Jacopo Ramonda, esordiente con Una lunghissima rincorsa (Bel Ami, 2014) e poi incluso nel XIII Quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2017), ha da poco dato alle stampe il suo secondo libro, Omonimia, pubblicato da Interlinea nella collana Lyra giovani. Nella prima sezione (Nomi) si ritrovano, con alcune aggiunte, alcune prose del Quaderno, le quali sviluppano narrativamente vicende di personaggi dotati di nome proprio; a ciascuno sono dedicate dalle due alle cinque prose. La seconda sezione è quella eponima (Omonimia) e raccoglie un ampio gruppo di testi inediti (e per questo motivo mi ci soffermerò maggiormente), costituito da prose brevissime in prima persona che cominciano così: “Mi chiamo Andrea”.

Qui la ricerca dell’autore si sofferma sull’omologazione e l’affievolimento dell’identità, accentuati dall’ambiguità di genere insita nel nome Andrea. I tanti io di queste prose sembrano sfaccettature di uno stesso personaggio, oppresso da un senso di deriva, di insignificanza, di rovina e di disgregazione. In nessuna confessione si accenna a una possibilità di cambiamento: una condizione di stasi imprigiona questi cloni, degni discendenti dei personaggi di Svevo. Nessuna traccia del narcisismo contemporaneo, della costante esibizione dell’appagamento, di cui il libro offre semmai il risvolto e la critica più amara.

Per queste ragioni si potrebbe riscontrare un precedente nei Personaggi precari di Vanni Santoni (RGB, 2007; Voland, 2013), in cui esistenze comuni dai tratti anche grotteschi venivano ritratte attraverso poche righe. Tuttavia Santoni, per volontà mimetica, rappresenta il degrado esistenziale partendo dal degrado linguistico: si accumulano espressioni sciatte e superficiali, che potrebbero presagire un omologo piano esistenziale. In Ramonda al contrario anche lo squallore o l’acredine sono ingabbiati in una prosa levigata in cui il piacere dell’intelligenza riempie di dignità anche gli aspetti meno gradevoli dell’esistenza.

Si potrebbe istituire un confronto anche con Progetto per S. di Simone Burratti (Nuova Editrice Magenta, 2017), il quale analogamente attua una decostruzione dei miti correnti e insegue un (auto)ritratto poco entusiasmante, quando non squallido o deprimente. Eppure le tecniche sono molto diverse: Burratti crea un’opera incrinata e dissonante, costituita da testi simili nel tono ma disparati nella forma, puntando su una disomogeneità che riflette la deriva del soggetto; Ramonda punta invece su un progetto unitario e coeso, sulla compiutezza dell’opera, sintomo di una volontà di chiarezza autoanalitica nonostante la deriva del soggetto. In Burratti si sente il grido, in Ramonda la musica.

A questo proposito, un ulteriore merito di Omonimia risiede nella varietà delle scelte espressive. Tutte le prose convergono verso un unico ritratto e ognuna mantiene una fisionomia particolare. Dov’è il trucco, verrebbe da chiedere. Di seguito ne seleziono alcune, dando per motivi di spazio preferenza a quelle più brevi (nel libro i testi sono numerati ma disposti senza un criterio numerico):

#487 Mi chiamo Andrea e vivo nella città in cui sono nata: un comune di confine, sospeso tra due lingue.

#457 Mi chiamo Andrea. Penso che io e te supereremo lo squallore e le miserie della coppia, le trappole dell’amore: ne usciremo – non indenni – ma vivi, e insieme.

#55 Mi chiamo Andrea, sono sposato, ho due figli. Penso che l’amore sia una tenia.

#14 Mi chiamo Andrea, e ho la sensazione che sarà una corrente mite quella che ci porterà alla deriva.

#779 Mi chiamo Andrea, e ormai sono irriconoscibile.

Puntellata di pause o distesa in un respiro unico, ciascuna prosa tiene in allerta il lettore. Un fattore comune è il passaggio dalla banalità alla sorpresa conclusiva: forse è dalla frizione tra l’omologazione e la lucidità intellettuale e figurativa che sorge la meraviglia. Lo scarto avviene sempre attraverso vie differenti: che sia un’immagine, un paradosso, una logica conseguenza, il finale funge da centro di gravità di questa scrittura, che non si limita a una referenzialità distaccata ma la scolpisce con energia inventiva, ovvero poetica.

Per chiudere si potrebbe ricordare un passo di Benjamin: «quel che uno ha vissuto è nel migliore dei casi paragonabile alla bella statua che nel corso di vari trasporti ha perso tutte le membra e ora offre soltanto il prezioso blocco di marmo nel quale egli dovrà scolpire l’immagine del proprio futuro» (da Strada a senso unico, Einaudi, 1983). Trascurata una vaga somiglianza tra queste righe e una prosa di Ramonda in cui compaiono due persone ritratte in una foto solamente dal torace alle ginocchia, si potrebbe intravedere nelle esistenze mutile di Omonimia lo stesso stupore di chi osserva un busto corroso, il residuo di un ideale evaporato. Eppure, nonostante il senso di perdita, qualcosa sopravvive in chi guarda, anche fosse solo una scintilla estetica.


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Jacopo Ramonda, Omonimia, Novara, Interlinea, 2019, pp. 144, € 12.