Sabato 11 maggio, alle 18:00  Carmen Gallo dialogherà con Tommaso Di Dio e Lorenzo Cardilli presso il Caffè Colibrì (Via Laghetto 9/11, Milano), all’interno della rassegna di incontri poetici “Giri di Chiglia“.


 

È sempre con una certa riluttanza che prendo parola a proposito della poesia di Carmen Gallo; questo perché, più che in altri casi, sento che la vicinanza alla sua poesia si è trasformata negli anni, grazie all’assiduità del confronto e dello scambio intellettuale, anche in una vicinanza fra le intenzioni più profonde. E dunque preferisco tacere, di solito, per timore di essere poco adatto a fare di quelle intenzioni un discorso pubblico, temendo di oltrepassare una misura. Due recenti occasioni  però – la presentazione del suo ultimo libro a Napoli e un’altra a Milano – mi hanno costretto ad una rinnovata immersione nella sua scrittura e mi spingono a tentare. Proverò dunque a mettere per iscritto alcune riflessioni non sistematiche su Appartamenti o stanze (Edizioni d’if, 2016) il più recente libro di poesia di Carmen Gallo; si leggano con tutta la cautela del caso: come la traccia di un lettore coinvolto.

Non è difficile, alla luce del primo libro, avvertire il grande passo in avanti che questa poetessa ha compiuto nella sua seconda pubblicazione; nondimeno, Paura degli occhi rimane ancora come una sorta di matrice e promessa di future scritture. È in un certo senso un libro non ancora compiuto. Capita a volte per i grandi libri di esordio: sono digeriti e come riflessi e sviluppati nei libri della prima maturità. È come se la promessa aperta da questa esile raccolta uscita nel 2014 non abbia ancora smesso di dare i suoi frutti e di disseminare le sue virtù migliori. In particolare, il tratto di coesione fra il primo e il secondo libro, ciò che ancora non ha smesso di agire nella scrittura di Carmen Gallo, è un elemento a mio parere centrale della poesia, ma che ritengo particolarmente necessario adesso, in questo stato della scrittura occidentale. Nella poesia di Carmen Gallo non si dà mai per scontato il modo con cui la realtà si fa presente. La poesia di Carmen, dal primo al secondo libro, in fondo, non sembra che dirci questo: bisogna stare attenti; attenti a come percepiamo e attenti a come diciamo ciò che è stato percepito. Il trapasso fra il mondo delle nostre acquisizioni fisiche (l’esperienza) e il mondo delle parole (il linguaggio) è un passaggio articolato, dove molte cose accadono: molte dileguano sì, e si perdono per sempre, ma molte, invece, soltanto qui trovano forza ed emergono. È un passaggio – potremo dire – abissale; o forse meglio: un passaggio spettrale.

Perché uso questa parola un po’ enfatica? Perché mi sembra che proprio in questo continuo sprofondare dell’intercapedine fra la viva percezione della realtà e la possibilità che le parole hanno di tradurne la vibrazione sia il luogo in cui si annida la più potente ispirazione di questa scrittrice. Dunque non fra le parole e le cose, menzognera e facile dicotomia, che seduce e semplifica: come se ci fossero lì le cose e dall’altra parte le parole e si trattasse di tratteggiare bene e unire i puntini con solerzia pedante; ma fra vibrazione emotiva e vibrazione linguistica, invece, fra questi due incompossibili che si mettono all’unisono in un luogo terzo, la poesia di Carmen Gallo trova il suo spazio più proprio.

Da questo punto di osservazione, prendono un’altra tonalità i versi con cui si chiude Paura degli occhi: «come svegliarsi || nella luce intera». L’aggettivo intera che lì sembrava alludere ad una luminosità forse troppo concettuale, qui in Appartamenti o stanze risplende di un’altra e più fisica dimensione. La poesia della Gallo sembra non voglia soltanto indagare la luce di ciò che si vede, ma un’altra e altrettanto “evidente” dimensione: la luce di qualcosa che è e dà segni di presenza, sebbene non sia manifesto nel campo del visibile. Cos’è questo, se non una voce che proviene dalle intercapedini dell’esistenza, una rifrazione abissale, spettrale? Se apriamo Appartamenti o stanze, una citazione di Emily Dickinson ci viene in soccorso e ci guida, fin dalla prima pagina. Nella traduzione dell’autrice, presente in fondo al volume, essa suona così: «la mente ha corridoi che superano i luoghi materiali». La luce intera sarebbe dunque quella che ci investe, allorquando apriamo la nostra attenzione non soltanto a ciò che è fuori di noi (alla presunta realtà), ma anche a tutto ciò che appartiene al nostro vissuto e ha fatto sì che chi vede veda così come vede. La luce intera è una luce pericolosa, dunque; spesso nella presunta realtà oggettiva ci si trova più al sicuro, meno allo scoperto; non sempre è rassicurante condividere con il lettore la nostra storia: far emergere i nostri fantasmi, dare loro parola, dargli spazio.

