Giungono alla fine gli incontri con i finalisti del Premio Narrativa Bergamo. Dopo Andrea GentileGiulia Corsalini e Giorgio Falco e Francesco Targhetta, mercoledì aprile, alle ore 17, alla Biblioteca Tiraboschi è il turno di Franco Stelzer con Cosa diremo agli angeli 1
Qui il calendario completo degli incontri.


 

Il nuovo libro di Franco Stelzer arriva sugli scaffali delle librerie a quasi dieci anni di distanza dal suo ultimo lavoro, Matematici nel sole (Il Maestrale 2009), a quindici dal penultimo, Il nostro primo, solenne, stranissimo Natale senza di lei (Einaudi 2003), e a diciotto dall’opera d’esordio, Ano di volpi argentate (Einaudi 2000).

Osservando la sintetica biografia dell’autore riportata in quarta, si ha subito l’impressione di trovarsi di fronte a una figura appartata rispetto alla scena letteraria italiana, fatto che desta curiosità, soprattutto se confrontato al presenzialismo a tutti i costi, sia fisico che mediatico, di molti scrittori italiani.

Cosa diremo agli angeli (Einaudi 2018) presenta una struttura anfibia, ottenuta tramite il montaggio di due anime differenti: la prima, di natura più marcatamente narrativa, è il resoconto di un narratore in prima persona, un impiegato al controllo passaporti in un piccolo aeroporto, che si autodefinisce come un «doganiere dallo sguardo triste» (p. 14). Tale qualifica è sintetica e calzante nell’ inquadrare questo narratore, impegnato ad ordire le trame potenziali delle vite dei viaggiatori che gli sfilano davanti ogni giorno.

È proprio questa programmata e insistita attività fantasticante a reggere l’anima narrativa del libro: il narratore vive immaginando gli snodi del percorso umano di un passeggero in particolare, le cui tappe regolari presso il controllo passaporti rappresentano altrettanti spunti intorno ai quali ricamare ipotesi, come un romanzo a puntate cadenzato da atterraggi e decolli.

Il narratore costituisce un punto fermo solamente occasionale, un’interposta persona (espressione chiave, questa, nell’economia poetica del libro) tra lettore e narrato, che facilmente potrebbe essere detronizzata dalla sua postazione per diventare a sua volta l’osservato speciale:

A volte penso che anche lui potrebbe cercare di figurarsi la mia esistenza, le mie serate al rientro dal turno, la vita di un tempo con mia moglie, i miei figli. E potrebbe anche farlo in modo molto accurato e analitico. Ma poi mi dico che io sono in una posizione privilegiata. Io li guardo passare, i miei viaggiatori. Loro passano, è ben diverso. 

Chi racconta non è realmente al di sopra dei fatti, come non lo è chi tiene in mano il libro. L’impressione è che il testo si risolva in un rimpiattino di sguardi fra individui accomunati dall’essere tagliati fuori dal cuore pulsante dell’esistenza: il personaggio, l’autore e perché no, anche il lettore. In alcuni momenti Stelzer crea dei giochi di specchi calibrati e mai stucchevoli, nei quali, ad esempio, chi legge segue il discorso di un narratore che mentalmente osserva il suo personaggio, che a sua volta si sorprende a spiare scene domestiche in un paese che non gli appartiene, voyeurista di vite che non sono la sua.

L’arte perdigiorno della fantasticheria si colloca in una zona dell’immaginazione dalla giurisdizione incerta, che afferisce in parte al territorio della possibilità contestuale e in parte a quello della finzione narrativa vera e propria. Stelzer è molto abile nell’occultare silenziosamente l’individuo proiettore, lasciando al lettore, dimentico dell’origine soggettiva dell’immaginazione ipotetica, solamente l’aspetto narrativo del fantasticare, conferendo in questo modo un terapeutico senso di deriva alla sua scrittura, alleggerita dall’ingombro del soggetto.

Una fantasticheria che tronca il proprio legame con il contesto si trasforma in una narrazione vera e propria, che tuttavia conserva una “piega malinconica”, per usare le parole di Paolo Spinicci, una delle voci più autorevoli in materia di filosofia dell’immaginazione, in quanto l’abbandono alla rêverie ha tutto il sapore di un progetto di fuga cosciente dalla realtà che ci circonda, che la nostra immaginazione non potrà modificare.

La seconda “anima” del libro, che ben si amalgama alla prima nel perseguire lo svaporamento della trama e dei personaggi, è costituita da una serie di riflessioni di carattere esistenziale, spesso in forma dubitativa, condotte alla prima persona plurale, che riprendono variamente il titolo del libro e costituiscono un refrain elegantemente modulato, che spezza la narrazione e garantisce ritmo e coesione alla progressione della struttura:

Che cosa racconteremo agli angeli, quando ci accoglieranno alle porte del cielo? Balbetteremo confusi. Ricercheremo una qualche formula che possa racchiuderci. Diremo che, per trovare noi stessi, abbiamo percorso strade contorte? Che abbiamo sentito più vita in un attimo di pausa al lavoro che in tanti momenti solenni? Che abbiamo fatto della sospensione, degli elementi più piccoli e marginali, il materiale collante della nostra vita? Che ci siamo commossi nel fissare una macchia sull’asfalto, e abbiamo snobbato le cerimonie più importanti? Diremo così? Che la vita ci è pulsata dentro in modo strano? E questo ci salverà? 

