Mercoledì 6 marzo, alle ore 17, cominciano gli incontri alla Biblioteca Tiraboschi con i finalisti del Premio Narrativa Bergamo. Apre Andrea Gentile con I vivi e i morti (minimum fax 2018). 
Qui il calendario completo degli incontri.


 

I vivi e i morti di Andrea Gentile si presenta sin da subito come un romanzo di difficile classificazione.
Il testo sembra porsi programmaticamente al di fuori di ogni catalogazione letteraria, esattamente come la sua ambientazione principale – la vallata del degradato e tetro villaggio di Masserie di Cristo – si colloca al di là dello spazio e del tempo, in una dimensione distante da pretese di verosimiglianza e, al contempo, trucemente immersa nella materialità più concreta. Nonostante l’omonimia con il piccolo abitato in provincia di Isernia, zona dalla quale Gentile proviene, Masserie di Cristo si dimostra infatti uno spazio caratterizzato da tratti stranianti e inclassificabili.
In questo grottesco paesino che funge, insieme, da sfondo e da protagonista del romanzo, i personaggi di I vivi e i morti si districano in una sequela di eventi inspiegabili: c’è chi sparisce nel nulla, chi si suicida costringendo la propria figlia ad aiutarlo, chi si inoltra in catacombe perdute, un po’ prigione un po’ tempio, a parlare con vecchi saggi attraverso un minuscolo buco nel muro; e poi chi per amore cambia identità, chi l’identità l’ha sottomessa ad un mestiere (tanto da ridursi a chiamarsi soltanto “Taglialegna”, “Ispettore agrario”, senza altri nomi), e poi i morti, i morti che ritornano, i morti che comunicano dall’aldilà o che vengono a camminare tra le strade dissestate di Masserie di Cristo, a trasformare in oltretomba questo borgo già lontano dalla vita. Il contesto sembra fare il verso alle realtà provinciali e campestri italiane di qualche decennio fa, riempiendole di crudeli imposizioni sociali, di anacronismi tecnologici e di convenzioni surreali che stridono acutamente con le necessità di una vita misera e faticosa, schiacciata dal peso del lavoro.
Sarebbe un errore stupirsi di questi accavallamenti, di queste contraddizioni nel “realismo” della trama di I vivi e i morti: le vicende si susseguono alternando momenti surreali a momenti verosimili senza soluzione di continuità, costruendo un’atmosfera rarefatta, dall’equilibrio tremolante, nella quale il soprannaturale non irrompe quanto piuttosto emerge, quasi trasudando dalle case di fango e paglia del terribile villaggio, nel quale «è da considerarsi del tutto naturale, dunque, la catena di efferatezze, ferocie e ribellioni e tanto altro (in altre parole: carne ammassata e imputridita, cancheri, sangue e deviazioni) che attanaglia, di questi tempi, questa terra tremebonda» (dal capitolo 5/Seppellimento).
Sono poche le situazioni nella quali i personaggi mostrano stupore per i fatti assurdi e illogici che si presentano sulle pagine. A differenza di quanto accade nel fantastico (e nel weird), qui la deviazione dalla normalità e dal “paradigma di realtà” riconosciuto non suscita meraviglia né stupore. Nei rari casi in cui viene evidenziata la sorpresa per l’ennesimo episodio grottesco, essa serve ad aprire la strada ad altri spazi di normalizzazione dell’insensato, come quando Alberico – un giovane orfano che fa da servo ad un abitante del paese – si accorge dopo molti anni che la tomba in cui andava a pregare la madre non è quella giusta, scoprendolo semplicemente perché legge il nome inciso sul sepolcro.
