A prima vista, Last days of California non può sembrare altro che un libro profondamente americano: in copertina, il titolo in arancione brillante campeggia su una strada diritta circondata di cactus. La strada è il simbolo che più di ogni altro contiene l’essenza della letteratura made in Usa: il pensiero corre subito a Kerouac e Steinbeck e, guarda caso, la meta sognata dai protagonisti di Furore è proprio la California, la terra in cui tutti i sogni possono realizzarsi.

Ma il romanzo offre al lettore qualcosa di più della strada che corre in copertina: Last days of California si appropria della narrativa on the road, ormai divenuta un vero e proprio genere, e la reinventa spingendosi ben oltre una semplice ripresa di noti temi americani.

L’autrice è Mary Miller, nata a Jackson, Mississippi, e questo è il suo primo romanzo. A portarlo in Italia è stata la casa editrice Clichy, che ha puntato parecchio sul libro: è uscito due anni fa inaugurando la collana Black Coffee, che raccoglie «le voci più fresche del panorama americano» e intende «sfidare gli schemi per stimolare una risposta nel lettore». Quest’anno è uscito l’undicesimo volume della collana, L’amante di Wittgenstein, un romanzo amato da David Foster Wallace e che ha dato ulteriore lustro a una collana di cui vale davvero la pena riprendere in mano il primo libro.

Non sembra un caso che Last days of California sia il capostipite dei Black Coffee, quasi a rispettare il valore archetipico che l’idea del viaggio verso l’ignoto ricopre nella letteratura americana. Un’intera famiglia parte da Montgomery, Alabama, verso la California: il padre è un fervente religioso e vuole condurre la moglie e le due figlie adolescenti a partecipare alla Seconda Venuta di Gesù Cristo sulla Terra. La storia è raccontata dal punto di vista di Jess, la figlia quindicenne, nonché l’unica a essere a conoscenza della gravidanza della sorella maggiore. Mary Miller ci fa vivere la versione postmoderna del più frequentato topos della letteratura occidentale, il viaggio, dal punto di vista di un’adolescente che ancora deve scoprire tutto del mondo e di se stessa.

Non troverete le vite al limite di Kerouac o la povertà e l’eroismo dei personaggi di Steinbeck: il romanzo ruota intorno a qualcosa di molto più comune e su cui tutti, da adolescenti, si sono interrogati: la famiglia, il corpo, la religione. I tre temi si intrecciano l’uno all’altro nella vita e nei pensieri di Jess, che, tra una catena di fast food e l’altra, comprende come le illusioni in cui ha sempre creduto siano solo degli schermi protettivi. Se si vuole vivere davvero, bisogna infrangerli, anche al costo di vedere sotto una luce diversa ciò che dà più sicurezza, come i genitori e la fede religiosa:

Papà trova parcheggio e ci si infila. China il capo. Recita la solita preghiera, seguita da una pappardella farneticante in cui invoca aiuto e coraggio. Ne avrai bisogno, penso, ficcandomi in bocca un anello di cipolla e masticando silenziosamente. (p. 180)

Sembra impossibile imparare a vivere in un mondo di cui si sono perse le coordinate. I tentativi compiuti dalla ragazza per orientarsi si svolgono dal mercoledì al sabato: ogni giorno costituisce un capitolo del libro, facendoci avvertire fino in fondo la sensazione di ripetitività dei lunghi viaggi in auto. La narrazione è una continua variazione sullo stesso tema, come in un poema epico del XXI secolo, attraverso paesini sperduti, stazioni di servizio inquietanti, motel squallidi ma pieni di vita.

È in questi luoghi che prende forma un volto diverso del viaggio, più nascosto, ma che colloca inequivocabilmente il romanzo nella cultura contemporanea. La formazione della personalità di Jess passa attraverso la messa in discussione del rapporto con i genitori e la sorella: le persone che fino a poco tempo prima erano punti di riferimento sicuri, sempre uguali a se stessi, improvvisamente rivelano insicurezze e insopportabili difetti. L’instabilità dei legami familiari è un problema assente in romanzi novecenteschi come Furore, in cui l’unità tra genitori e figli è un fatto certo, al punto che grazie ad essa i protagonisti superano diverse difficoltà sulla strada per la California. Nell’America di oggi, invece, la dissoluzione della famiglia tradizionale è un problema molto avvertito (per averne un’idea si possono leggere i discorsi di Vonnegut in Quando siete felici, fateci caso, edito da minimum fax), a cui Mary Miller dà forma attraverso i suoi personaggi. Inoltre, per Jess la famiglia è legata a doppio filo alla religione: guarda caso, un’altra istituzione in crisi nel mondo contemporaneo. La protagonista tenta faticosamente di liberarsi dal controllo che essa esercita sul suo senso morale e, soprattutto, sulla sfera della sessualità. In preda a dubbi spirituali, telefona al pastore della propria chiesa, ma anziché essere rassicurata riceve un invito ambiguo e sconcertante: «“Dimmelo” comanda. “Cosa?” “Quello che fai quando sei da sola”» (p. 214).

