativa, l’uso di iponimi e meronimi, sottolinea l’importanza di esercitare un rapporto conoscitivo, scientifico, con la materialità; in Marra la notazione puntuale è implicitamente polemica, invita il lettore a riflettere e a glossarla; in De Lisi la forchetta assume valenza simbolica (coniugando rito del mangiare e violenza) proprio tramite l’insistenza sul referente avvicinato in un close-up; in Minardi vi è un indulgere sulle cose umili, danneggiate o incomplete, che è al tempo stesso spia dell’empatia del narratore (di cui dirò più avanti).

Ad accomunare queste pratiche, a ogni modo, è una certa presa di distanza dall’idealismo (naturalmente nutrito di stilizzazione), l’invito al lettore a non lasciarsi andare all’immaginazione errante ma piuttosto a ricostruire, rivivere, l’esperienza percettiva suggerita dal testo. E questo invito non tanto e non solo avversa l’estetica della vaghezza in chiave neo-ermetica che mi pare assai diffusa oggi, ma va parimenti contro l’assunto che la poesia debba puntare sulla compattezza, sull’economia espressiva; le poesie di Minardi, Terzago e De Lisi, per esempio, sono spesso fluviali, affollano dettagli; lavorano insomma per addizione, non per sottrazione; ma è violando verso l’alto la massima pragmatica della quantità («non essere ridondante», Grice 1975) che possono generarsi nuove inferenze: non tanto occupando le lacune del testo, ma collegando empiricamente i dati a disposizione per ricostruire un retroterra sociale e/o biografico.

 

Empatia

Gli studi sull’empatia stanno vivendo una fase ascendente nella poetica cognitiva; in genere, si cerca di vedere se l’immedesimazione in personaggi fittizi abbia una correlazione positiva con lo sviluppo dell’intelligenza emotiva del lettore. Personalmente non mi interessa troppo questo tipo di approccio socialmente orientato, ma piuttosto – secondo una vena più tradizionale – il rapporto di allineamento emotivo e psicologico che il narratore mostra di intrattenere con i propri personaggi. Un corollario è che l’ironia, in quanto dispositivo distanziante, ha poco da spartire con questa postura, anche se in Minardi e Marra – i due del lotto con la postura morale più esplicita –  essa è usata strategicamente in momenti di invettiva o satira: vuoi contro certi cosiddetti vincenti della nostra società («pingue, respiro affannato, spinge salsicce in bocca; | se ne fotte, dice, degli animali, altamente», Minardi); vuoi contro «il presente di violenza e malaffare», come scrive Riccardo Donati a proposito di Marra. Siccome rispetto al focus descrittivo l’empatia si misura sulla media distanza del giro di versi o della strofa, questa volta ogni autore sarà affrontato individualmente.

  1. Teresa si sente come foglie secche
    cadute nell’acqua e scarpe
    che lasciano passi impantanati
    in quei giorni di buio presto. (Ariano)

Nel libro di Ariano la narrazione è extradiegetica, come si vede in (16); però la messa in tema di una persona, l’uso di un nome proprio comune, la similitudine combinata al verbo di percezione (verbum sentiendi), indica la fiducia – alcuni direbbe la presunzione – del narratore di catturare lo stato d’animo del suo personaggio, esternalizzandolo in referenti umili e concreti. Come scrive Salvatore Ritrovato nella postfazione, «egli [Ariano] si pone come un regista dietro l’obiettivo della sua penna», aggiungendo che i personaggi non hanno «niente di astratto o simbolico». Spesso Ariano ricorre a regionalismi sintattici settentrionali, come il determinativo prima del nome: «L’Andrea quasi non dorme la notte». Questa strategia permette al narratore di calarsi nella parlata dei suoi personaggi, con effetti che in ambito narratologico sono stati definiti di «coloured narrative» (Hough 1978: 50-51).

