Non accade a tutti e non sempre è una benedizione. Che lo spirito di un corpo estinto resti attaccato alla terra e alle sue abitudini mortali, che continui a fare, imperterrito, le stesse cose che faceva in vita. Come se un sortilegio lo obbligasse alla permanenza e un immobile perpetuarsi della terra lo aiutasse a sentirsi, sempre, “appropriato” e “attuale”.

Lo spirito di Pasolini continua a parlare. In un modo strano da quarant’anni, col boato del silenzio. Anche senza la sua voce e la sua lingua, attraverso la lingua imperfetta di chi riesce a captarlo. Snocciola la sua cantilena eterna e sempre nuova, di sfumature e accenti, rimbalzando dalla sfrontatezza crudele della denuncia al gusto malinconico della rappresentazione.

Pasolini Pier Paolo è la quintessenza del contestatore, la coscienza infelice, e certo scomoda, dell’Italia alla deriva: quella degli anni ’70, della mutazione antropologica e dell’Io so ma non ho le prove, e di questa presente, incagliata tra un’incerta modernizzazione e la replica stucchevole dei suoi vizi antichi. Come sarebbe se il Grande Contestatore, il contestatore malinconico e incandescente, provasse oggi a descrivere il Belpaese? Se riuscisse a completare il ragionamento sull’Italia circolare e gattopardesca abbozzato negli Scritti corsari? È un azzardo immaginarlo, e una tentazione: troppo invitante perché lo spirito di Pasolini non s’infiltri nello spiraglio e si espanda e se ne venga fuori con un discorso magari sgraziato, apocrifo ma ancora plausibile.

Secondo un vecchio adagio, sostiene, l’Italia è un Paese di santi, poeti e navigatori. Meglio di qualsiasi discorso, a illustrare i caratteri dell’italico genio sarebbero questi tipi; e un paio di altri aggiunti all’occorrenza: il genio e il pazzo, l’eroe e il puttaniere. Per la verità, precisa, ogni popolo ha i suoi santi, i suoi poeti e i suoi impavidi esploratori; tanto più che, con rispetto parlando, queste sono le eccellenze e le eccezioni. Il popolo italiano, quello vero, dovrebbe essere pressappoco la “massa informe” di persone che si agitano nel recinto della loro, a volte aurea e più spesso oscura, mediocrità. Per catturarne lo spirito, più che agli “alti cimenti” del pensiero, alle imprese dell’eroismo e della dedizione, bisognerebbe forse guardare alle piccole e illuminanti “miserie” quotidiane. E soprattutto, invece di dar credito a motti e aforismi, fidarsi delle barzellette. Dove l’Italiano è quasi sempre il furbo, il maneggione, in ogni caso la figura più comica; eppure di una comicità dal retrogusto amaro, che si ammanta, dietro le apparenze, come di un velo di tragedia. “Farsa”, la vera dimensione dell’italiano è la farsa: una tragicommedia che mescola ingredienti e sapori, uno spettacolo spesso così estremo da sfociare nel paradosso.

Qualche strambo “Manuale di italianità”, se mai esistesse, spiegherebbe che la tipica farsa italiana si compone di quattro momenti: 1) la quiete; 2) la crisi; 3) la ricomposizione; 4) la rimozione. Vale la pena approfondire.

1) In condizioni di normalità l’Italia è il Paese di Bengodi. Non semplicemente il Belpaese, ma il luogo del benessere, se non proprio materiale, almeno psicologico. L’Italia è l’unico paese in cui tutti, ma proprio tutti, stanno bene. Sbuffano, si lamentano, vagheggiano un’antica Arcadia in cui tutto era più bello, ma in fondo stanno bene. E stanno bene perché conoscono fin nei più intimi recessi la difficile arte di accontentarsi. Forse per questo nella storia italiana ha avuto tanta fortuna la figura del capopopolo: uno che parli, rassicuri, che si prenda tutte le responsabilità e – perché no? – tutti i meriti.