Ed ecco che si spiega anche la perizia che mostra la costruzione del libro. La poesia di Carmen Gallo non è mai la collezione di singoli attimi, ma costruzione di un’unità complessa. Da questo punto di vista è davvero una scrittrice di libri, più che di poesie: ha un’attitudine poematica, più che lirica. Questa mentalità d’architetto non è però dovuta al godimento algido delle strutture di per sé; ma è anzi sforzo al servizio degli spettri: perché ciò che deve emergere, essendo ormai nelle intercapedini del visibile, per essere evocato ha bisogno di una struttura, un palco, un teatro: Appartamenti o stanze. Sempre più la poesia di Carmen Gallo è costruzione della scena, una poesia teatrale, ma dove il teatro è la mente del lettore: questo è il luogo terzo, il palco dove i fantasmi vanno in scena. Tutte le figure hanno davanti a sé l’articolo determinativo, sono quelli e non potrebbero essere altro che quelli, determinati e singoli, eppure sfuggono ad una descrizione oggettiva, sono visibili soltanto per ciò che in quel momento fanno sul palco della scrittura: la poesia trascrive la scia della loro apparizione. «L’uomo in tangenziale fissa il vuoto | e l’auto rovesciata. La gente intorno | è agitata. Le donne sono arrivate | a raccogliere le sue cose. | Ogni tanto qualcuna è stanca | si ferma e fuma, seduta sul guardrail» (p. 27). Dove accade questa scena? Ci sono solo azioni: ma chi le guarda? E soprattutto di chi è la voce che leggiamo quando capitiamo su questi versi «La donna nell’albergo si è accorta | che di notte sul letto la guardiamo […] Noi intanto la guardiamo, noi la guardiamo sempre» (p.28)?

Il punto è qui, è tutto nel titolo: perché quella o? Cosa sta a significare? All’interno del libro, i protagonisti sono l’uomo, la donna, le persone. Mentre leggiamo, ci addentriamo nella conoscenza di queste figure spettrali, iniziamo a renderci conto che hanno uno spessore: dietro la loro impalpabilità, posseggono una realtà, la modificano, si muovono in essa. Ebbene, più avanziamo nella lettura più comprendiamo che il libro è il tentativo – forse non voluto, eppure consapevole – di far incontrare queste figure fra loro irrelate: dare loro lo spazio necessario e far sì che nella parola poetica, nella lingua della poesia, esse possano accadere insieme. E dunque, loro stesse scoprono che le stanze in cui appaiono sono – o meglio, possono essere legate in più grandi appartamenti: la singolarità dei fantasmi si scopre comunità di spettri. E lo ripetiamo: dove accade tutto questo? Accade nella mente; la mente è realtà; è la realtà in cui, grazie allo scandaglio evocante del linguaggio della poesia, gli spettri che animano la nostra vita possono finalmente sfiorarsi, salutarsi: «La donna con i capelli neri | ha sceso le scale con le braccia vuote. | La donna bianca l’ha salutata | con gli occhi nelle mani» (p. 21). Ma possono anche trasformarsi («La donna bianca adesso è una sedia» p. 33) e possono infine dire di sé. Infatti, mentre noi ascoltiamo, i morti parlano di noi, proprio di noi: «Adesso non sappiamo dove andare. […] Le abbiamo coperto gli occhi, e le orecchie, e la bocca con le mani. Perché non sentisse, non sapesse cosa accadeva intorno. Adesso dice che vuole vedere, ci morde le mani, decide lei quando vuole parlare» (p. 37). Più avanti nella sezione Noi siamo qui le voci spettrali invece si ammutoliscono, vengono sempre più lasciate sole: «Adesso siamo finiti in una stanza ancora più lontana. Qui è sempre buio, ed è sempre freddo. Nessuno viene più a trovarci» (p. 43).

Come se il libro fosse dapprima una manuale di evocazione e poi un esorcismo, un esercizio di sparizione, quegli stessi spettri, nell’ultima sezione del libro, come sono sorti e hanno preso parola, cadono e scompaiono. Colui che ha saputo mettere in atto, nel teatro della mente, l’evocazione delle voci spettrali è stato anche colui che le ha viste e le ha lasciate andare via, migrare «dove si gela meno» (p. 50). Ma non è finita qui; la vita è continua produzione di spettri e chi parla, poiché vive e fa esperienza, al contempo è sempre in un «nuovo ordine di calamità», in qualcosa che tralascia, che dimentica. Fare esperienza è dimenticare, sembra dirci Carmen Gallo; ma la poesia può essere esercizio di attenzione, attenzione prima di tutto al fatto che dimentichiamo e che ciò che credevamo reale, lì, solido e fermo, una certezza della nostra vita, all’improvviso può scomparire per sempre: «di giorno diresti che è solo vento | tutti i vetri che ci parlano | ma nella notte non si contano le montagne che vedevi e che di colpo | scompaiono» (p. 52).

Immagine: Claudio Parmiggiani, Labirinto di vetri rotti, Galleria d’arte moderna, Bologna.