Le strategie empatiche di Ronchi appaiono più sfumate: anzitutto, al teller-mode di Ariano alterna un reflector-mode, narrazioni omodiegetiche dove chi prende parola non è necessariamente l’io empirico o biografico. Ronchi entra quindi direttamente in una voce altrui:

  1. Le bambine sono zucche zuccone
    zucchine le mie amiche, bionde e brune
    nascono nei prati e vogliono fare di testa loro
    ma poi alla fine ci accordiamo, siamo
    zucche zuccone zucchine nei prati
    fra i fiori gialli e le api operose,
    come sta scritto nel mio sussidiario.

Per valutare adeguatamente un testo come questo occorre fare uno sforzo di empatia, e cioè accettare la trascrizione mimetica dei pensieri di una bambina, con le sue ingenuità, i facili giochi paronomastici, l’uso di sintagmi-cliché («api operose»), l’indottrinamento assunto inconsapevolemente («come sta scritto nel mio sussidiario»). Sarebbe assurdo accusare un testo del genere di proporre una poetica attardata e stilizzata, perché Ronchi cede direttamente la parola alla bambina, non si scherma dietro un discorso diretto (per un confronto si può leggere Leo medita, la poesia di Pusterla che chiude Folla sommersa, dove è il figlio del poeta a prendere parola – benché lì il corsivato segnali la transizione a una voce e interiorità altre da quelle del narratore). In altri momenti, lo stile di Ronchi sembra avvicinarsi maggiormente a quello di Ariano, giusta la narrazione in terza persona e l’uso di nomi propri comuni (e al netto di una sintassi portata avanti da enjambment più continui):

  1. Nate entrambe nell’anno di grazia
    millenovecentosettantasei, Anna
    bisogna immaginarsela così, ai margini
    di Milano studiare il pomeriggio
    e uscire un’ora la sera prima della cena

Nella poesia che apre Caratteri, Terzago slitta dalla narrazione omodiegetica con discorso diretto libero («mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén | diceva») a un discorso attribuito direttamente alla nonna, che nella sua saggezza s’incarica però di esprimere tematiche care all’io lirico (la comunità degli uomini, il rapporto con la natura e l’universo, l’anticipazione del futuro, la «memoria della mortalità», come efficacemente scrive Gianmario Villalta nella prefazione al volume):

  1. Vedi lipscén le stelle
    che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che
    non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono
    dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
    a quante persone, in questo preciso momento,
    ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén –

Le incidentali e le sospensioni sintattiche, le ripetizioni fàtiche (qui del vocativo d’affetto ma non solo) sono fenomeni tipici del parlato, ma Terzago le usa anche come elementi strutturali, incantatori, senza temere la tenerezza e l’effusività che la situazione comporta. C’è quindi una fusione di mimesi (psicologica e linguistica) e di sua funzionalità in termini di poetica individuale. In effetti, anche se lo stile di Terzago appare uniforme, con la sua discorsività corposa, le strategie narrative che mette in atto sono varie: si va dal dialogismo fra un io e un tu a narrazioni eterodiegetiche dove il giudizio rimane implicito, sulla scorta di narratori come Hemingway o Carver:

  1. Un filo di pioggia viene raccolto nel grande canale
    di scolo dove questi due corpi
    gialli si stringono. I due ragazzi si bagnano
    i piedi nell’acqua che cade dal cielo
    e nel canale si raccoglie.

Questo passaggio, per inciso, mostra anche un altro procedimento tipico in Terzago, ovvero l’uso della ridondanza, del principio anti-economico della lingua: il primo verso e l’ultimo e mezzo ripetono la stessa informazione (a livello di proposizione); ma il ripeterla è un modo per rallentare il tempo della narrazione, di indugiare quasi analiticamente sulla scena. E rallentare in questo modo, quando non è indice di morbosità, lo è di empatia. L’unica spia di soggettività evidente in questo passaggio è il deittico di prossimità “questi”, che fa pensare a un inizio in medias res, a una rimodulazione delle narrazioni orali studiate negli anni ’70 dal sociolinguista William Labov (1972).

Se Terzago affida l’apertura del suo libro alla voce della nonna, la morte di nonna Rosa per Marra si configura addirittura come «un mito fondativo», come ammette l’autore:

  1. Rosa l’esemplare
    più raro vive nella casa
    della chiesa. A terra tiene
    saletta da ballo a nuovo
    e teatrino parrocchiali, mentre
    l’edera del giardino è sul terrazzo,
    si contano le fila tra i muri
    scalcinati.
    Dimmi Rosa se sei
    sopravvissuta agli antenati
    tuoi figli:
    non c’è a morire
    per prima nessuna metafora.

