Prendete una giovane scrittrice californiana al suo primo romanzo, un tema capace di suscitare clamore come la famigerata Family di Charles Manson e uno stile cristallino, che evoca visivamente scene e personaggi con pochi e sapienti tocchi: è probabile che otterrete un libro di successo, forse addirittura un “caso letterario”. Sono elementi che balzano subito all’attenzione del lettore e che sicuramente hanno contribuito alla popolarità de Le ragazze, il romanzo di Emma Cline edito nel 2016 da Einaudi.

Le ragazze, però, non è solo questo. La scrittura nitida di Cline dà forma a una storia che, pur ambientata principalmente durante la celebre summer of love californiana, non contiene quasi nessun riferimento pop all’epoca. Non troverete il Vietnam, i Beatles, gli hippie; ma ci sono comunque violenza, musica, una comune in cui si assumono droghe. È quasi impossibile terminare il libro senza digitare “Charles Manson” su Google, ma il famoso assassino non è il protagonista della storia né viene mai approfondita la sua personalità. Il romanzo infatti racconta la vicenda della Family, un gruppo di giovani, perlopiù donne provenienti da contesti familiari difficili, che furono affascinati dal carisma di Manson e abbandonarono le loro città per seguirlo in California, dove diedero vita a una sorta di comune nell’estate del 1969. Dopo qualche tempo, il leader sfruttò la sua influenza per spingere i membri del gruppo a compiere gli omicidi cruenti che aveva pianificato.

Nonostante il referente storico preciso, Le ragazze è una storia senza tempo, e per renderla tale Cline ha adottato due espedienti fondamentali. Il primo è la tecnica narrativa del flashback, che permette all’autrice di prendere le distanze dal 1969: la protagonista, Evie, ormai adulta, ricorda i fatti della sua adolescenza. In questo non c’è niente di originale, anche se la corrispondenza tra Evie adulta e adolescente è la prima delle tante simmetrie che costituiscono l’impalcatura della storia.

Il secondo accorgimento con cui l’autrice libera il racconto dai vincoli della cultura pop dei sixties è l’adozione di un punto di vista specifico, che non viene mai abbandonato nel corso della narrazione: il mondo è raccontato attraverso occhi femminili. Il senso del titolo, così semplice e quasi banale, sta tutto qui. Le donne sono le vere protagoniste, sia che si tratti della madre di Evie, ancora ben lontana dall’emancipazione femminile, sia delle ragazze della comune di Manson (Russell nel libro), che arrivano a compiere un delitto atroce per lui ma alla fine, al momento dell’arresto da parte della polizia, «sputavano per terra come conigli rabbiosi e si accasciavano a peso morto», dimostrandosi più forti di Russell, la cui cattura è talmente rapida da essere «pietosa». (pp. 332-333). Diverse volte, durante la lettura, mi sono chiesta se un uomo possa comprendere a fondo certe dichiarazioni di Evie:

A quell’età, il desiderio era spesso un atto di volontà. Uno sforzo tremendo per smussare gli angoli più ruvidi e deludenti dei ragazzi dandogli la forma di persone che potevamo amare. […] A distanza di anni avrei capito questo: quant’era impersonale e disorientato il nostro amore, che mandava segnali in tutto l’universo sperando di trovare qualcuno che desse accoglienza e forma ai nostri desideri. (p. 44)

O ancora:

Il timore che mi giudicassero soppiantò qualunque domanda o perplessità potessi avere su Russell. A quell’età ero, prima e più di tutto, una cosa da giudicare, il che in ogni rapporto alterava le dinamiche di potere a favore dell’altra persona. (p. 93)

Non serve far ricorso alla psicologia criminale per capire le dinamiche della comune creata da Russell: le ragazze che ci vivono soffrono per la mancanza di qualcuno che riconosca il loro valore. Si sono riunite intorno a una figura maschile, ma in realtà si sentono forti in quanto costituiscono un gruppo estraneo alle strutture della società che le ha rifiutate:

Erano in tre, così lontane che vedevo solo la periferia dei loro lineamenti, ma non importava: capii subito che erano diverse da tutte le altre persone del parco. Famiglie che ciondolavano, vagamente in fila, aspettando che fossero pronte le salsicce e gli hamburger messi a cuocere sulla griglia. Giovani donne in camicia a scacchi che correvano a stringersi al fianco dei fidanzati, bambini che lanciavano gemme di eucalipto ai polli dall’aria selvatica che infestavano il vialetto. Le ragazze da capelli lunghi sembravano scivolare su tutto quello che le circondava, figure tragiche e isolate. Come una famiglia reale in esilio. (p. 3)

E neppure il movente del cruento omicidio messo in atto dalle ragazze è un mistero: ha a che fare con l’essere donna, con l’odio che tale condizione può suscitare:

L’odio che doveva aver provato Suzanne per fare quello che aveva fatto, per affondare il coltello a ripetizione come se stesse cercando di liberarsi da una frenesia malata: un odio di quel genere non mi era sconosciuto. L’odio era facile da provare le sue varie forme costanti negli anni: uno sconosciuto a una fiera che mi ficcava una mano in mezzo alle gambe sopra i pantaloncini. Un tipo sul marciapiede che faceva finta di saltarmi addosso e scoppiava a ridere quando sobbalzavo impaurita. […] L’odio che vibrava sotto la superficie della mia faccia da bambina, penso che Suzanne l’avesse riconosciuto. Certo che la mia mano aspettava il peso di un coltello. La particolare cedevolezza di un corpo umano. C’era così tanta roba da distruggere. (pp. 329-330)

«The ghost of ’lectricity howls in the bones of her face», cantava Bob Dylan in Visions of Johanna: Emma Cline sembra voler ribaltare una certa visione idealizzata della donna, per mostrarci che l’elettricità che corre sotto la superficie della sua faccia, in realtà, spesso è fatta di odio.

