* Questa recensione riprende, con integrazioni, un articolo pubblicato su «Poesia», n. 305, giugno 2015.

Il numero dei vivi, ultimo libro di versi di Massimo Gezzi (classe 1976, già autore di Il mare a destra, Atelier 2004, e L’attimo dopo, Luca Sossella 2009), si apre con due epigrafi: la prima è un frammento di Simonide, intitolato Il tarlo e tradotto da Filippo Maria Pontani: “Nessuno è mai perfetto e indenne al mondo”; la seconda è il titolo e l’ultimo verso di un componimento di Yves Bonnefoy: «L’imperfection est la cime». Di quest’ultimo vorrei citare la poesia per intero nella traduzione di Daniela Grange Fiori: «È vero che occorreva distruggere e distruggere e distruggere, | È vero che la salvezza era a quel prezzo. || Devastare il volto nudo che affiora nel marmo, | Martellare ogni forma ogni bellezza. || Amare la perfezione in quanto soglia, | Ma conosciuta negarla, dimenticarla morta, || L’imperfezione è la cima». La tensione tra perfezione e imperfezione, tra bellezza e negazione, informa la poesia di questo libro, mosso dalla consapevolezza che l’imperfezione è l’unico stato possibile, all’interno del quale si svolge la vita umana.

I vivi, il cui numero è indefinibile, oscillano compressi fra un tempo che precede la loro nascita e un tempo che segue la loro morte: sovente lo sguardo di Gezzi si rivolge al tempo in cui non ci saremo più, eppure esso non si distoglie da quel momento capitale e festoso che è la venuta al mondo. Proprio questo evento sembra suggerire il titolo del libro, dedicato alla figlia Caterina. Tra permanenza e fuga, «nelle brevi parentesi | di questi istanti» in cui viviamo, anche la terra registra il nostro passaggio, nascondendo nel suo ventre «arcate, muri, | volte di granai e la fornace | circolare in cui cuocevano gli operai | i materiali di costruzione», fino poi a calarsi vertiginosamente nel «buio inesplorato, | la verticale del silenzio». C’è una poesia che si intitola Dissolvenza e che esprime la frizione tra il desiderio di durata e l’inevitabile caduta nel buio:

«Quando si sentiva quella musica,
di là dalla finestra,
e noi non volevamo che smettesse,
e se smetteva
tutti in riga con gli occhi schiacciati
ad aspettare un’altra nota,
un’altra scala ascendente,
perché quella era l’unica cosa
piena di senso quella sera.
E immaginare quali mani la suonassero,
ancora, quale gola sussultasse
in quel riso intermittente. E dopo quali abbracci
e quali umori, se la notte spingeva
la sfera della terra ancora un grado
nel buio, e una dopo l’altra le finestre
scolorivano nel nero…».

Il discorso diretto, l’originale architettura del periodo, gli indugi e gli isocoli, le rime a distanza, movimentano la partitura, che dalla semplice richiesta di un prosieguo della musica arriva a dire con precisione astronomica il movimento del pianeta e l’incalzare della notte. Come Bonnefoy esortava a devastare e dimenticare la bellezza, così per Gezzi la bellezza emerge alla superficie e ricade nell’informe, imperfetta perché distruttibile. Anche i luoghi, che sono già stati riempiti da inquilini passati e accoglieranno inquilini futuri, offrono di volta in volta l’intimità a nuovi passanti: tutti transitiamo tra spazi che non ci appartengono, traghettati a questo mondo «da un passato di generazioni» e vocati a fare spazio ad altre nascite per poi sparire. Non è negata «l’esultanza di pochissimo», l’azzurro del cielo può riempire uno sguardo, «la leggerezza delle sorprese» allontanare alcuni pesi: sappia anche questo, chi entra nel numero dei vivi.