George Bernard Shaw diceva che ogni progresso viene da quelli che non si accontentano. Per questa ragione dagli italiani, la massa degli italiani, non può venire alcun progresso. L’Italia non è il paese delle rivoluzioni appunto perché il popolo italiano è capace di adeguarsi a qualunque condizione: lo fanno stare in poltrona e si bea; lo buttano su una sedia di paglia: si gira, si rigira e si adatta; lo piazzano su uno scranno: gli fa male il sedere, si lamenta e poi si abitua; lo mettono in ginocchio: lacrima, bestemmia e impara a camminare a quattro zampe.

Gli italiani sono irriducibili nel sacrificio, nella sopportazione, nell’inazione. Non solo non se ne vergognano ma addirittura la ammantano di filosofia, arrivano a intenderla come una virtù: una consapevolezza superiore di cosa sia in realtà la vita, un brandello di “saggezza orientale” o una specie di divina indifferenza.

Ma l’Italia è pure il paese del disordine o, meglio, dell’ordine casuale. Uomini, mezz’uomini ,pigliainculo, ominicchi e quaquaraquà si trovano sparsi alla rinfusa, mescolati senza il minimo rispetto per la gerarchia dei talenti. Il mecenatismo rinascimentale sopravvive in forme ostinate e spesso squallide: caste, circoli e clientele sono più forti di qualsiasi istituzione. In tutti gli ambienti serpeggia l’istinto alla sudditanza, intesa non come sottomissione (alla maniera del servo che sotto sotto disprezza il suo padrone) ma come cieca adulazione in cambio di favori. Il modello del self-made man è un riferimento per pochi: meglio affidarsi all’intercessione di qualche potente che affrontare gli incomodi di farsi strada da soli, specie se non se ne hanno i mezzi e le capacità. È una forma di pigrizia, e di truffa, anche questa.

Per pigrizia e convenienza l’Italia è il Paese dei facili “ismi”: idee e costumi che diventano mode, bandiere dietro le quali correre (o sotto le quali nascondersi) per tutti quelli che non hanno tempo e voglia di pensare i propri pensieri. E per pigrizia, allo stesso modo, l’Italia è anche il Paese dei bastiancontrari, dei provocatori a tutti i costi, di quelli che vanno sempre e comunque controcorrente per il gusto di fare scalpore, all’insegna del motto “Bene o male, purché si parli di me”. Nel quarto d’ora di celebrità, del resto, la via facile celebra il suo trionfo.

Ma tant’è: gli italiani hanno una tendenza inguaribile a seguire i cattivi esempi e una straordinaria capacità di imitazione, che ricorda certe scimmie dispettose. “Se lo fanno gli altri perché non dovrei farlo anch’io?”. Sono furbi, e come tutti i furbi hanno il terrore di passare per fessi. Code di paglia, sentono il bisogno di difendersi anche quando non c’è nessuno ad attaccarli. Bugiardi, mentono innanzitutto a se stessi; e così, per un eccezionale gioco di prestigio, riescono a conservare le mani sporche e la coscienza pulita. Guitti, cerchiobottisti, campioni di diplomazia cardinalizia, non hanno nemici (quantomeno nemici che durino) e per questo non si prestano ad essere amici fidati.

2) Serve l’impatto devastante di una disfatta, il contraccolpo di una Caporetto inattesa, per svegliare le coscienze di questi mammiferi insonnoliti. Quando infuria la bufera, allora gli italiani sentono il bisogno di darsi una scrollata, di reagire. Pescano al loro interno energie insospettate: messi alla briglia, sull’onda dell’emozione, danno il meglio di sé. Ma con calma.

3) “Dagli all’untore!” è la prima parola d’ordine. Alle prime avvisaglie di tempesta i nostri campioni di incoscienza cadono dalle nuvole, scaricano le responsabilità sugli “altri”, su un gruppo imprecisato di altri, senza accorgersi che gli altri somigliano in modo impressionante al loro riflesso nello specchio. Poi, quando il problema assume proporzioni catastrofiche, si indignano, alcuni davvero altri per finta; provano un moto di repulsione verso la vita alla quale si sono abbandonati, la realtà che loro stessi hanno contribuito a creare. Per un lungo attimo scatta dentro di loro la molla del riscatto.