L’autrice riesce così a farci osservare il mondo da una prospettiva ben specifica, mantenendola sempre ben chiara grazie a una serie di accorgimenti. Infatti, come accennato prima, la struttura del racconto si regge su corrispondenze e simmetrie, il cui asse è costituito figure femminili: da una parte ci sono la madre di Evie, Evie adulta, Evie adolescente e la giovanissima Sasha, le cui vicende si giocano tra il presente e il ricordo dell’estate del 1969; dall’altra, come in un’immagine in negativo, le ragazze della comune di Russell (Suzanne, Helen, Donna, Roos). La congiunzione tra le due parti è assicurata dal rapporto tra Evie e Suzanne, il fulcro del libro, attraverso cui Cline riesce a raccontare l’ambiguità di luce e ombra che caratterizza certe amicizie femminili. Le protagoniste infatti sono accomunate dal bisogno opprimente di essere amate o, meglio, di essere continuamente guardate, nella convinzione che lo sguardo dell’altro sia la prova inconfutabile del suo affetto: «Tutti vogliamo essere guardati», afferma Evie con semplicità lapidaria. (p. 332)

È questa necessità il vero leitmotiv del romanzo, il motore del meccanismo narrativo ben oliato che Emma Cline ci invita ad ammirare costruendo una lunga serie di situazioni speculari, la cui perfetta corrispondenza rende ben solido il racconto, pur privandolo in parte di realismo.

Intorno alle relazioni tra i personaggi femminili, che sono l’asse portante del libro, ruota una costellazione di figure maschili dalla personalità priva di sfumature. Tutti gli uomini, dal padre di Evie a Russell, hanno come maggior preoccupazione quella di ridurre le ragazze a figure controllabili, tentando di farle rientrare a forza in caratteristiche definite. Le ragazze oscillano fra il desiderio di affermarsi per quello che sono e la tentazione di rassegnarsi a ricoprire il ruolo loro richiesto, pur di ricevere una dimostrazione di affetto:

Tom si allontanò dalle altre e io lo seguii a passi incerti, come se la distanza potesse impedire il contagio. Continuavo a girarmi verso il gruppo delle ragazze, che stavano tornando verso la veranda. Avrei voluto essere con loro. Ero incazzata nera con Tom, i suoi stupidi pantaloni, la sua zazzera.
– Che c’è? – dissi. Insofferente, con le labbra tese.
– Non lo so, – rispose Tom, – penso solo che… – Esitò, scoccando uno sguardo alla casa, dandosi una sistemata alla camicia. – Potresti tornare indietro con me adesso, se ti va. Stasera c’è una festa, – disse. – Allo studentato.
Già me l’immaginavo. I Ritz, i gruppetti di ragazzi impegnati raccolti attorno alle ciotole di ghiaccio mezzo sciolto. A parlare del movimento studentesco e a confrontare gli ultimi libri letti. Io ostentai disinteresse, alzando appena una spalla. Lui sembrò prendere quel gesto per la falsità che era. (pp. 284-285)

Ed eccoci di nuovo al motivo conduttore del romanzo: alle ragazze manca qualcuno che le ami per quello che sono e che glielo dimostri. Per un momento sembra che Russell possa riservare loro tale attenzione, ma quando anche questa illusione crolla non resta che esprimere tutto il proprio odio in un gesto di violenza estrema, cioè l’omicidio.

Alla fine, rimane il tentativo di Suzanne di salvare Evie dalla rovina: le due ragazze vivono l’esperienza della comune di Russell una al fianco dell’altra, ma, al momento di prendere una decisione irrevocabile, le loro strade si separano. Paradossalmente, questo le unisce in modo più profondo, perché ciascuna delle due può vedere nell’altra il proprio destino mancato, in un’ennesima immagine speculare che costituisce il culmine del romanzo.

Emma Cline dà così vita a una storia che, pur contenendo la sensazione di un’epoca i cui riferimenti pop sono fin troppo noti, va oltre i limiti storici della summer of love californiana: l’autrice ci costringe a confrontarci con uno dei desideri umani più profondi, che attraversa luoghi e tempi diversi, ossia la necessità di essere guardati dagli altri.

E se è vero che il personaggio di Evie ha caratteristiche simili ai protagonisti di tanti romanzi di formazione, più o meno noti, l’originalità de Le ragazze risiede nel modo in cui Cline tratta la vicenda della Family di Manson. Nel romanzo, la storia della comune creata dal celebre assassino non è solo un fatto di cronaca dai risvolti sociologici interessanti, raccontato con grande abilità narrativa, ma ci mette di fronte a un interrogativo fondamentale: cosa siamo disposti a fare pur di essere guardati?


Eclinemma Cline, Le ragazze, Einaudi, Torino 2016, 344
pp. 18€