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Ho scritto queste considerazioni appena uscito il libro (si possono leggere anche su «Poesia», n. 305, giugno 2015). Ma, come sempre, qualche nocciolo di insoddisfazione resta rileggendole e confrontandole con il volume recensito. Vorrei perciò ritornarci partendo da un filo: quello dei ritratti («ognuno irripetibile e nel suo breve | splendore indimenticabile, | dimenticato»). Che cosa di noi lascia un segno? Questa domanda preme nello sguardo di chi osserva un affresco quattrocentesco, conservato non in perfetto stato: i due giovani sposi sono già lontani, coperti da cinque secoli di lontananza, sopravvissuti nella forma corrosa di un ritratto, intenti a pronunciare un sì colmo di promesse, che appare tanto labile e fuggitivo ai nostri occhi. Battistina Campofregoso e Ambrogio Contrari scendono dalla cronaca per entrare in un altro racconto, quello dell’arte, così lontano dalla tangibilità della vita: ciò che possiamo vedere non è più che una forma sbiadita e manchevole. La relazione tra osservatore e affresco non è guidata da una riflessione estetizzante, ma dalla constatazione che un destino di dissolvenza è inscritto in ogni traccia, e che la vita si allontana come un pulviscolo di forme irreplicabile. Non a caso la parola “attimo” ricorre con frequenza nel libro (e già appariva nel titolo del precedente): quando leggiamo “in un attimo” o “per un attimo” è come se un lampo illuminasse la scena nella sua durata istantanea; come se prima qualcosa era opaco e ora è investito da una luce abbagliante e prende corpo. Ma c’è anche attesa per l’avvenire: «Ogni giorno ti indovino in qualcuna, | ti spio nel futuro, ti proietto | negli spazi che saranno solo tuoi». Si avverte l’ansia per il momento della separazione tra un padre e una figlia: l’assenza del genitore è già messa in conto, e si converte in uno sguardo che fruga vanamente lontano. Il ritratto della figlia resta incompiuto, aperto a un futuro imprevedibile. Tutto questo (il passato di Battistina e Ambrogio, il presente del poeta, il futuro della figlia) si annoda nella poesia proemiale: il «Dopo-adesso, voglio dire, | dopo-prima, anzi meglio: durante» risulta un’enigmatica scansione fedele allo scorrere della vita, agli attimi e alle durate aggrovigliati nello sguardo dei vivi, per i quali, nonostante la precarietà, rintocca l’imperativo: «Difendi questa luce».

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Ho sempre avuto un’impressione di ariosità leggendo questi testi; poiché è difficile esprimerlo criticamente, mi limiterò a passare in rassegna alcune immagini che possano corrispondere alle prime definizioni di “arioso” che ho trovato sul vocabolario online Treccani: «spazioso, e perciò pieno di aria e di luce», «aperto, esposto all’aria». Se leggiamo di alcuni scheletri ritrovati «con la testa alle colline e la spina | a perpendicolo del mare», si forma subito un contrasto tra la chiusura della tomba e questo spazio che si estende senza limiti formando un paesaggio che solo i vivi possono gustare. Il contatto con la lontananza, o con una luminosità che si diffonde, torna insistente in due chiuse della prosa Nove cose che capitano: «vede la luce di una mattina di marzo riflessa da tutte le superfici specchianti del pianeta»; «è una bella mattina di marzo, il cielo è limpido, il mare di lontano continua a risplendere azzurro». La stessa apertura appare in altre poesie: per esempio Due ritrattazioni I segue il viaggio dei semi nell’aria dalla Cina a Lugano, a volte anche tramite le persone (paragonate, in chiusura, al vento); in Due variazioni su un’ossessione II il breve elenco di alcune specie marine trasmette la vertigine della varietà naturale, che ricorda una pagina de Il vecchio e il mare di Hemingway. La stessa vertigine può coglierci di fronte a una sfuocata metamorfosi lessicale: delle foglie portate lontano e trasformate, «nessuno saprà dire se platano, olmo, acero o castagno. Diranno ‘ragnatela, gambo, pagina, telaio’». Potrei continuare citando altri versi, ma mi fermo qui, nella convinzione che l’ariosità sia un quid essenziale della poesia di Gezzi, e che rientri nell’ambizioso e raro progetto di «abitare poeticamente la terra» che ispira uno dei testi più sorprendenti del libro.

 

Massimo Gezzi, Il numero dei vivi, Roma, Donzelli, 2015, pp. 87, € 17,00.