Purtroppo si tratta per lo più di un riscatto a orologeria, a tempo determinato, e nel peggiore dei casi di semplice apparenza, moda o maniera che si voglia chiamarla. È il modo di salvare l’immagine quando il marcio viene a galla: si agisce in superficie, si smuovono le acque per saziare la sete di cambiamento e si aspetta che passi il peggio. Ci si sbarazza frettolosamente del vecchio, troppo frettolosamente perché l’operazione sia credibile; si aprono superficialmente le porte al nuovo, troppo superficialmente perché il nuovo attecchisca; e intanto lo si passa al microscopio, si cercano le magagne, si insinuano i dubbi, le incertezze, si innesca la logica perversa del “si stava meglio quando si stava peggio”.

La reazione al pericolo è singolare. Il bisogno di cambiare qualcosa è forte, urgente; come la consapevolezza dell’errore. Ma ancora più forte è l’amore per se stessi, per le proprie abitudini, perfino per i propri difetti, che vanno sempre bene purché aiutino a vivere tranquilli. Rifiutando le soluzioni più logiche, gli italiani si lambiccano il cervello per trovare il modo di cambiare senza cambiare, di proiettare all’esterno (a cominciare dal proprio specchio) una nuova immagine di sé e restare in fondo tali e quali a prima.

Cambiare tutto per non cambiare niente”. Cambiano magari i nomi, le facce; ma la lezione dei “vecchi” resta, così come il loro spirito, perché in fondo è lo spirito di tutto un popolo.

4) La quiete dopo la tempesta. Indubbiamente gli italiani hanno una sensibilità particolare per l’odore della paura, si trasformano quando entra in circolo l’adrenalina. Ma è un effetto reversibile: non appena l’emergenza cessa, tornano alle loro beate abitudini, alla continuità senza memoria, all’amore per la tranquillità, alla cura del particolare che sta scritta nella loro storia e probabilmente nel loro DNA. Scampato il pericolo, fatalmente gli italiani ridiventano quelli di sempre, quelli che ai matrimoni si ingozzano al grido di “mangia, l’abbiamo pagato!” e ai funerali singhiozzando sussurrano “Meglio a lui che a noi”. Sono “umani”, nel senso che all’umanità dava Terenzio. “Homo sum: nihil humanum a me alienum esse puto”. Nel loro carattere, nei loro difetti e nei loro pregi (compassione, indulgenza, un certo coraggio da ultima spiaggia) c’è tutta la gloria e la miseria di essere uomini. È questo che più degli altri li rende poeti, eroi e navigatori, solo incidentalmente di mari.

Sembra di vederlo, lo spirito con la faccia di Pasolini: sguardo errante, fronte ampia, guance scavate, contratte in una smorfia ironica e dolorosissima. Giura che, per i sensi e l’intelletto, gli italiani sono uno spettacolo meraviglioso; ma  guai a pretendere che siano onesti, severi o giusti, che onorino il merito, che seppelliscano l’invidia, che rinuncino alla menzogna o resistano alla tentazione della via più facile. Se così fosse l’Italia sarebbe più seria e meno “pasoliniana”: lo spirito di Pasolini esulterebbe pacificato, forse perfino si compiacerebbe di zittirsi. Invece Pasolini resta Pasolini – lo spettro che infesta il castello – e gli italiani rimangono se stessi: fantasmagorie irridenti intorno a un porto nella nebbia. Non serve ricordargli, come ammonivano i “padri Romani”, che attraverso un agire concreto, e sofferto, la lotta leale, l’aspro confronto con le circostanze si arriva alle stelle. Loro nicchiano, fanno spallucce; per ritrovarsi a dire, mischiando fatalismo e prosopopea, “Così va il mondo”.