Questa scelta narrativa sembra derivare direttamente da Kafka e da Dürrenmatt, due autori che incombono su Masserie di Cristo con la stessa potenza dell’uomo-cervo adorato dagli abitanti della terribile cittadina: in diversi passaggi sembra di trovarsi nelle scene soffocanti de Il castello (più che de Il processo), o dinanzi a personaggi direttamente imparentati con Il torturatore o Il vecchio.
A queste penne maestre nel campo del surreale – e non, ripetiamo, del soprannaturale – va poi forse aggiunta quella più recente di Ligotti, che ritroviamo non solo per la continua delineazione di un delirante teatro grottesco, ma anche per le descrizioni di spazi urbani e pseudo-urbani in un perenne stato di degrado, uno scadimento talmente estremo da assurgere a condizione esistenziale del luogo; alcuni ambienti vengono descritti diverse volte e in diverse occasioni, come avviene per le prigioni di Masserie, luogo di violenza allucinante e di penitenza grottesca, derivato in maniera evidente dalle Carceri dipinte da Piranesi.
Le ispirazioni di I vivi e i morti però non sono soltanto letterarie o pittoriche, tanto che nel capitolo 18 / Sopravvivenza il pranzo tra Olimpio e Alberico ripropone in modo molto fedele una scena topica del film Il cavallo di Torino di Tarr, opera che si basa su una rarefazione del tessuto del reale affatto distante da quella proposta nel romanzo di Gentile.
Le derivazioni dal carattere oscuro e l’insistenza sui temi della morte, della brutalità e dell’odio non devono però trarre in inganno riguardo alla natura di questo testo. I vivi e i morti, ad esempio, non è un horror: nonostante il dispiego di un (nutrito) campionario di situazioni disturbanti, il quid del romanzo non risiede nelle scene incentrate su repulsione e orrore.
Esso si accosta maggiormente, sebbene in modo peculiare, al gotico delle origini – e cioè non agli inseguimenti tra vivi e morti in labirintici castelli sperduti, con cui pure sono imparentati alcuni dei luoghi più angusti vicino a Masserie di Cristo, ma piuttosto all’indulgere sulla persecuzione, al concentrarsi sui dettagli dello sviluppo dell’odio e dell’avversione. E sebbene in questo romanzo le vittime designate non siano eroine tormentate come quelle del Monaco di Lewis, ma piuttosto bambini indifesi o adolescenti, il modo in cui le loro vite vengono schiacciate dalla barbarie attenta e raffinata degli adulti riecheggia distintamente la crudele angoscia del gotico di fine Settecento. Eppure la sofferenza di Alberico – e poi di Italia e Assuntina, entrambe figlie di padri morti in maniera atroce – chiama sempre altra sofferenza, e aguzzini e vittime si scambiano spesso di posto in questo vorticante girone infernale.
La forza principale del lavoro di Gentile, però, sta nel modo con cui viene costruita questa impalcatura di opprimente e soffocante nonsenso. Lo stile si basa su un preciso incastro paratattico, fondato su un ritmo ferreo e dall’incedere meccanico, atto a delineare le sfumature più torbide degli stranianti scenari di Masserie di Cristo; eppure questo ordigno inarrestabile sa anche incepparsi, bloccare il tempo delle battute rigide e ferme, soprattutto grazie al ricorso ad elenchi che vengono inseriti nel discorso quasi fossero zeppe atte a riequilibrare o a piegare tutto il tavolo. Così le descrizioni martellanti e inclementi dei fatti si fermano di colpo su liste di elementi semplici o complessi (con una certa preferenza per l’accostamento per asindeto, in luogo del polisindeto), snocciolati l’uno dopo l’altro con un gusto quasi rituale o liturgico:

Per quanto la mente cerchi di ottenere, sempre, continuamente, un po’ di pace, questo non accade mai. Se c’è però un momento in cui questa ambizione viene lambita, questo non può che essere il momento del funerale. I funerali sono il luogo del mondo. Sono: mostrare un oggetto che è lontano come se fosse vicino. Sono: unione. Sono: un demone a cui è possibile afferrarsi. (21/Giustizia).

Parrocchiale è anche la personalità dell’Io narrante, una mente immersa nell’angosciante cultura di Masserie di Cristo, in cui tutti conoscono tutti ma ognuno ha un segreto da nascondere – un mistero cui si allude con malignità e indifferenza, da un’ottica provinciale infettata da una tremenda, ancestrale rassegnazione al male che tocca qualsiasi cosa. Con uno straniamento dal sapore verghiano (in una Vita dei campi dove l’assurdità della lotta sociale s’è fatta disperata rissa esistenziale), Gentile affonda il punto di vista del narratore all’interno della mente offuscata della “gente” di Masserie, pur consentendo di cogliere i tratti di quotidianità e di normalità che talvolta sgusciano fuori dal teatrino di marionette impossibili.
Alternando narrazione al presente e al passato remoto, l’autore contribuisce a sospendere il tempo e lo spazio del narrato – i quali, abbiamo già visto, sembrano collocarsi in un contesto imprecisato – costruendo un discorso che oscilla tra il comico e il tragico, alternando la prosaicità delle conversazioni quotidiane a improvvise distanziazioni. E le distanziazioni stesse non solo rendono ancora più alienanti le situazioni vissute dai personaggi, ma anche contribuiscono a fissarle in una dimensione lontanissima e sterile, un’epica di fango, sudore e abiezioni che appiattisce la millenaria storia di Masserie su un unico piano di odio perenne. A ciò si aggiunga il tono di alcuni dialoghi, in grado di restituire allo stesso tempo il peso del tragico e il nonsenso più annichilente, talvolta con un’impostazione teatrale che potrebbe ricordare in parte Beckett:

Bussano a una porta. Nessuno apre. Bussano a una porta. Apre un paralitico. Non sa rispondere. Vanno via. Dopo vari tentativi – tra veleni aerei, pensieri osceni, passaggi di scolopendre, tortuosi percorsi tra vicoli e crinali di montagna – giunsero di fronte a una porta. Fuori c’era scritto: Professore.
Bussarono. Nessuno aprì.
Bussarono. Aprì un uomo.
«Professore! Che bello rivederla. Sono il giudice Govone. Mi permetta di presentarle i miei sodali».
«Qui non c’è nessun Professore».
«Professore, non si ricorda di me?»
«Certo, lei è il giudice Govone. Quante avventure insieme».
«E allora, Professore? Lei vuole dirmi di non essere il Professore».
«Lo fui».
«Ma lei è qui, davanti a noi».
«Non vede che non ci sono? Non vede che sono morto?»
(35/Magna carta)

I vivi e i morti trova la propria ragione soprattutto nello stile adoperato da Gentile, che in alcune pagine raggiunge risultati di altissimo livello (memorabile, per chi scrive, la disamina sui camposanti del capitolo 31 / Cimitero: «Dove c’è dissolvimento tu sei carne e materia. Non sei che un bue ammalato, un albero senza corteccia. Non si può che attendere fiduciosi il giorno in cui affonderai e ti farai, anche tu, relitto»), giostrandosi attorno ad un italiano elastico e vario, capace di alternare la rigidità dei termini esatti – numerosissimi quelli afferenti alla sfera vegetale – alla vaghezza superficiale del parlato più dimesso. Eppure talvolta il testo sembra ripiegarsi eccessivamente su sé stesso, sacrificando ogni pretesa di trama – la quale, dal canto suo, abitua sin troppo presto a suicidi repentini e brutalità insensate – ad un amplissimo spazio concesso all’esercizio di stile, al punto da suscitare l’impressione di un certo autocompiacimento. Il romanzo, dunque, incorre troppo spesso nel rischio di apparire una semplice impalcatura su cui stendere raffinati schemi linguistici, lasciando da parte le vicende vere e proprie, e indugiando sin troppo sul proprio stesso raccontare (tanto che una eventuale limitazione nella lunghezza, probabilmente, avrebbe giovato all’intera economia del testo).
Nonostante ciò, I vivi e i morti resta un esperimento – in larga parte riuscito – importantissimo nel panorama italiano contemporaneo, poiché dimostra la capacità di trasmettere una peculiare declinazione di surrealismo tramite un elaborato e consapevole lavoro stilistico. Una volta che ci si è immersi nella lugubre e odiosa Masserie di Cristo sarà impossibile riuscire a dimenticare le sue catapecchie, i suoi sotterranei aggrovigliati, e i suoi cuori neri e spenti.


i vivi e i morti

Andrea Gentile, I vivi e i morti, minimum fax, Roma 2018, 549 pp. 18,00€


L’immagine di copertina è tratta dal film Il cavallo di Torino di  Béla Tarr (2011).