Pubblichiamo un estratto dell’intervista L’interminabile parola data, uscita su «Cuadernos de filología italiana», vol. 21, 2014.

Vorrei cominciare dall’ispirazione, con le parole che Merleau-Ponty, in La prosa del mondo, ha usato per l’arte del pittore: «È un uomo al lavoro, che ritrova ogni mattino, nella configurazione che le cose assumono ai suoi occhi, lo stesso richiamo, la stessa esigenza, la stessa incitazione imperiosa alla quale non ha mai finito di rispondere. La sua opera non si conclude: essa è sempre al futuro. […] Altre volte, e più tristemente, è l’interrogazione sparsa attraverso gli spettacoli del mondo che cessa di pronunciarsi. Allora il pittore non è più o è pittore onorario». Ti sono affini queste parole? Temi che si esaurisca il richiamo delle cose?

Belle, queste parole di Merleau-Ponty. È vero, non si smette mai di rispondere al richiamo di cui parla, urgente e imperioso. Non possiamo sottrarci. Non cessiamo mai di scoprire l’anima nascosta di ciò che vediamo ogni giorno e che magari pensavamo di avere esaurito. Improsciugabile è l’anima di questo richiamo. Se cessasse, non saremmo più poeti e nemmeno uomini. Si spegnerebbe in noi ogni sorgente, non solo quella della scrittura. Diventeremmo, come dice Merleau-Ponty, poeti “onorari”, che è un’espressione molto efficace per significare la maniera, l’inerzia, l’opera ridotta a una rifinitura. No, non temo che questo richiamo smetta di interpellarmi. Temo piuttosto di non trovare più una via espressiva per rispondere. E se tale via non è davvero nuova e sconosciuta, se si limita a una rendita dello stile, bisogna trovare la forza di tacere. Piuttosto di mascherare la propria aridità con il mestiere, meglio fare silenzio. Questo silenzio, almeno, ci consente di non sfregiare quello che di vero abbiamo già scritto.

“Come un luogo intero / come un’improvvisa eternità”: questi due versi di Biografia sommaria danno voce all’improsciugabile scoperta delle cose. Il luogo intero è dove tutto si condensa in unico sguardo? Contiene un tempo non lineare?

Ci sono luoghi che aspettano – con una loro ansiosa gioia – di essere nominati. Sono luoghi carichi di attesa, dove si riuniscono e trovano unità i frammenti dispersi di un’esistenza. Luoghi interi, li abbiamo chiamati. Luoghi che radunano intorno a sé pomeriggi, volti, giochi. Luoghi che diventano un complemento di tempo. Tempo continuato. Tempo che confluisce lì, radunando altri tempi e altre stagioni. Si realizza così un’improvvisa eternità, come tu hai notato. E bisogna mantenere vivo sia il senso dell’improvviso sia il senso della durata. Durata e attimo devono essere vivi e sposarsi. Diventare una sola figura. Il mito nella cronaca, la contingenza in ciò che permane. La luna nei falò. La musica delle sfere nella sirena di un’autoambulanza, un incidente stradale nei rottami di un’intera esistenza, il ragazzo che si buca sulla panchina nella morte che abbiamo sfiorato anche noi, nelle nostre morti segrete…

Nel tuo ultimo libro parli della parola come del “pane che si mescola / al sangue”, e in un’altra poesia dici di aver amato “l’interminabile parola data”. Quando nasce questa parola vitale? Il nostro tempo umano è legato al tempo delle parole?

Ho sempre sentito, fin da bambino, la sacra ricchezza dell’espressione “dare la parola”. Significa affidare a chi legge la nostra parola ma anche consentirgli di parlare; e infine dare una garanzia di verità, fare una promessa che si deve mantenere. Per questo la parola poetica è una parola non ritrattabile, una parola d’onore. È una parola che nutre (il pane) mescolandosi alla parte più vulnerabile di ciò che siamo (il sangue) ed è al tempo stesso la vita e la morte. Credo che tale parola nasca insieme a noi, fin dall’inizio, che si annidi in qualche parte oscura di noi (le cantine) e che a noi spetti il compito di tradurla, letteralmente: extra ducere, condurre fuori, permettere la sua vera nascita, l’ingresso nel tempo umano di cui parli, un tempo che non può esistere senza l’onore della parola poetica.

Il mondo è trasparente o enigmatico? Bataille ne L’Erotismo scrive che «l’essere amato è, per l’amante, la trasparenza del mondo». Sei d’accordo? Potrebbe essere un’epigrafe immaginaria per Tema dell’addio?

Per istinto e per trasporto darei sempre ragione a Georges Bataille. Ma in questo caso non mi è possibile. Tema dell’addio è un libro divorato dal contrasto e dalla presenza elettrica degli opposti. Non è dato qualificare una creatura umana senza entrare nella sua convulsione, nelle spire di un’antitesi permanente, nella spaccatura di ogni consecutiva: tutto è così evidente da diventare misterioso, tutto è così buio da scagliarci sul viso una folgore. Per questo non posso sentire chi ho amato come la trasparenza del mondo.

Che cosa è lecito domandare a un poeta?

La domanda che noi facciamo a un poeta si plasma su quella che il poeta stesso fa alla sua poesia. La forza e l’ampiezza della nostra domanda si sposa con la forza e con l’ampiezza della sua. E d’altra parte il valore di un poeta ha un rapporto con quello che lui chiede ai suoi versi. Si può passare una vita intera su Hölderlin, come hanno fatto Guardini o Houdebine, perché sentiamo che per lui stare con la poesia era una questione di vita o di morte.

febbraio – settembre 2013