Come in Ariano e Ronchi (ma a differenza di Minardi e De Lisi) abbiamo la messa in rilievo di nomi propri comuni, indice di realtà (come già sottolineato da Riffaterre, 1973). Rosa è ritratta nel suo paese, che sembra interpenetrarsi in lei più che semplicemente contestualizzarla. Va notato come la vicinanza empatica ottenuta mediante l’uso del nome proprio è smorzata in ironia sottile per via dell’epiteto appositivo «l’esemplare più raro», solitamente usato per riferirsi ad animali in uno zoo o una riserva (e infatti, pochi versi prima, «Sambatello», quartiere di Reggio Calabria, è designato come «la riserva naturale / di un secolo»). Vibra in sottofondo una conflittuale compresenza di vicinanza e filtro ironico: quest’ultimo fa i conti con lo stato di abbandono e arretratezza di certe aree del meridione, stato percepito acutamente quando si è studenti fuorisede come Demetrio. Verso la fine del testo, l’imperativo di esortazione ristabilisce un contatto, anche se il domandare – come il rispondere della nonna in Terzago – ha movente conoscitivo.

In Minardi – come in Ariano e Terzago – è frequente la narrazione eterodiegetica che coglie la quotidianità di figure umili, comuni; in (22) la descrizione esterna ma partecipata sfuma in pensiero indiretto libero, e quindi in monologo interiore, nel tentativo di restituire per frammenti la complessità di vite singole eppure rappresentative:

  1. nel lattice dei palmi
    raccoglie dei pulcini e li colloca
    sul nastro che trasporta all’altra stanza
    le vene sugli zigomi si arrossano
    è sera quando si strofina il viso
    con forza, con saponi profumati
    […]
    ritorna col cervello a stamane
    il parabrezza era ghiacciato
    e c’è voluto tempo per spannarlo

Il procedere in questi testi è dinamico, con un senso accelerato del tempo ottenuto mediante un montaggio di pensieri e situazioni; minima, appartata, è l’intrusione del narratore, che nel tessuto omodiegetico di (23) si trova in una “corriera piena di forestieri in tour”:

  1. sul ciglio della strada giaceva il corpo di un cane mediterraneo
    incidentato non sappiamo da quale carrozzeria
    v’era una nebbia che lo risparmiava
    nelle zampe anteriori e incrociate, nell’occhio spiritato
    la figura riversa portava con sé il mio limitato amore

L’empatia del narratore emerge dalla precisione della descrizione, che come in Terzago indica un indugio («zampe anteriori e incrociate», «occhio spiritato») e al tempo stesso dal riserbo della reticenza, sia a livello di non-detto che di non-visto («non sappiamo da quale carrozzeria», «v’era una nebbia che lo risparmiava»): contrappeso necessario al rischio della morbosità o del virtuosismo iperrealista. Stessa tensione conflittuale nella compresenza ossimorica di understatement e iperbole («limitato amore»): la parola «amore» viene nobilmente spesa per una morte animale, secondo un sentire che cerca di distanziarsi dall’antropocentrismo; al tempo stesso, tuttavia, si riconosce la limitatezza di questa condizione, se ne sottintende sia l’insufficienza intrinseca sia quella “contingente”: l’incontro con questa morte passeggera occupa d’altronde solo poche frazioni di tempo nella percezione del personaggio-narratore, che presto rivolgerà ad altro la propria attenzione.