La scelta degli angeli come possibili destinatari di questi discorsi, misti di invocazioni, scuse e riflessioni, è interessante. L’angelo rappresenta l’assistente della divinità, un intermediario tra pianterreno e Piani Alti, il tizio con cui ti fanno parlare prima di disturbare, se necessario, il Capo; egli è anche il custode del Paradiso, palazzo d’epoca che non riceve molte visite, luogo con cui l’uomo stelzeriano intrattiene un rapporto ambiguo: a fatica saprebbe indicare dove si trova, figuriamoci schizzarne una mappa.

Questi angeli sono ottimi ascoltatori, non interrompono mai e non guardano l’orologio mentre parli; nutrono una partecipe curiosità nei confronti delle vicende umane e si mostrano benevoli e comprensivi nei confronti di queste fragili mura di parole imbastite nel libro, che non sono delle vere e proprie narrazioni, ma che restituiscono il sapore della parola pronunciata e un sentore di poesia.

Quest’ultima annotazione porta inevitabilmente ad abbozzare qualche considerazione sulla lingua del libro, forse la principale motivazione che rende felice l’esperimento. Cosa diremo agli angeli ha uno stile che mescola sapientemente stilemi comunemente considerati “alti” ad una sintassi brevilinea e brachilogica, che premia la concisione a sfavore della subordinazione. L’autore fa largo uso del punto fermo, senza però farne una religione, garantendo efficacia e incisività, anche grafica, alla sua pagina. Ecco un esempio di come questi due aspetti della scrittura di Stelzer interagiscano, incastonando formule ricercate, dall’aggettivazione ardua, all’interno di una sintassi relativamente piana, che non respinge il lettore non specializzato:

Diremo agli angeli un’infinità di cose, alcune sicuramente balzane. […] Diremo loro che baciare lo spessore di una foglia è un piacere senile da orafo attempato. Perché si può baciare una foglia. Si può, anche in presenza di una grande differenza d’età, dato che le foglie muoiono di continuo e non riescono a invecchiare. Certo, si tratta di un piacere difficile, insidioso. Forse importuno e, tuttavia, non riprovevole. 

Probabilmente, soprattutto in questo momento storico, l’Italia avrebbe bisogno di più opere come questa, capaci sia di attrarre un pubblico eterogeneo, di età e competenze differenti, che di mettere d’accordo critici e lettori. Per usare una formula critica coniata da Vittorio Spinazzola in Le articolazioni del pubblico novecentesco, questo libro rientra nel novero della cosiddetta letteratura istituzionale, categoria alla quale appartengono «opere sottese da una ricerca di equilibrio tra la conferma delle modellistiche tradizionali e le varianti innovative introdotte dalla personalità autoriale».

Eppure, durante la lettura, un interrogativo andava formulandosi nella mia mente, riproponendosi con maggior veemenza una volta giunto alla fine: che senso può avere includere un testo del genere nella cinquina di un premio letterario?

Mi rendo conto che, posta in questo modo, la questione potrebbe gettare in cattiva luce il lavoro di Stelzer, che è esattamente ciò che vorrei evitare, dal momento che Cosa diremo agli angeli è un libro significativo e il comitato scientifico del Premio Bergamo, che si è sempre distinto per la biodiversità del suo ecosistema e per l’eterogeneità delle sue cinquine finaliste, ha fatto più che bene a selezionarlo.

Forse il problema non esiste affatto ed è solamente l’incarognimento di chi scrive a parlare, eppure fatico a scacciare il dubbio che siano proprio i pregi specifici di questo libro a renderlo un outsider rispetto alla logica del premio letterario in generale, che nell’Italia di questi anni ha reso ancora più meccanico lo scatto di alcuni suoi ingranaggi, i quali appaiono ben lontani dall’essere smantellati.

Cosa diremo agli angeli è un libro per statuto schivo, appartato e marginale, che, come si è detto, produce in chi legge un senso di deriva: è un libro assolutamente onesto, a suo modo etico. Tuttavia, basta osservare i titoli che recentemente si sono guadagnati gli ultimi importanti premi letterari per comprendere come queste caratteristiche non sembrino fare grande colpo sulle giurie, e soprattutto sulla loro componente popolare.

Se gli aspetti ragionativi e i poetici pensamenti in esso contenuti sono davvero alla portata di tutti, nel senso più nobile dell’espressione, il fatto che il testo sia privo di una trama forte e memorabile, di quelle che, per intenderci, lasciano il lettore con la pancia piena e magari anche con la coscienza civile appagata, è sicuramente un punto a sfavore all’interno della logica di un premio.

Il libro non offre grandi affreschi, né storici né sociali, ma parla alle fragilità quotidiane dei lettori, succhiandogli insieme un po’ di veleno dalle ferite, senza furbizie tematiche e senza accodarsi alle mode letterarie più recenti. Per concludere, spero che il mio scetticismo sulla presenza di un libro come questo nella cinquina del Premio Bergamo sia smentito e che questa mia tirata abbia avuto, nel suo piccolo, una funzione apotropaica.

Cosa diremo agli angeli è un libro che non afferra un bel niente, non attacca, anzi lascia andare ogni cosa per partito preso, di continuo: così facendo, collateralmente, si guadagna i propri lettori.


 

cosa diremo agli angeliFranco Stelzer, Cosa diremo agli angeli, Einaudi, Torino 2018, 136 pp. 13,00 €