Il viaggio, dunque, fa precipitare Jess in un deserto esistenziale che sembra avere un corrispettivo esteriore nel deserto intorno alla periferia di Phoenix, in cui si svolge il finale del libro. Eppure, il viaggio è anche il punto di partenza per la costruzione di un’identità nuova, che nasce grazie all’incontro con una galleria di personaggi dipinti dall’autrice con pochi tratti, ma senza mai ricorrere a stereotipi. Sono i protagonisti di un mondo che vive nelle camere dei motel e che anima i ristoranti da quattro soldi e le stazioni di servizio: un’intera realtà che non vive secondo le regole del mondo di Jess e che per questo fa paura, ma è molto più autentica del microcosmo in cui la ragazza è abituata a muoversi:

In tre stanno giocando a carte seduti al tavolo, mentre Erik e una tizia guardano la TV senza volume. Fuori, altri tipi gironzolano davanti alla porta, fumano sigarette, chiacchierano.
«Ciao» mi dice uno.
«Io sono Jess» dico porgendogli la mano. […] Gabe mi presenta agli altri. Sono tutti belli ma ciascuno ha almeno un paio di difetti: acne, cosce grosse, capelli crespi, nei sporgenti, nasi a uncino, troppe gengive quando sorridono, occhi troppo vicini o troppo lontani. Non devo essere perfetta, quasi nessuno lo è. Perché penso sempre di dover essere perfetta? E tutta questa gente fa sesso. Mi guardo intono e penso, Tu fai sesso, e anche tu e anche tu. (p. 156)

Così Jess si rende conto di quanto il mondo sia sconfinato nella sua varietà, al punto da dichiarare che «chi parla di omogeneizzazione in America si sbaglia: davvero non c’è un posto uguale a un altro» (p. 183), ed è proprio qui che interviene la possibilità del cambiamento: la personalità della protagonista si trasforma parallelamente al mutare del paesaggio fuori dal finestrino dell’auto. Ecco quindi che il libro, come accennato all’inizio, diviene qualcosa di più di una semplice vicenda on the road, raccontandoci cosa significa crescere nella società di oggi, uscire dai confini certi del mondo familiare, pur rimanendo immersi nella ripetitività del quotidiano:

Buffo come un momento si può essere una cosa e il momento dopo non esserlo più. […] Guardo l’ultimo biscotto, una vaschetta di marmellata ancora chiusa. La afferro e tiro la linguetta nera, la prova che nessun altro l’ha toccata, poi prendo un cucchiaio pulito e lo sollevo davanti alla faccia. (p. 262)

Ultimata la lettura, il romanzo lascia l’impressione di essere andato al cuore della profonda analogia tra la vita e il viaggio che da millenni affascina gli uomini: in entrambi, tutti i giorni sono al tempo stesso uguali e diversi e solo lasciandosi alle spalle ciò che si conosce si può scoprire qualcosa sul mondo e su se stessi. Come nella miglior tradizione letteraria americana, il viaggio sulle strade senza fine che attraversano gli Stati Uniti comporta una messa in discussione delle convinzioni della protagonista: il movimento esteriore è l’impulso necessario a esplorare la propria interiorità, come due viaggi che procedono di pari passo. Inoltre l’autrice ha compiuto un’importante operazione di rinnovamento su questo schema consolidato, realizzandone una versione contemporanea. Per farlo, ha adottato il punto di vista di un’adolescente del nostro tempo e ha condotto il lettore a osservare, attraverso lo sguardo della protagonista, la disgregazione di alcuni punti di riferimento della società, così che la riflessione di Jess riportata sulla quarta di copertina suona esatta:

Si sente sempre dire che il mondo è piccolo, ma è solo per farlo sembrare un posto meno terrificante. Il mondo è enorme. Non mi ero mai resa conto di quanto fosse grande fino ad ora. (p. 178)

Probabilmente il nostro secolo è quello in cui si è ripetuto più volte che il mondo è piccolo, grazie alla connessione che lega tra loro le più lontane parti del pianeta. Eppure, sembra dirci Mary Miller, se cadono certezze e istituzioni che un tempo ci definivano, ognuno deve faticosamente trovare un modo per orientarsi nel mondo senza indicazioni che ci si spalanca davanti.


 

clichyMary Miller, Last days of California, Edizioni Clichy, Firenze 2014, 250 pp. 15€