 

Conclusione: profilo stilistico complessivo

A questo punto pare possibile tratteggiare un primo, approssimativo profilo stilistico del realismo poetico contemporaneo. Anzitutto, è ricorrente il ricorso a tecniche romanzesche: prevalenza di referenti concreti, spesso umili e talora sgradevoli (tutti); nomi propri comuni di persona, spesso in posizione di tema (Ariano, Ronchi, Marra); altri nomi propri, sia toponimi sia di brand o istituzioni (Ariano, Ronchi, Terzago, Marra); mimesi del parlato, che a sua volta fa leva su molte strategie: regionalismi sintattici (Ariano), inserti dialettali, colloquiali o gergali (Ariano, Marra), allocuzione verso i personaggi (Ariano, Terzago, Marra) o verso il lettore (Ronchi, Minardi), onorifici (Ariano), duplicazione di oggetto o soggetto (Ronchi), sospensioni sintattiche (Terzago) e parentetiche (Marra); riferimenti al cantautorato (Ariano, Ronchi) e contaminazione fra cultura alta e pop (Ronchi, Terzago); uso vario delle categorie di discorso e pensiero, diretto e indiretto; sospensione del giudizio, e dunque “punto” della storia lasciato implicito (Ariano, Ronchi, Terzago, Minardi, De Lisi); uso di una “narrativa personale” basata sull’aneddoto o il racconto (Ronchi, Terzago) o sul diario minuzioso, quasi ossessivo (De Lisi); presenza di dati olfattivo-gustativi (Ariano, Ronchi, Minardi, Terzago, De Lisi); marche modali di soggettività, per esempio peggiorativi (e.g. giornataccia, Ariano) e vezzeggiativi polemici (ritocchino alla pappagorgia, Minardi); e infine, un ricco gioco di rifrazioni deittiche, un mescolamento di piani interpersonali, soprattutto in Ronchi, Terzago e Minardi.

Questa campionatura a volo d’uccello, è chiaro, rischia di dare un’impressione di omogeneità che invece, a leggere i singoli autori, non si ha mai: si tratta piuttosto di tangenze occasionali, arie di famiglia che derivano da presupposti genericamente realisti. Le differenze più spiccate si ravvisano, per esempio, 1. nel carattere simbolico-rituale, claustrofobico e ossessivo, della narrazione di De Lisi; 2. nell’aspetto che coniuga poundianamente mitopoiesi e conoscenza tecnica in Terzago, dove frequenti sono anche lo schema testuale del consiglio (la condivisione del sapere e dell’esperienza) e la modalità epistemica, la proiezione del futuro; 3. nelle concessioni liriche di Ariano, che talvolta suggella il quadro neoralistico con una metafora o similitudine; 4. nell’autofiction di Ronchi, che senza soluzione di continuità entra in voci altre e tuttavia da collocarsi in un simile milieu socio-culturale borghese; 5. nel carattere archeologico-allegorico di Marra (e in modo diverso, dello stesso Terzago), dove la modalità diegetica del commento, della gnome, rimane comunque forte, e la descrizione si fa campionatura esemplare, analitica; e infine, 6. nel montaggio inquieto di Minardi, la sua natura drammatico-teatrale, che mima ora l’interiorità dei personaggi con moduli da monologo interiore, e ora transita fra mimesi e diegesi con velocità fulminea, con affondi indignati («e ramoscelli a forma di onde, decapitati tronchi dal sole riarsi | serba i tuoi auguri, la sconcezza del tuo affermare, per altra occasione», L’uccisione del gallo).


Bibliografia

Auerbach, A., 1953, Mimesis: the Representation of Reality in Western Literature. Princeton: Princeton University Press.

Frye, N., 1957, Anatomy of Criticism: Four Essays. Princeton: Princeton University Press.

Grice, H. P., 1975, ‘Logic and Conversation’, in P. Cole and J. L. Morgan (eds.), Syntax and Semantics 3: Speech Acts, pp. 41–58. New York: Academic Press.

Hough, G., 1978, Selected Essays. Cambridge: Cambridge University Press.

Kress, G. & van Leeuwen, T., (2006/1996), Reading Images: a Grammar of Visual Design. New York: Routledge.

Labov, W. 1972, Sociolinguistic Patterns. Philadelphia: University of Pennsylvania Press.

Morris, P., 2001, Realism. Routledge.

Riffaterre, M., 1973, Interpretation and Descriptive Poetry: A Reading of Wordsworth’s ‘Yew-Trees’, “New Literary History”, Vol. 4, N 2, 229-256.